sabato 15 maggio 2010

E' usicto il N 3 di Sottotraccia


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Contro il disagio giovanile: una voce comune

Sulla condizione giovanile sono stati versati mari d'inchiostro, intere generazioni di sociologi, psicologi, preti (non mancano mai) e giornalisti d'ogni ordine e grado, nel corso degli anni, hanno dato vita allo psicodramma corale del “disagio giovanile”: una sorta di entità astratta in cui si mescolano problemi reali ed immaginari e che detiene il poco invidiabile potere di dissolvere cause reali di problemi concreti nella mistica dei turbamenti (post) adolescenziali.
Ad onor del vero l'immagine che emerge dalle interviste ricalca molti tratti essenziali di rappresentazioni ben più quotate quali quella dello IARD, sostanzialmente i giovani vengono immaginati e quindi si immaginano come una massa amorfa senza particolare solidarietà generazionale, azzerata culturalmente sui valori della famiglia e dell'edonismo personalistico e che prova a tirare a campare in un eterno “presente liquido” la cui mitologia, fruibile in tutte le stagioni, diventa particolarmente utile per tagliar corto, liquidando una seria ricerca delle cause dell'immobilità generazionale nel bel paese. In effetti quello che colpisce dalle interviste non é tanto quanto l'immaginario dei giovani sia stato colonizzato dai discorsi fatti (da altri) su di loro, quello è relativamente normale, visto che gli unici “autorizzati” ad esprimersi sui turbamenti esistenziali della gioventù del bel paese hanno da tempo superato gli “anta”; quello che merita di essere osservato è l'impossibilità di individuare una causa: esiste una percezione di un disagio reale, diffuso, che indubbiamente si attesta su una linea generazionale (oltre che ovviamente di genere, di classe, di eredità etnica) ma tutti i discorsi su questo “male oscuro” non riescono ad individuarne le cause politiche e strutturali. Facciamo un esempio concreto; tutti i ragionamenti sulla precarietà, sulla dipendenza dal nucleo familiare trascurano un fatto fondamentale ovvero il fatto che si sta discutendo della condizione giovanile in un paese che, allo stato attuale, non ha alcuna politica di welfare per i giovani e questo è completamente ignorato dai giovani stessi, debitamente addestrati a considerare normale una situazione profondamente anormale. In Italia l'istruzione costa cara, non si può dire lo stesso di Germania e Francia, in Italia non esiste una politica per il sostegno alle giovani coppie o all'impiego femminile che in Spagna o nei Paesi Scandinavi è una realtà affermata da tempo, per intenderci e restare nel concreto consideriamo che i paesi Ocse spendono mediamente il 2.3% del Pil per servizi alle famiglie, la Francia spende circa il 3.8%, il Regno Unito circa il 3,6% Germania circa il 3%, l' Italia arriva a stento all'1.4%. Per rincarare la dose serve scartabellare un po’ di dati sulla disoccupazione: la disoccupazione giovanile in Italia si attesta sul 27% circa (dati Istat 2010), in pratica un lavoratore su quattro, fra i 15 ed i 24 anni è disoccupato, il tasso di disoccupazione giovanile è triplo rispetto a quello globale (circa 8-9%) e a fronte di tutto questo lo stato italiano spende lo 0,5/0,6 % (sempre in punti Pil) per sostenere chi perde un lavoro, diversamente dal la Francia che, pur avendo un tasso di disoccupazione simile, spende il 1,7% mentre i paesi scandinavi superano il 2%.
Tutto questo diventa ancora più grottesco se consideriamo che, se si parla di pensioni, le cifre sono ben altre infatti, dopo l'Austria, l'Italia è il paese che più spende in welfare per i pensionati (11%).
Di questo stato di cose non v'è alcuna consapevolezza, si dibatte di “questioni giovanili” in termini esclusivamente morali quando il problema ha contorni assolutamente materiali e reali: i giovani sono i meno tutelati dallo stato sociale, se ottengono qualcosa è solo attraverso il tramite della famiglia, essi sono anche i più colpiti dal fenomeno del precariato, infatti nel 2008 c'erano circa tre milioni di precari, che nel 60% dei casi avevano meno di 35 anni. A fronte di tutto questo, parlare di questioni culturali e del solito stereotipo dell'italiano mammone è pura disinformazione in cui, ahimè, i giovani cascano con tutte le scarpe. Non che manchi la volontà di cambiare qualcosa, forse manca un reale progetto, ma il problema più grave rimane il fatto che esprimersi in termini di “merito”, di “cervelli in fuga”, di “inerzia” o “voglia di sbattersi”, di “professionalità” o di riformette inciuciste significa voler partecipare -e magari “vincere”- presso un tavolo da gioco ignorando il fatto che le regole siano profondamente truccate ed è proprio questa ingenuità che non deve essere più perpetuata, soprattutto perché questo equivoco è chiarissimo ai centri di potere e viene spesso utilizzato ad arte per creare legittimità attorno a progetti politici allucinanti.
La riforma dell'università? Ma va ovviamente nel miglior interesse dei giovani, poco importa se consiste solo in tagli perché sono tagli fatti per il sacro “merito”. Le riduzioni delle pensioni o il prolungamento dell'età pensionabile ? Ma anche queste cose sono per i giovani, poco importa anche qui se nel paradossale stato attuale il welfare per i genitori rappresenta una importante fonte di reddito per i loro discendenti: quanti studenti fuori sede sono mantenuti da mammà che (se va bene) gode di un impiego a tempo indeterminato ? O dalla pensione di papà ? Quanti lavoratori precari, magari ultratrentenni, necessitano della tutela genitoriale per accendere un mutuo immobiliare ?
Ma questo squallido cinismo non è esclusiva del liberismo targato Pdl dato che anche la cosiddetta opposizione ci mette del suo: non è forse nell'interesse dei giovani che si sventola il “contratto unico” neanche fosse la sindone il giorno dell'ostensione? Anche qui poco importa che sia una riedizione all'italiana del CPE francese e che la sua genesi provenga dallo stesso brodo di cultura “progressista” che ci ha regalato meraviglie come il pacchetto Treu; l'importante è che sia per i giovani.
E, per la cronaca, pure il pacchetto Treu o la legge 30 erano “per i giovani”: la flessibilità non avrebbe forse dovuto favorirli? Negli scenari utopici rivendutici in quel del 1997 i giovani avrebbero finalmente potuto armonizzare vita, studio e lavoro grazie all’ingresso della flessibilità la quale ci veniva rivenduta come una conquista generazionale: basta con la noia del lavoro stabile, sarebbe stato possibile saltabeccare da una “esperienza” ad un’altra, in un mondo fatato di prosperità, completamente avulso dal reale. E che dire delle giovani donne magicamente libere, grazie alla flessibilità, di conciliare maternità e lavoro ?
Ironia a parte, tutto questo sproloquio vorrebbe servire a rilevare quanto il concetto di “disagio generazionale” rappresenti uno strumento per l'alienazione reale dei giovani, comodamente disponibile a qualsiasi centro di potere, un raffinato artificio che con la stessa mossa priva i giovani di voce e parla a loro nome, millantando di farlo per il loro stesso bene, come se fossero animali in via di estinzione. E' in nome dei giovani quindi o, più concretamente, sulla pelle dei giovani che si possono giocare le lotte di potere fra le varie cordate del liberismo tricolore, ciascuna intenta a mobilitare i poveri giovani affranti e derelitti per far passare l'ennesimo pacchetto legge o l'ennesima riforma peggiorativa dell'esistente. Al di là di tutta la “fuffa” finora delineata, la realtà è quella di un sistema che, con felice intuizione, Banfield definisce “familistico amorale”, in cui le mobilitazioni di solidarietà universali e le “meravigliose sorti e progressive” del riformismo liberista nascondono il solito trucco patriarcale di negare diritti in pubblico ai figli degli altri, per poi poterli munificamente concedere in privato alla propria prole. Se il mercato del lavoro è bloccato, in realtà non c'è nessun problema, c'è sempre quell'amico di Papà (forse); se non si riesce ad aprire un mutuo ci sono due generazioni di pensioni pronte a fare da garanzia (forse), in questo modo ciò che dovrebbe essere un diritto da rivendicare viene magicamente trasformato in un privilegio da mendicare e si finisce vilipesi e sfruttati non una ma due volte. C'è da dire che, a voler essere acidamente franchi, i giovani accettano di buon grado la pratica della mendicità dei diritti; non tanto per qualche difetto caratteriale o antropologico, non tanto per quell'oscena banalità che vuole ogni generazione più “molle” di quella che la ha preceduta, quanto per il fatto che i processi di precarizzazione degli individui e del corpo sociale sono stati, in primo luogo, altrettanti progetti di distruzione di tutti quegli artefatti sociali o culturali che potevano essere utile per pensarsi come corpo collettivo autonomo ed indipendente.
Il quadro non è certo roseo ma per uscire dal pantano è necessario definire i tratti della crisi, molti dei quali hanno a che fare con le difficoltà di questa generazione a parlare come una voce unica e anziché ostaggio dei giochi di potere.
Decisamente non compete a questo articolo individuare una via di fuga o un percorso corretto per uscire dall'impasse generazionale ma un'osservazione è necessaria: qualunque percorso rivendicativo, qualunque modo di ribaltare il tavolo truccato dovrà essere frutto di una riflessione autonoma di chi in precedenza è stato ridotto al silenzio. L'uscita da una posizione di subalternità quasi feudale avverrà solo se si riuscirà a comprendere che il proprio benessere ed il proprio futuro individuale dipendono dalla capacità di avanzare rivendicazioni pubbliche e collettive, dalla capacità di difendere e creare nuovi diritti comuni.

L’editoriale: Una questione giovanile?

“Sfigati” che fanno lavori precari, svogliati, bamboccioni, consumatori passivi di divertimenti notturni, ma anche speranza di rinnovamento e preziosi cervelli che, non avendo spazio in Italia, fuggono all’estero, ecco alcuni dei frammenti che compongono l’immagine di questa generazione. Quanto c’è di vero in questo? Sono banali stereotipi o semplici verità? Un tratto che accomuna queste rappresentazioni è l’idea di una generazione senza futuro, che il futuro non vuole prenderselo. Sentiamo che c’è qualcosa di vero. Chi ha vent’anni oggi fa parte di una generazione che, dopo quarant'anni in cui la piena occupazione era obiettivo politico e il lavoro garantiva l’accesso al welfare state, anche se ha un impiego non ha la sicurezza di mantenerlo e con esso tutti i diritti che vi erano associati. Si tratta anche della prima generazione che accede alla società con un ragguardevole peso sulle spalle: il ricatto dei prestiti e dei mutui, il debito delle finanze pubbliche e di quelle private, a cui si aggiunge il conto salato dell’ultima crisi. In Italia tutto questo è aggravato da un mobilità sociale pressoché inesistente: i vecchi non lasciano il cadreghino, e quando muoiono è già prenotato da amici, parenti e “leccaculo”.
L’emergenza di una questione generazionale è sotto gli occhi di tutti. Sembra in parte riconducibile a delle precise scelte politiche volte a governare le modificazioni dei processi produttivi: la soppressione della scala mobile nel luglio 1992, la revisione degli assetti contrattuali del 1993, l’introduzione del lavoro interinale e dei contratti atipici con la l. 196/1997 (pacchetto Treu) e la loro revisione con la l. 30/2003 (legge Biagi) e da ultimo l’accordo separato del 2009; tutto questo ha portato ad un mercato del lavoro frammentato, in cui i giovani pagano il prezzo peggiore.

Il mercato del lavoro

Il primo problema che un giovane incontra al suo ingresso nel mondo del lavoro consiste nell’ottenimento di un contratto e quindi di un livello minimo di garanzie. A questo si aggiungono le tante possibili (e tra loro molto diversificate) tipologie di accordo con il quale viene assunto.
Questo ingresso avviene però di default con contratti che riassumono, con sfaccettature differenti, il concetto di precarietà. La suddetta non è necessariamente un male per un ragazzo sedicenne che necessita di una parziale indipendenza economica e non avrebbe le possibilità per assicurare una costante presenza all’interno di un luogo di lavoro. Ma, in generale, per il mondo dei giovani la precarietà si traduce in una impossibile progettazione del futuro e della vita sia su basi sia su tempi solidi.
Il rischio, che ormai si è purtroppo quasi tramutato in realtà, è quello della frammentazione del mercato del lavoro in due macroaree, con da una parte i lavoratori in possesso di contratti di lavoro a tempo indeterminato che cercano di difendere la loro categoria e hanno strumenti per preservarla dai rischi del mercato e dall’altra i loro figli, senza tutele o garanzie.
Nei box sottostanti sono riassunti i rischi e le tutele a cui vanno incontro i giovani per semplificare loro il quadro normativo, nel momento della scelta di tipologia contrattuale da stipulare.
Oltre a ribadire l'esistente può essere interessante elencare alcune proposte di riforma del mercato del lavoro fra le più famose.
La prima proposta potrebbe essere quella di una restrizione delle quote di personale precario sulla percentuale totale della forza lavoro, scritte e normate nei CCNL (contratti collettivi nazionali di lavoro), rispetto a quelle attualmente vigenti.
Per essere efficace questa proposta dovrebbe ragionare non solo sulle quote di personale, ma anche sulla quantità di contratti precari annualmente stipulati, allo scopo di riuscire a vincolarli alla trasformazione in contratti a tempo indeterminato.
Un’ altra ipotesi di riforma potrebbe essere l’individuazione di limiti e/o regole di stabilità occupazionale per le esternalizzazioni di rami d’azienda, facendo sì che non vi sia un peggioramento delle tipologie contrattuali dei nuovi “assunti”.
Per quel che concerne il passaggio dal mondo dei senza garanzie a quello dei garantiti, una delle proposte che ha ricevuto più visibilità é quella di Boeri il quale ipotizza un percorso che, partendo dall'ingresso in azienda (con un contratto a tempo determinato) porti gradualmente (con scatti ascendenti semestrali) all'equiparazione sia contrattuale che di diritti con i lavoratori a tempo indeterminato. L' idea che ispira questa proposta è quella di affiancare la salvaguardia dei diritti dei “già inseriti” ad un percorso di reali acquisizioni da parte dei “nuovi entrati”.
Ad onor del vero quest'ultima proposta rimane ancora controversa e dibattuta; è di pochi giorni fa un’intervista rilasciata al Manifesto da parte del sociologo Luciano Gallino che equipara il contratto unico al CPE francese e sostiene che potrebbe ulteriormente aggravare le cose, “spalancando una porta d'oro alla flessibilità”.


Mobilitazione e apatia…

Trovare una risposta univoca alla domanda: “Chi sono i giovani d'oggi?” presuppone l'analisi di una serie pressoché infinita di scenari.
Il nostro Ministro per la Pubblica Amministrazione e l'Innovazione, Renato Brunetta, dall'alto della propria statura morale, ha più volte tuonato affascinanti iperboli a proposito, definendoci, senza mezze misure, “guerriglieri” e “bamboccioni” (Padoa-Schioppa docet).
Bambocci perché, incapaci di mantenerci economicamente durante gli studi superiori, in quest'Italia satura di generalismo ed invocante una classe lavoratrice specializzata da inserire nei propri quadri, ci si trova a dipendere per forza dal borsellino di mamma e papà.
Ma contemporaneamente anche disonorati guerriglieri: l'espressione del dissenso durante L'Onda è stata intollerabile, una sorta di anti-prosopopea socratica, insomma, un netto, ingrato e disgustoso sputo nel piatto gentilmente concessoci.
Guardando oltremare, poi, nel Nuovo Continente, troviamo Thomas Friedman, opinion-leader americano e vincitore di tre Premi Pulitzer, che, in un editoriale del New York Times ha etichettato i giovani come una massa informe di apatia e disinteresse, “too quiet, too online, for its own good, and for the country's own good”, incapaci di indignazione e coscienza sociale.
“O tempora, o mores!”, insomma, come cornice generica all'opinione maggiormente condivisa.
Ma torniamo a noi, con un esempio concreto. La crisi dell'Istruzione Italiana, con i suoi angoscianti dati, è diventata quasi una routine surreale, un normale argomento di discussione, un tremendo cliché: eppure le piazze, riempitesi per un semestre, si sono presto svuotate e tuttora restano silenziose, nonostante il problema sia rimasto, reale, a governare le vite degli studenti.
Dati alla mano: il Fondo Unico d'Ateneo, diviso in CU (Contributi Universitari) e FD (Fondo Potenziamento Didattica) è calato del 50% rispetto al 2007.
Se i giovani sono i protagonisti è altrettanto vero che è sulle loro spalle che si sta marciando a colpi di decreto-legge, ma tutto questo non sembra turbare nessuno; si pensa : “cosa potrà mai cambiare? Il sessantotto c'è già stato”, continuando a lamentarsi immobili, sorseggiando caffè davanti alle macchinette delle facoltà.
Se esiste una colpa generazionale allora questa è quella della rassegnazione, una sorta di timore anti-darwiniano verso il tentativo, il miglioramento, la sfida, che poi non è nient'altro che un modo per essere vecchi e stanchi ancor prima di cominciare.


… Contro nuove possibilità.

Nel 1991 Robert Reich, ministro del lavoro durante l’amministrazione Clinton, pubblica The Work of Nations, un contributo interessante nell’analisi del lavoro immateriale nell’epoca postfordista. Reich definisce il lavoro immateriale come la capacità di “manipolazione dei simboli”. Da allora gli studi economici sulla natura e le potenzialità del lavoro immateriale sono aumentati in modo esponenziale. Uno degli elementi che risulta ancora controverso è la sua valutazione in termini di profitti per le aziende. Queste vedono un ritorno economico dei loro investimenti solo sulla base dei consumi all’interno dei contesti socio-culturali in cui operano. La consapevolezza che questo tipo di sistema economico non si basa esclusivamente sulla formazione culturale dei propri lavoratori ha spinto le aziende ad investire sempre di più nella cultura e nella creazione di immaginario, basta guardare alla presenza pressante delle aziende all’interno della Università e delle Accademie. Gli studenti sono mantenuti in uno stato di formazione perenne che si protrae per anni, nell’attesa di essere inseriti in un mercato del lavoro che, comunque, non riuscirebbe ad assorbire una richiesta lavorativa così alta; questo permette di avere un largo bacino di consumatori e produttori (definiti da Toffler “prosumer”) di conoscenza e del sapere che, effettivamente, garantiscono la sopravvivenza delle aziende. In uno scenario come questo però si dimentica un’importante effetto collaterale: se le aziende riescono ad avere un ritorno economico nel breve periodo, nel medio e nel lungo periodo questo modo di fare porterà all' inaridimento del contesto socioculturale in cui le stesse imprese si inscrivono. Un esempio lampante è il progressivo allontanamento dello Stato dall’investimento nella ricerca e nella sperimentazione, a favore degli interessi formativi delle aziende. C’è tuttavia un enorme difetto nell’analisi di Reich: considerare il lavoro immateriale solo come “manipolazione dei simboli” esclude una serie di componenti fondamentali e determinanti anche sul piano della resistenza ad un sistema che ci vorrebbe tutti prosumer della conoscenza. Il lavoro immateriale è anche e soprattutto un complesso sistema comunicativo-relazionale basato sui desideri di singoli individui che però sono membri di una collettività. Partire dai desideri per arrivare a recuperare le relazioni tra i singoli è un elemento fondamentale e questo può avvenire attraverso l’utilizzo della conoscenza e dei processi comunicativi di cui tutti deteniamo i mezzi di produzione. In un sistema così debole perché basato esclusivamente sulla astrazione ed elaborazione dei simboli è possibile recuperare tutta la materialità della produzione attraverso strumenti la cui proprietà è nostra. Nel XIX secolo i luddisti si organizzarono nella creazione di un immaginario che arrivasse alla distruzione della macchine. Nel 2010 lo stesso spirito luddista può essere recuperato all’interno dei processi di comunicazione, utilizzando gli stessi strumenti che portano guadagno e profitto per le aziende per garantirci sapere libero e conoscenza svincolata dal potere.

In conclusione

In questo Speciale abbozzeremo una ricostruzione della figura sociale del “giovane”. Ci sembra opportuno premettere che l’idea di uno stato intermedio fra l’infanzia e l’età adulta si è sviluppata relativamente tardi, durante il periodo dei “30 gloriosi” (‘50-‘70), ed è tuttora un concetto in mutamento ed espansione. Basti solo considerare che, a differenza di come avveniva pochi decenni fa, oggi si è giovani anche a quarant’anni. Potremmo scrivere enciclopedie cercando di ricostruire il più fedelmente possibile la condizione oggettiva di questa generazione. Ma forse non ne vale neanche la pena. Sappiamo fin troppo bene che se alla condizione oggettiva non corrisponde la percezione soggettiva di tale condizione, allora ben pochi cambiamenti sono possibili. Abbiamo quindi scelto di dare parola ai “giovani”, di lasciare che si raccontino, che dicano chi sono, cosa fanno, cosa vorrebbero cambiare, quali sono le loro aspettative … insomma, esiste una comune percezione soggettiva tra persone che niente hanno a che fare tra di loro per capitale culturale, sociale e economico? Esiste una “questione generazionale”? La si può delineare a partire dai racconti e dalle esperienze di chi la vive? E’ sempre più urgente e necessario iniziare a tracciare le prime pennellate di questo affresco. E’ arrivata l’ora di cominciare ad autonarrarci. Perché la nostra è anche una scommessa politica. Che si gioca a partire dai desideri e dai bisogni di noi giovani, e non dalle provocazioni dei neoliberisti di destra e di sinistra che, dopo aver ipotecato il futuro della nostra generazione, vogliono attaccare ulteriormente i redditi e il welfare state vaneggiando di meritocrazia.

Racconti di viaggio: this is my heart

Tornata dal viaggio in Palestina provo a scrivere qualche riga su questa esperienza. Il foglio è bianco e vorrei riempirlo di indignazione, di rabbia, di condanna ai nostri governi europei, agli Usa. Alla fine decido che ciò che serve è un discorso chiaro, un’analisi storico-politica che tenti di offrire la giusta interpretazione dei fatti a chi legge, che dia l’opportunità di capire come stanno realmente le cose. Perché io le ho viste, devono credermi.
Poi realizzo che di gente che ha la verità in tasca ce n’è tanta (e pure mille volte più convincente di me), e che il massimo che posso fare è trovare un filo logico al groviglio di pensieri che ho portato con me al ritorno da un’esperienza così forte. Il punto è che tutto questo groviglio è ASSURDO e solo provare a parlare della nuda e cruda realtà ha un senso.
Allora chiudo gli occhi e vedo Bil’in, un villaggio palestinese che vive di pastorizia e degli ulivi che crescono sulle sue colline. Queste, però, sono squarciate dal muro (che per ora è ancora allo stato di corridoio di recinzioni e filo spinato). Da cinque anni, ogni venerdì, la gente di Bil’in e di altri villaggi, accompagnata da alcuni internazionali, si reca davanti al muro e protesta, in modo assolutamente pacifico, armata ‘solo’ della determinazione che da 62 anni accompagna il popolo palestinese nella sua instancabile lotta per la libertà. Il diffondersi della protesta non violenta disturba molto Israele, disturba più di un ragazzo che decide di farsi saltare in aria, convinto che sia sempre meglio vivere il paradiso che ha nella sua testa, e per cui si farà scoppiare, piuttosto che vivere in questo inferno, e che gli resta solo questa scelta per lottare contro l’occupazione. Negli ultimi mesi i soldati israeliani hanno condotto in prigione molti appartenenti e attivisti ai movimenti non violenti che si stanno espandendo, pur con mille difficoltà, in tutta la Cisgiordania e Gaza. In fondo, i kamikaze purtroppo fanno comodo a Israele: come legittimare, altrimenti, la sua lotta per la sicurezza e la sua politica di occupazione militare?
Eyad Burat, leader del movimento di Bil’in, ci accoglie in casa sua, con la generosa ospitalità che ho riscontrato in ogni palestinese che ho conosciuto. Ci presenta così la sua piccola figlia di cinque o sei anni che è tutta intenta a sistemarsi una kefia a mo’di vestito: “this is my heart”. Poi ci mostra un video di una delle manifestazioni del venerdì in cui lo vedo in corteo con in braccio la bambina: aveva portato con sé il suo cuore in quella lotta non violenta per la sua terra rubata. Qualche settimana prima del nostro arrivo, ci racconta, il suo caro amico Bassen era stato ucciso da un proiettile a gas lacrimogeno lanciato dai soldati israeliani al di là della recinzione. Una delle migliaia di vittime di questa politica di oppressione. Usciamo di casa e percorriamo il tragitto consueto delle manifestazioni, dirigendoci verso il muro. Mi fermo dopo pochi passi, non riesco a proseguire. Il mio istinto del ‘vedere fotografare documentare’ mi ha abbandonata, sopraffatto da un unico pensiero: ‘se vedo qualcos’altro scoppio’. Si è fatta sera ed è ora di tornare sul pullman. Eyad percorre con noi qualche metro e poi ci saluta dicendo “ci rivedremo quando la Palestina sarà libera!”. E’ troppo, scoppio in un pianto silenzioso. Lui, che vive ogni giorno questo inferno, ci crede davvero: allora perché sto piangendo?
Dal finestrino saluto con lo sguardo i bambini di Bil’in che mi sorridono o mi guardano incuriositi. Mi ricordano i bambini con cui ho parlato a Nablus, di fronte una casa ricostruita di recente che qualche anno fa era stata letteralmente rasa al suolo da bulldozzer israeliani. Dentro c’era un’intera famiglia di undici persone, l’undicesima era ancora nella pancia della mamma. E tutta questa devastazione perché? Perché vivevano dove non potevano vivere, perché erano ciò che non potevano essere, palestinesi. Mi ricordano anche i bambini di At-Twani, un villaggio di pastori che ha visto sorgere nella collina di fronte un avamposto israeliano (che è il primo passo per la costruzione di un vero e proprio insediamento). Ogni giorno andando e tornando da scuola i bambini e gli stessi internazionali che li accompagnano per proteggerli rischiano di venire picchiati con catene e bastoni dai coloni dell’avamposto. Mi ricordano le due bambine che passeggiavano a Hebron, città palestinese, mano nella mano per le vie del Suq, il mercato. Solo una rete protettiva incastrata tra le case impediva all’immondizia lanciata dai coloni insediati nei piani alti delle abitazioni di cader loro in testa.
Il 5 gennaio rientriamo in Israele, diretti all’aeroporto di Tel Aviv. La vita qui sembra aver ripreso a correre sui binari giusti. Niente più checkpoint, con le loro infinite ore di attesa per raggiungere la scuola, l’università, il lavoro; niente più cumuli di terra o blocchi di pietra improvvisati da un giorno all’altro che impediscono di tornare a dormire la sera a casa propria; niente più tornelli per andare a pregare in moschea; niente più militari che ti possono fermare in qualsiasi momento per chiederti cosa stai facendo, insultarti, controllarti i documenti con lentezza esasperante; niente più mancanza d’acqua potabile perché l’insediamento di fronte a casa tua ne ha il controllo e t’impedisce di fruirne; niente più arresti nel pieno della notte di uomini, donne, bambini, non importa; niente più timore che mi tolgano la casa in cui vivo e di finire in un campo profughi…
Era tutto solo un brutto sogno?

Essere poesia a Milano #2

Siamo ufficialmente la generazione del fallimento: abbiamo tradito le aspettative di tutti. I nostri genitori ci hanno consegnato il Sessantotto nelle mani e noi l’abbiamo fatto precipitare sul pavimento. Con il dito puntato, ora ci accusano di aver ucciso i loro sogni. Dicono che siamo superficiali, immobili, spudoratamente ignoranti, viziati, amorali, apatici. La coscienza sociale è morta, c'è La Crisi, adesso invece di Togliatti ecco Bersani e si è così bruscamente passati dal coraggio dell'estremismo alla statica mediocrità, causa ed effetto dell'ormai tipica atmosfera nonsense che si respira tra le pagine dei quotidiani. Ed è tutta colpa nostra, delle nostre mani ferme. Noi siamo, generalmente, la gioventù-bue cui bisogna impedire di bere a suon di decreti legge. Nel 1960 Moravia pubblicava “La Noia”, adesso c’è Federico Moccia ad alleggerirci gli animi, prodotto diretto di innegabili richieste di mercato. Abbiamo ucciso anche la Poesia, con i nostri SMS avocalici, le kappa usate a sproposito e la nostra, già citata, impermeabilità. Abbiamo accoltellato Majakovskij, girando altrove lo sguardo mentre si dissanguava in un angolo. Ci accusano di aver perduto “la meraviglia”, nel senso socratico del termine. Tuttavia, personalmente, trovo che questi atti d'accusa siano riduttivi, e addirittura errati. Noi giovani non siamo colpevoli, siamo soltanto rassegnati, con il capo chino sotto le spalle pesanti. Stiamo stracciando i nostri talenti perché con l'Arte non si mangia e poi “chi vuoi che mi pubblichi, sono figlio di nessuno” (cit.). Stiamo morendo, schiacciati dalla tipica mentalità italiana fatta di raccomandazioni, trucchi, becero clientelismo e abbiamo così poche alternative verso cui girare lo sguardo! “Carpe diem” è diventato imperativo categorico: il passato è così strenuamente difeso da coloro che l’hanno costruito da non permettere nessuno spiraglio ed il futuro è talmente incerto da essere, in ultima analisi, assolutamente non valutabile. Dateci il respiro, quindi, voi che tutto d'un fiato avete viaggiato in aereo, trapiantato un cuore, camminato sulla luna e scalato l'Everest! Siate poi rapidi nella vostra concessione, perché “è questo il modo in cui finisce il mondo / Non già con uno schianto ma con un lamento.” (Eliot, “The Hollow Men”)
Ed ora, voltando pagina per ritornare, forse, ad innamorarci dei papaveri, questa è l'opera di Vittorio. Si intitola, semplicemente, “Mia 33” ed è stata scritta, con violenza poco primaverile, proprio il ventuno di Marzo. Colpisce perché immediata: i versi pungono, vergati con la decisione tipica del rifiuto, dell'umana insofferenza all'umano che urla, sola, nel bel mezzo di una stanza colma di persone.
Netturbini
Universali
Raccoglitori
di spazzatura
analitica
su fogli sprecati
Vergare
righi
di illusioni
di grandezza
in olezzo
di santità
e aspirazione
d'eternità
Torniamo
a scappare
da bionde barbie
dai pantaloni leopardati
dalla vista corta.
Questa rubrica appartiene a chi ci scrive, perciò inviate le vostre opere a: tappetoletterario@libero.it

Criminalità organizzata: dalla lupara al mercato globale

Negli ultimi cinquant’anni la criminalità organizzata ha subito una radicale trasformazione, scardinando i vecchi luoghi comuni e le analisi arretrate con cui fino ad oggi si è affrontato il fenomeno; ha saputo costruire un sistema di relazioni capaci di unificare le attività criminali tradizionali e i centri dell’economia legale e del potere politico nelle aree in cui si è radicata.
Dopo aver preso piede nei territori d'origine, in tempi e con modalità (violenza brutale, omertà, estorsioni) ormai note, “le mafie” hanno saputo adattarsi ai mutati scenari, nazionali e internazionali, politici ed economici, sfruttando, ad esempio, il libero mercato e i meccanismi economici della globalizzazione neoliberista a noi contemporanea.
L'idea che le organizzazioni di stampo mafioso allignino là dove c'è miseria e povertà è un'idea antica e altrettanto falsa. Il mafioso vuole due cose: il potere innanzitutto e conseguentemente la ricchezza. E quindi non tratta con i miserabili, tratta con i potenti.
Dalla fine degli anni Cinquanta, sempre più esponenti delle organizzazioni malavitose si stabiliscono, spesso forzosamente, nei centri urbani del nord Italia.
La città che si rivelerà più accogliente sarà proprio Milano, capitale del boom economico e culla della finanza italiota. Qui arriveranno Joe Adonis, mafioso estradato dagli Stati Uniti, che farà fortuna grazie allo sfruttamento dell'industria del divertimento (night club, gioco d'azzardo, prostituzione) e Luciano Liggio, latitante di Cosa Nostra, più avvezzo ai sequestri di persona.
In seguito i confini del Bel Paese non saranno sufficienti a contenere le spinte “espansionistiche” delle organizzazioni criminali: dagli anni Settanta, infatti, la rete dei traffici inizierà a varcare i confini della penisola, sia per il bisogno di fuggire da un controllo legislativo sempre più stringente (quando applicato), sia per la necessità di estendere gli affari in nuovi mercati, dove le loro competenze sono sempre più richieste.
Partendo dalle comunità italiane d’immigrati sparse in molte zone del pianeta, rastrellando attività commerciali e imprenditoriali già presenti, le holding criminali hanno espanso in questi anni la loro azione e il loro controllo, trasformandosi in strutture imprenditoriali che, parallelamente alle attività “tradizionali” (estorsioni, narcotraffico, commercio di armi), hanno accresciuto la capacità non solo di convivere con le istituzioni e lo Stato, ma anche di utilizzare gli strumenti legali dell'economia di mercato per dettare regole e leggi.
Le organizzazioni criminali italiane hanno così superato prima i confini del Mezzogiorno italiano, che un tempo rappresentava la loro roccaforte, poi quelli dell'intera penisola. Ora i capitali legali e illegali nascono e si muovono in tutte le direzioni e vengono accumulati in molti Paesi.
L'innovazione di questa “nuova” criminalità sta, in primo luogo, nell'avere assunto una struttura “complessa” (piramidale, come Cosa Nostra e la cupola, o rizomatica, come le 'ndrine calabresi o i clan campani), in grado di funzionare nonostante la perdita di pezzi importanti dell'ingranaggio; in secondo luogo, nell'aver reso possibile una accumulazione di capitale tale da aver creato un vero e proprio modello alternativo di produzione di merci e ricchezza, ormai parallelo a quello capitalistico tradizionale; infine, nella capacità di adattamento e di influenza decisionale che le organizzazioni criminali dimostrano quotidianamente di avere in qualunque constesto si trovino.
Non è più pensabile ritenere la criminalità un fenomeno marginale e ininfluente, a livello storiografico come politico. È necessario comprendere la rilevanza e l'incisività che il fenomeno riveste sulla scena mondiale.

Rubrica Ecologica

Nel proseguire l’analisi della relazione tra l’ecosistema terra e le società umane, iniziata negli scorsi numeri, ci sembra ora doveroso soffermarci sulla questione dei trend demografici, della loro sostenibilità e delle loro conseguenze.
La questione delle problematiche legate alla crescita della popolazione è già sollevata nel celebre saggio di Thomas Malthus “An Essay on the Principle of Population” del 1798. La tesi di fondo sostenuta da Malthus, e ripresa poi molti anni dopo da Paul Ehrlich nel libro “The Population Bomb” (1968), è che la crescita della produttività agricola non sarà in futuro in grado di tenere il passo con la crescita della popolazione. Nel primo caso, infatti, si tratterebbe di una progressione lineare, mentre nel secondo di una curva di crescita esponenziale.
E’ interessante osservare come le previsioni dei due autori si siano solo in minima parte realizzate: Malthus non aveva tenuto conto della scoperta dei combustibili fossili, motore della rivoluzione industriale, come Ehrlich non poteva prevedere l’enorme crescita della produttività agricola avvenuta con la Green Revolution.
Le lezioni da imparare sono molteplici: gli indici di popolazione sono in fondo solo una delle variabili in gioco, dal valore di per sè scarsamente esplicativo se non sono visti in relazione alla dimensione politica, economica e all’innovazione tecnologica. Sono inoltre dati, quelli relativi per esempio ai tassi di natalità, poco utili in forma aggregata, ma estremamente interessanti se esaminati e comparati a livello regionale.
Questi dati ci mostrano oggi che la maggior parte della crescita della popolazione avviene nei cosiddetti “paesi in via di sviluppo”, mentre l’incidenza demografica del mondo sviluppato crolla progressivamente. Si assiste, in questi paesi ricchi, ad un progressivo invecchiamento della popolazione, fenomeno che colpisce in particolare modo Corea del Sud e Giappone, ma anche Europa e Stati Uniti. Il 2010 sarà inoltre il primo anno nella storia in cui la maggior parte della popolazione mondiale vive in città invece che in campagna. Anche l’urbanizzazione cresce in particolare nei paesi asiatici, africani e sud-americani, con lo sviluppo di enormi agglomerati urbani.
Se, come abbiamo visto, è meglio astenersi dal pronunciare apocalittiche e solenni previsioni di lungo periodo, i ragionamenti di Malthus e Ehrlich non sono tuttavia da rigettare in toto e ci portano ad alcune semplici conclusioni: la prima di queste è che un mondo in cui tutti gli esseri umani godano dell’attuale stile di vita occidentale è fisicamente insostenibile. La capacità ecologica della terra è infatti insufficiente a soddisfare una popolazione mondiale con un consumo pro capite di risorse come quello dell’europeo o dell’americano medio.
La seconda conclusione che emerge è che la legittima pretesa e il perseguimento di una maggiore ricchezza materiale da parte di questa crescente, oltre che assolutamente maggioritaria, parte della popolazione mondiale è in diretta contrapposizione con la ferma intenzione da parte degli stati ricchi di mantenere, ed anzi accrescere, l’attuale livello di sviluppo economico e di conseguenza il consumo di risorse. Ci troviamo, insomma, in un gioco a somma zero in cui i benefici per un attore devono essere per forza bilanciati dalle perdite per un altro.
Le implicazioni sul piano geopolitico, se accettiamo questi presupposti, sono nella direzione di una significativa destabilizzazione dello scenario internazionale, uno scenario in cui all’arcaica divisione tra paesi sviluppati e in via di sviluppo si sovrappone quella tra paesi industrializzati in rapido invecchiamento (USA, Europa, Giappone), paesi in rapida crescita con una popolazione bilanciata (Cina, Brasile, India, Vietnam) e paesi estremamente giovani con governi ed economie deboli. Con un ulteriore aggravante: l’attuale contesto internazionale fa della competizione economica tra Stati uno dei suoi elementi principali. Tale presupposto renderà molto complicato trovare delle soluzioni in grado di porre la questione della limitazione dei consumi al centro del dibattito pubblico, in quanto le economie in crescita rivendicheranno il diritto di sfruttare i vantaggi ottenuti dalla recente industrializzazione, mentre le economie già consolidate difficilmente rinunceranno ai propri standard di consumo e ai vantaggi accumulati sugli altri paesi.
Un’obiezione verrà, a questo punto, inevitabilmente sollevata: come per Malthus ed Ehrlich, anche questa volta le previsioni si dimostreranno errate grazie allo sviluppo tecnologico e alla crescente efficienza dell’economia, che assicureranno benessere e ricchezza a tutti? E’ questo un tema che ci riserviamo di trattare nel prossimo numero.

Una nuova guerra fredda, il Medioriente in fiamme

Eserciti in allerta, navi americane dotate di sofisticati lanciatori antimissili nelle acque territoriali, presto un sistema integrato di missili “Patriot” lungo la costa degli Stati del GCC (Gulf Cooperation Council): non è una partita a Risiko e nemmeno la trama di un film, è lo scenario del Golfo Persico.
Mentre tutto l’occidente si allarma per la pericolosità di uno Stato sciita che porta lentamente avanti un programma nucleare, minacciando, a detta dei media, sia lo Stato di Israele che l’Europa, altre Nazioni, quelle posizionate lungo le coste del Golfo, che hanno tutte le ragioni di preoccuparsi, si stanno preparando al peggio già da molti anni, incrementando le spese militari e gli accordi con gli Stati Uniti.
Torniamo momentaneamente indietro alla morte di Maometto (nel 632) quando, per la successione, nascono le divisoni tra Sciiti e Sunniti. Le lotte precipitano nel sangue fino alla sconfitta dei sostenitori di Aly (cugino di Maometto), ed il popolo Sciita viene costretto ad emigrare in tutto il Medioriente, dove per secoli verrà sfruttato, represso e maltrattato. Nel 1979 i Fedayyin ed i Mujaheddin si uniscono all’esiliato Ayatollah Kohmeini che, fomentando una rivoluzione Islamica, riesce ad abbattere il regno dello Scià di Persia creando una repubblica basata sulla “Shari'a”, la legge di Dio.
Il programma di Kohmeini non si limitava all’Iran ma mirava ad esportare la rivoluzione in tutti quegli Stati monarchici governati da sunniti che per più di mille anni hanno sottomesso e represso le minoranze sciite al loro interno. L’Ayatollah voleva distruggere il sunnismo in tutta la regione ma gli Stati Uniti, con le monarchie Arabe, riuscirono a contenere la rivoluzione al solo territorio iraniano.
Dal 2003 un terremoto ha però scosso i Regni della penisola quando in Iraq il regime Sunnita per eccellenza viene abbattuto in nome della “democrazia”. Questa però non sempre porta alla pace: le richieste della nuova maggioranza sciita, repressa per anni, esplodono infatti in scontri violenti con la nuova minoranza sunnita, un vero e proprio “assist” all’Iran che, grazie ad ingenti finanziamenti, può contare su nuove maggioranze sciite anche in Libano, dove dal 2006 il partito di Hezbollah ha acquisito molto potere. È un asse tripartito, una Mezzaluna Sciita guidata da Teheran che illegalmente porta avanti una vera e propria guerra di religione, finanziando anche le rivolte tra Yemen e Arabia Saudita: qui la situazione è molto simile agli scontri paralleli tra USA e URSS durante la guerra fredda, ora però Ahmadinejad e chi con lui stanno solo testando le capacità dei loro finanziamenti alla ribellione, mentre in futuro lo scontro regionale è assicurato.
Pur essendo limitato da numerose sanzioni economiche, l’Iran riesce a muovere il proprio denaro grazie al sostegno di Dubai: sembrerà strano ma gli Emirati pur essendo Arabi preferiscono i soldi al rispetto dei valori sunniti ed è proprio questo che ha causato l’insolvenza della “Dubai World”. Secondo un operatore del settore economico di Dubai questa crisi è stata creata ad hoc da Gran Bretagna, Usa e Arabia Saudita per “tirare le orecchie” alla “Capitale del lusso”: ora Dubai è salva ma molto più controllata grazie all’intervento dell’Emiro di Abu Dhabi (di famiglia molto più religiosa e attenta alle politiche antisciite). È in corso quindi una vera e propria manovra di accerchiamento del nemico Iraniano: gli accordi di Dicembre del Gulf Cooperation Council incrementano ancora gli investimenti militari di collaborazione, gli Stati Uniti vengono autorizzati all’ingresso nel Golfo con le loro navi da guerra, a Febbraio, dopo un incontro con un rappresentante statunitense, il GCC ha comunicato l’installazione di uno scudo missilistico lungo tutta la costa dei sei Stati parte. L’Iran è deciso ad appropriarsi del trono di guida nel sistema egemonico regionale attraverso la destabilizzazione interna delle monarchie Arabe ed il finanziamento delle rivolte sciite, allo stesso modo gli Arabi sono intenzionati ad evitare con ogni mezzo possibile l’acquisto di ulteriore potere da parte della repubblica islamica: il prossimo teatro di conflitto sarà nuovamente il Golfo Persico.

Vienna e dopo Vienna

L'11 e il 14 marzo, a Vienna, si è tentato di mettere in scena una protesta europea contro il Processo di Bologna. Di questa protesta -il Bologna Burns- si possono leggere diversi reportage precisi e dettagliati (www.uniriot.org; bolognaburns.org), con questo articolo si spera invece di portare in luce alcune tematiche che, vivendo il contro-vertice in prima persona, mi sono sembrate interessanti.

Linguaggio: Già il fatto che si debbano svolgere assemblee e seminari in inglese (purtroppo non tutti) obbliga ad una riflessione politica importante sulla traduzione. Tradurre le proprie tematiche, le proprie proposte e i propri slogan non equivale ad un'operazione tecnica, ma significa sapere il contesto in cui temi e slogan vengono esplicitati, la situazione che si sta vivendo, le condizioni di vita. Significa conoscere le forme di vita che il linguaggio porta con sé.
Il Bologna Burns fa esplodere la questione della traduzione che, nel nostro tentativo di costruire network e reti orizzontali, non può essere delegata. La prospettiva che ci si apre è tradurre ogni nostra iniziativa locale (l'attacco locale è già offensiva globale contro il Bologna Process, contro il suo dispiegamento, e ciò è stato affermato più volte) e ogni seminario di autoformazione/Self-education nella dimensione globale. Tra l'altro questa prospettiva è già presupposta dal lavoro di ricerca che non può non essere globale.

Movimento: a) A Vienna l'apertura del famoso spazio europeo della protesta e del conflitto è avvenuto in una dimensione di massa e non di delegati. Con la nostra presenza massiccia come Network Uniriot, con i molti studenti dalla Germania e dai Balcani, si è creata una dinamica collettiva di partecipazione e di confronto. Probabilmente fare un paragone con la EuroMayDay può essere interessante. b) Vedere il movimento nel senso letterale di mobilità è fondamentale. Seppure con la sua difficoltà, possiamo farlo: le lotte per un nuovo welfare e contro il razzismo sono la lotta per la mobilità e quindi la lotta per costruire l'autoriforma/self-reform dell'università a livello globale. Ogni borsa di studio per la mobilità internazionale è un'opportunità per tessere relazioni e, quindi, costruire spazi diretti di comunicazione trans-nazionale.

Pratiche: a) Le pratiche/practices nella piazza. Si è scesi in piazza per bloccare le strade, gli incroci, la viabilità di Vienna. Quindi, ancora una volta, i blocchi, come in Francia, come in Italia, come in tutta Europa. L'orizzontalità è stata ricercata in tutti i modi ed in tutte le situazioni, dai seminari alla gestione della piazza, con risultati a volte confusi e altre volte molto interessanti.
b) Pratiche discorsive. Quello di cui si è parlato e il modo in cui se ne è parlato sono stati interessanti poiché la crisi, economica ed ecologica, è stata affrontata diverse volte insieme alla questione della precarietà con la presenza degli Squatting Teacher che hanno partecipato alla protesta.
Inoltre è stata ribadita la dimensione non solo europea della partita, con riferimento alla California, all'Iran, alla pervasività del Bologna Process oltre l'Europa.

Strumenti: L'utilizzo di strumenti di comunicazione nella rete è uno dei punti di forza della protesta viennese. Vienna è stata una buona palestra nell'utilizzo di social network e nella comunicazione multimediale. Le analogie con l'Iran e la California sono evidenti, tra YouTube e Twitter, dove esistono canali internazionali di studenti che protestano. Ci siamo posti così questioni sia interessanti che strane: - Cosa è un Bar Camp? - Come si utilizza Twitter? -Come si fa una diretta sui social network con sms? - Come si fa un documento wiki? - E la diretta streaming?
Non siamo tornati da Vienna con una rete europea, ma sono state create nuove e importanti relazioni. Solo all'interno di una dimensione di massa si potrà definire se riusciremo ad acquisire una forza europea e globale nelle lotte delle università e dei territori.

Il Grande Silenzio

Ultimamente, in particolare al di fuori dell'italico stivale, sta imperversando un'aria pesantissima sul Vaticano. In Italia ovviamente la bufera è arrivata sotto forma di leggera brezza primaverile ma, la gravità delle accuse ha fatto sì che qualche cosa sfuggisse alle maglie del controllo e arrivasse anche qui. Da una parte le accuse di pedofilia ecclesiastica, dall'altra gli insabbiamenti avvenuti grazie all'intervento delle gerarchie.
Curioso che tante denunce pubbliche dal balcone papale non siano state seguite dalle uniche denunce che abbiano una qualche utilità pratica, quelle penali. Curioso anche perché, in quanto prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede lo stesso Ratzinger deve essere venuto a conoscenza di situazioni sufficientemente gravi da essere passibili di denuncia, eppure nulla, il vuoto, il grande silenzio. Anzi, gli unici documenti che rivelano stralci di corrispondenza dell'allor prefetto indicano tutt'altra linea di condotta: l'attesa vince sull'azione.
Pur di sviare l'attenzione dal reale svolgimento dei fatti e dalle responsabilità individuali e culturali, si è preferito inventare una cospirazione massonico-ebraica e paragonare la pedofilia all'omosessualità, dando prova di un radicamento sulle stesse posizioni dei precedenti secoli (tuttavia possiamo sperare che, come per Galileo, i Beatles e la lapidazione della donna infedele sulla pubblica piazza anche su questo fra qualche millennio la santa sede esprimerà posizioni lievemente più aperte).
Si è notato che molto spesso i preti accusati di pedofilia vengono generalmente trasferiti in parrocchie italiane, una frequenza che potrebbe sembrare qualcosa di più di una mera coincidenza. Forse un indizio può essere il fatto che lo stesso partito di destra che ieri voleva “sterilizzare” i pedofili oggi fa scudo attorno al pontefice sbandierando il fantasma della cospirazione massonica.
Il trucco è vecchio quanto collaudato, una volta accusati e nell'impossibilità di provare la propria innocenza basta svilire gli accusatori ed i testimoni e allora ecco arrivare la sacra arrampicata sui vetri; la colpa non è da attribuirsi all'omertà ecclesiastica o alla repressione sessuale richiesta dalla disciplina clericale, la colpa è dei costumi, del disfacimento morale, o magari del singolo sacerdote che prima di essere prete è omosessuale (sic) ma non si disperi perché la scienza vaticana provvederà a curarlo e non dal desiderio di stuprare bambini ma da presunte “inclinazioni omosessuali” che sarebbero la causa prima del pernicioso atteggiamento. La cosa sarebbe di un delizioso humour nero se non implicasse sofferenze psicologiche atroci per le vittime. C'è da notare poi come la criminale storiella che equipara pedofilia ed omosessualità dimentichi le bambine vittime di abusi clericali; del resto, perché questa farsa grottesca sia anche solo pensabile, si devono cancellare le bambine e costituire giocoforza una gerarchia delle vittime: “I bambini non li abbiamo toccati e chi lo ha fatto era un finocchio che per sbaglio è diventato prete. Le bambine ? Quali bambine? Noi non abbiamo visto nessuna bambina”. Anche questo atteggiamento non ha nulla di sorprendente ma è, invece, decisamente normale per una gerarchia sessista e patriarcale barattare una ridicola scusa con l'integrità psicofisica delle donne.
La crocifissione della vittima per render salvo il carnefice non è l'unica strategia di copertura; si può anche ricorrere alla delegittimazione del sistema giudiziario tesa, quest’ultima a dimostrare che non serve che la questione sia trattata da un tribunale laico dato che esiste già una giustizia vaticana che dispone di metodi efficacissimi di indagine e condanna. Metodi come il “crimen solicitationis”, un documento interno della Congregazione per la Dottrina della Fede che delinea la procedura di diritto canonico destinata a trattare i casi di abusi sessuali per i quali ovviamente viene prescritta la più assoluta segretezza durante tutte le fasi del dibattimento.
Anche qui la faccenda è tragicomica visto e considerato che si pretende il predominio d'un tribunale interno, privo di qualsiasi giurisdizione reale, sul giudizio di un tribunale civile; passa poi la voglia di ridere quando ci si rende conto che questa pretesa è perfettamente coerente con tutto ciò che in passato è stato concesso al ministato vaticano: prebende ed elargizioni, esenzioni fiscali e dai controlli per l'operato dello IOR, leggi sanitarie su misura ed effettivamente non ci sarebbe nulla di strano se un bel giorno gli si concedesse pure di auto-assolversi dai propri crimini.

In Direzione Ostinata e contraria #3

Troppo spesso i media e le autorità attaccano gli artisti di strada definendoli “graffitari” (se va bene) o “imbratta-muri”, “vandali” senza però sapere in realtà di cosa stanno parlando... Questa rubrica si propone di avvicinarvi al complesso mondo dei graffiti e più in generale dell’arte di strada, focalizzando la vostra attenzione su questi esteti oltremodo bistrattati e sulla loro produzione artistica. Come farlo meglio se non sentendo la voce di uno di loro? A questo proposito ho intervistato Ivan Tresoldi, membro fondatore di Art Kitchen.

Lasciando la parola a Ivan...

Quando nasce la tua vena poetica e cosa ti ha spinto a portarla in strada? Già dagli studi liceali ho preso a cuore la poesia e mi ha interessato molto per la caratteristica di attraversare tutti i popoli e tutte le culture. La decisione di portarla in strada nasce tra il 2000 e il 2003, indipendentemente dal viaggio in Chiapas in cui sono entrato in contatto con l’Accion Poetica di Armando Alanís Pulido seppure poi quest’ultima costituisca una parte della mia poetica. Il vero motore di questa scelta è stata la forte voglia di riscatto sociale, questo perché ho sempre notato una mancanza di poesia nella nostra società e ritengo questa mancanza il sintomo di un’anomia delle relazioni sociali. Inoltre la poesia è troppo relegata, mettendola in strada l’ho resa pubblica e alla portata di tutti. Un po’ come in Art Kitchen dove facciamo società prima che arte.
Ecco... parlami di AK! Art Kitchen viene fondata nel 2007 da un progetto mio e di Jacopo Perfetti, con il tempo il collettivo è cresciuto e ora è composto da 13 persone. Nell’associazione l’obiettivo è quello di autoprodursi, infatti lavoriamo su differenti piani: dalla scuola in Palestina a mostre a Milano alla comunicazione per la grande azienda, il tutto con dei livelli di contraddizione e aderenza ai nostri valori che differiscono in base ai singoli progetti.
Appunto, non ritieni che collaborare sia con associazioni quali Emergency o a contatto con la popolazione di Haiti, sia con multinazionali come Nestlé porti a contraddirsi? Non pensi che lo stesso valga anche per aziende come LaRinascente? Non per giustificarmi, ma noi abbiamo lavorato solo indirettamente con Nestlé. Chiusa la parentesi quello che tu dici è molto vero, il problema nasce dal fatto che in Italia sono le grandi aziende che sostengono la cultura, e questo vale in particolare per LaRinascente e Campari, che hanno al loro attivo una lunga lista di artisti come Dudovich e Depero. Appunto per questo motivo noi lavoriamo con loro, poi per quel che mi riguarda ciò che davvero conta è il saldo delle pratiche. In maniera provocatoria potrei quasi dire che mi andrebbe bene lavorare per Nestlé, infatti “rubargli” soldi per restituirli ad Haiti ritengo che porti a produrre ecologia nel mondo.
Quindi preferisci sacrificare la coerenza per quei risultati? Si, per me vale più la pratica del pensiero, infatti l’intransigenza purtroppo non è applicabile a due modelli: la comunicazione e il “profitto”. E nel momento in cui vogliamo fare mostre a ingresso gratuito, portare avanti progetti educativi e pagare le 13 persone di AK i soldi da qualche parte devo trovarli...
Il problema é imputabile alle istituzioni che ignorano e anzi osteggiano l’arte? Certamente, e questo lo si vede particolarmente qui a Milano.
Cosa ne pensi delle distinzioni che tentano di fare fra arte e scarabocchi? I distinguo sono problematici, infatti non puoi dire che sia vandalismo o arte in base all’estetica ma se ha o meno un significato o una relazione fra il pubblico e l’autore da cui fluisce quell’opera, quindi non esistono scarabocchi o arte ma esiste condivisione e rispetto ad un atto che tu poni nel pubblico. Inoltre il bambino che “spacca” di tag un quartiere va compreso nel suo agire e accompagnato, qui invece di educare si criminalizza e si reprime. Quindi ben venga la parte “illegale” dell’arte come atto di protesta, magari le cose cambieranno e a quel punto il sottopassaggio di Romolo pieno di scritte diventerà colorato da disegni degli stessi autori!

venerdì 30 aprile 2010

Un anticipazione del prossimo numero: CRISI DELL’UNIVERSITA’ E DEBITO STUDENTESCO

CRISI DELL’UNIVERSITA’ E DEBITO STUDENTESCO
Editoriale sottotraccia, rivista universitaria della Statale di Milano – ANNO2 NUMERO3 MAGGIO 2010 – sottotraccia.tk


Il principale problema dell’università, al di là della riforma non ancora in discussione in parlamento, è come finanziarsi. Una cosa è chiara da ormai venti anni, e la crisi l’ha resa ancora più evidente: gli Stati nordamericani ed europei intendono diminuire il loro contributo economico al sistema d’istruzione superiore. Laddove da tempo i fondi pubblici non costituiscono più la principale fonte di entrata, come in Gran Bretagna, negli Stati Uniti e in Canada, il sostegno statale subisce una diminuzione accelerata. Nei paesi in cui il finanziamento dell’università è ancora essenzialmente pubblico, l’intero impianto viene messo in discussione. Questa è la situazione in Italia, in Francia, in Grecia e nei paesi dell’Europa dell’est. Una scelta politica precisa: le finanze pubbliche e quelle private, sempre più in crisi negli ultimi anni, devono essere risanate da un lato diminuendo i contributi e la spesa pubblica e dall’altro riorganizzando il funzionamento delle istituzioni pubbliche in un’ottica manageriale. Per l’università la musica non cambia: i soldi non ci sono, datevi da fare per trovarli!
Come salvare un' università dalla crisi finanziaria? Come diversificare ed aumentare i flussi d’entrata?
I singoli atenei, non potendo più contare sulle casse dello stato, stanno da tempo sperimentando il ricorso ad altre fonti di finanziamento, che possono essere le imprese, le banche, gli enti locali e le tasche degli studenti. Anche se gli esiti delle strategie adottate dipendono dai rispettivi contesti normativi ed economici, vi è tuttavia una tendenza già affermata ed in continua espansione: l’aumento generalizzato delle tasse a carico degli studenti. Negli Stati Uniti le tasse d’iscrizione nei college pubblici sono aumentate in media del 56% tra il 2001 e il 2006, anno in cui l’iscrizione a un corso di quattro anni costava in media $5,685. Perfino in Francia, dove l’iscrizione alla laurea triennale e al master costano rispettivamente €171 e €231, tra il 2001 e il 2009 si è registrato un aumento rispettivamente del 27% e del 70%. In Italia, tra il 2001 e il 2007 le entrate derivanti dalla contribuzione studentesca sono aumentate del 53,4%.
Gli aumenti sono stati ovunque sensibilmente maggiori all’inflazione, tuttavia perchè le tasse a carico degli studenti diventino una consistente risorsa finanziaria per gli atenei, come accade negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, è necessaria la trasformazione dell’istruzione superiore in un servizio a pagamento. La risoluzione dei problemi finanziari dell’università causati dai tagli passa quindi attraverso l’affermazione del principio in base al quale gli studenti sono tenuti a pagare il costo della loro istruzione.
E’ quello che è avvenuto nel 1997 in Gran Bretagna. I pesanti tagli (riduzione nei fondi per studente del 36% tra il 1989 e il 1997) stavano portando il sistema universitario sull’orlo del collasso. Il primo governo New Labour decise quindi di porre fine alla gratuità del sistema d’istruzione superiore stabilendo nella cifra di £1.000 l’ammontare della tassa di iscrizione. Il limite fu innalzato nel 2006 a £3.000. L’attuale governo ha già annunciato dei tagli tra il 5% e il 20% che verranno applicati in seguito alle elezioni politiche, insieme all’ulteriore innalzamento del limite a £7.000 a partire dal 2013.
Ed è quello che sta avvenendo in Italia. All’inizio degli anni ’90 si posero le premesse per la fine della gratuità dell’istruzione superiore affermando il principio in base al quale gli studenti sono tenuti a contribuire al finanziamento del sistema universitario secondo dei tetti massimi stabiliti dal ministero (legge n.537/93). Nel 1997 (DpR 306/1997) il tetto massimo alla contribuzione studentesca venne reso flessibile, fissandolo nella percentuale del 20% del FFO (la principale quota del finanziamento statale). Dieci anni più tardi, la Commissione Tecnica per la Finanza Pubblica del Ministero dell’Economia, invitava a innalzare il limite al 25% (doc. 2007/3 BIS): alla continua crescita delle spese degli atenei dotati di autonomia finanziaria, non corrispondeva un adeguato incremento del FFO. Nel 2009, ben 27 atenei su 61 non rispettavano il tetto del 20%. La Statale di Milano, dove quest’anno le contribuzioni studentesche si attestano al 30% del FFO, è la sesta università pubblica più costosa d’Italia. Il problema che si sta ponendo è evidentemente quello di aumentare il livello di tassazione in maniera tale da riuscire a coprire i pesanti tagli decisi dal governo (l. 133/2008). Siccome l’ulteriore aumento dei costi renderebbe l’università inaccessibile e, per quello che interessa ai baroni e al governo, implicherebbe una diminuzione degli iscritti, l’unica soluzione sarebbe la stessa che è stata usata in Gran Bretagna: l’indebitamento degli studenti attraverso i prestiti concessi dalle banche. I prestiti d’onore esistono già. Sono stati introdotti nel 2003 da BancaIntesa con un progetto sperimentale rivolto agli studenti di alcune università. Nel dicembre 2007 il ministero delle Politiche giovanili ha fatto sua l’iniziativa all’interno del progetto “diamogli credito”, che permette ai giovani dai 18 ai 35 anni la possibilità di accedere ad un finanziamento al tasso del 5,80%, coperto per metà dal Ministero e per metà dalle banche. Il ricorso al prestito erogato dalle banche per poter accedere all’istruzione superiore potrebbe presto divenire la prassi. Gli strumenti esistono già e la riforma attualmente ferma alla Commissione del Senato ne prevede l’ampliamento. Si tratta dell’unica parte del disegno di legge (art. 4) su cui maggioranza e opposizione concordano. Ovviamente la possibilità di ricorrere all’indebitamento degli studenti con le banche come soluzione ai problemi finanziari dell’università si sta facendo strada nel dibattito pubblico attraverso un discorso ben più accattivante. L’innalzamento delle tasse e il ricorso al prestito d’onore risponderebbero infatti al principio di equità sociale: permetterebbero di favorire l’accesso all’istruzione superiore da parte dei poveri e di potenziare il diritto allo studio. Come ci fanno sapere Perotti, Checchi e Rustichini (la voce.info), il sistema attuale, caratterizzato da una bassa contribuzione (il che è già di per sé discutibile) a carico degli studenti e da un sostegno pubblico al diritto allo studio molto limitato, si poggia sul trasferimento della ricchezza dai poveri (che pagano le tasse allo Stato ma i cui figli non possono frequentare l'università) ai ricchi (i cui figli frequentano l’università a basso costo). Bisognerebbe quindi aumentare le tasse, anche raddoppiarle, e introdurre la “tassa del laureato”: lo studente si indebita per potere frequentare l’università e, quando avrà trovato lavoro inizierà a restituire quanto deve con gli interessi. Si tratta esattamente della stessa argomentazione usata dai New Labour nel 1997 per portare le tasse da £0 a £1000 e per introdurre i prestiti. Come spiegò in seguito l’allora Ministro dell’Istruzione, “higher education did not raise sufficient resources to prevent a collapse in the system [..] We literally had to bite on the bullet of charging fees, and we had to do it very quickly because we knew that if we didn't we would not get it through Parliament”. Al di là delle giustificazioni ideologiche, i risultati sono sotto agli occhi di tutti: il governo inglese taglierà presto i fondi all’università e aumenterà le tasse a £7.000, e chi si è immatricolato quest’anno, quando le tasse ammontano ancora a £3000, concluderà gli studi con un debito di £23,000. Il debito studentesco continua a crescere, così come le tasse. Negli Stati Uniti il livello di indebitamento medio dei neolaureati è ancora più alto e aggravato dagli interessi a tasso variabile. Sono migliaia le persone che non riescono a estinguere i debito. Una bella ipoteca sul futuro dei laureati. Alla faccia del diritto allo studio e dell’equità sociale.

martedì 13 aprile 2010

Ci salverà il capitalismo verde ?

16 aprile h 17.00 @ facoltà di agraria, via Celoria 2

Fra collasso biologico, crisi economica, crisi climatica e crisi democratica c'è da perderci la testa. Sicuro c'è da agire e c'è da farlo in fretta. alcuni sostengono che possa esserci una speranza nel rinverdirsi del capitalismo, altri nel neo-primitivismo, altri ancora nel welfare state climatico, molti altri ancora non sanno sinceramente dove sbattere la testa.
presentando il secondo numero di sottotraccia discuteremo di tutto questo assieme ad Alex Foti(attivista ed autore del libro Anarchy in the Eu) ed ai ragazzi della ciclofficina "a ruota libera, che inaugura la sua cicloteca.
ovviamente a seguire se magna e se beve

mercoledì 17 marzo 2010

Posologia dell’aborto clandestino: il Cytotec.

Per abortire clandestinamente oggi non si usano più i ferri da calza ed il prezzemolo ha lasciato il posto ad un metodo molto più efficace, quasi invisibile: si chiama Cytotec ed è un gastroprotettore utile per la terapia delle ulcere gastroduodenali.
Può essere acquistato dietro ricetta medica alla modica cifra di 14 euro in farmacia e, se fosse un problema, il mercato nero può facilmente sopperire alla mancanza di prescrizione.
Le fasce "deboli", quelle più soggette all'uso del Cytotec, sono “casualmente” le meno tutelate dalla Legge 194: le straniere e le minorenni, soprattutto all’interno di quei contesti dove l’educazione sessuale scarseggia.
Se assunto nelle dosi indicate il farmaco non implica conseguenze diverse da un aborto spontaneo, per questo è difficile quantificarne l'uso.
Data la lenta assimilazione si assiste spesso a casi di sovradosaggio che implicano seri effetti collaterali, non ultimo, la morte.
L'uso del Cytotec è fortemente sconsigliato per l' interruzione di gravidanza: la stessa azienda produttrice elenca fra gli effetti collaterali la morte materna e fetale, l'iperstimolazione uterina, la rottura o perforazione
dell'utero, emboli da fluido amniotico, emorragie severe, ritenzione placentare.
L'aumento dell'uso di questo farmaco come interruttore di gravidanza, nell'ultimo periodo, non stupisce:
i numerosi attacchi alla 194, l'imbarazzante numero di medici obiettori e le fantozziane trafile burocratiche, sono già motivazioni più che sufficienti, ma se a questi dati si aggiunge il terrore suscitato dal Pacchetto Sicurezza e la convinzione, fomentata a lungo dai media, che i medici possano denunciare i migranti clandestini, si ottiene un quadro completo della situazione.
Il problema è particolarmente ostico e complesso, si tratta in realtà di due settori che non godono oggi di buona salute: il primo è l'autodeterminazione della donna, la possibilità di conoscere ed avere a disposizione tutti i mezzi per potere essere padrona del proprio corpo, il secondo riguarda i diritti umani delle donne straniere. Da una parte una società patriarcale, sempre più invadente, che vede la maternità come funzione ultima e naturale della donna in quanto angelo del focolare e l'uomo, ovviamente eterosessuale, potente capo della famiglia. Tutto ciò che non si conforma a questo modello viene quindi definito "deviante", qualcosa di malato che deve essere estirpato (qualcuno ha riassunto tale ottusa posizione utilizzando il termine "contro natura").
Dall'altra parte siamo di fronte ad una fascia di popolazione che viene tagliata completamente fuori dai diritti umani. Sulle spalle dei clandestini si sta costruendo un mercato vergognoso, in cui anche i diritti
fondamentali, come quello alla salute, devono essere acquistati in soldoni sonanti, un mercato in cui l'unica legge è dettata dal potente.
Le continue dichiarazioni razziste dei nostri governanti riempiono le prime pagine, mentre altre notizie
vengono accennate appena: una transessuale che si toglie la vita la vigilia di Natale nel CIE di Corelli; una prostituta a Bari che muore di tubercolosi, troppo terrorizzata dalla possibile denuncia per andare in ospedale, le donne che muoiono ogni anno di Cytotec perché a loro è preclusa la possibilità di abortire in ospedale.
Chi pensa che la 194 sia solo una legge che difende l'aborto è fuori strada: essa è nata per tutelare la salute e la consapevolezza della donna.
L’efficacia con cui viene applicata, parimenti, indica il livello di attenzione del nostro paese alle pari opportunità ed il fatto che ci siano tuttora molte persone che non riescono a beneficiarne implica che c’è ancora molto da fare.

Biocarburanti? Sì, ma con cautela

Biocarburanti? Sì, ma con cautela

"L'uso di oli vegetali per il carburante dei motori può sembrare insignificante oggi, ma tali oli possono diventare, nel corso del tempo, importanti quanto i derivati dal petrolio e dal carbone dei nostri giorni" - Rudolf Diesel, 1912.
Solo ora, dopo 70 anni di dominazione dei combustibili fossili, si ritorna a parlare di biocarburanti, i combustibili gassosi o liquidi ricavati da materiale vegetale, e quindi da fonti rinnovabili, che, al contrario del GPL o del GNC, sono perfettamente compatibili con gli attuali sistemi di utilizzo (dall’autotrazione al riscaldamento) e miscelabili con i normali carburanti ad oggi maggiormente utilizzati.
Due sono le principali tipologie: il biodiesel e il bioetanolo. Il primo deriva da oli vegetali, il secondo dalla fermentazione di colture zuccherine. I loro effetti benefici sull’ambiente si misurano in una riduzione dei gas serra dal 40% al 100% per quanto riguarda il bioetanolo rispetto alla benzina; e fino al 70% per quanto riguarda il biodiesel rispetto al diesel. Non contribuirebbero, quindi, all’incremento dell’effetto serra, in quanto rilasciano nell’aria solo la quantità di anidride carbonica utilizzata dalla pianta durante la sua crescita, e diminuirebbero notevolmente l’emissione di monossido di carbonio e di idrocarburi incombusti.
La loro produzione, ancora molto bassa (in testa Stati Uniti e Brasile), sale ogni anno anche grazie a politiche di incentivi attuate da molti Paesi. Un importante fattore che potrebbe contribuire al successo di questi combustibili è, infatti, la volontà politica dell’Europa e degli USA di rendersi il più possibile indipendenti dal petrolio del Medio Oriente e dal gas naturale russo. Fu questa la ragione che spinse l’allora presidente americano Bush ad attuare una politica di forti incentivi (7 miliardi di dollari l’anno) volta all’incremento della produzione di etanolo da granoturco (136 miliardi di litri nel 2022). Aree sempre più vaste, una volta destinate alla produzione alimentare, sono state quindi destinate alla produzione di mais. Ma è proprio questo il "crimine contro l'umanità" di cui parlò, nel 2007, Jean Ziegler, inviato speciale dell’ONU per il diritto al cibo. Il boom dell’etanolo ha infatti notevolmente contribuito all’impennata dei prezzi agricoli. Per ovviare a queste problematiche iniziano a prendere piede i cosiddetti biocarburanti di seconda generazione, ricavati da materiale lignocellulosico, la parte “no food” della pianta. Il processo di conversione è però molto complesso e costoso, cosa che potrebbe vanificare i benefici ottenuti.
Ma quanto effettivamente questi biocombustibili gioverebbero all’ambiente in termini di riduzione di gas serra, e in particolare di CO2? Una previsione completa dei costi sia economici sia energetici (e quindi anche in termini di emissioni di gas serra) deve infatti prendere in considerazione, oltre all’impatto dell’etanolo al momento dell’utilizzo, anche gli effetti della produzione su larga scala della biomassa: dall’uso massiccio di fertilizzanti alla conversione di nuovi vasti appezzamenti di terra in terreni agricoli. La rimozione di foreste o praterie causerebbe il rilascio, per combustione o decomposizione, del carbonio fissato durante la loro crescita, per di più se l’area convertita aveva alti valori di fissazione del carbonio, le emissioni di CO2 dovute alla conversione dei terreni possono essere notevoli. Altri effetti di un’intensa agricoltura sono un aumento dell’erosione del suolo, il suo impoverimento, l’inquinamento delle acque e un declino della biodiversità.
Oggi sta prendendo piede sempre più velocemente una nuova generazione di biocarburanti: quelli derivati da microalghe. Queste potrebbero rappresentare un’interessante alternativa alle specie terrestri, grazie alla produttività notevolmente maggiore e al fatto che non sottrarrebbero terreni e acqua alle normali coltivazioni, evitando quindi una pericolosa competizione con la produzione di cibo per uomini e animali da allevamento.

Editoriale: il capitalismo verde

Per rendersi conto del livello della crisi economica ed ecologica non c'è nulla di meglio che osservare il numero di parole spese per glorificare soluzioni che, nel migliore dei casi, rimangono puramente retoriche e, nel peggiore, fungono da presupposti per un ulteriore aggravamento della situazione. Il fallimento del summit danese di COP 15 (e dei summit precedenti) è sotto gli occhi di tutti, talmente palese che non vale nemmeno la pena di spenderci più di due parole. E allora perché ovunque intorno a noi si moltiplica la retorica del capitalismo verde? Mercato delle emissioni, biocarburanti, addirittura il nucleare "amico dell'ambiente", fiumi di inchiostro ed ore di conversazione celebrano il capitalismo ecocompatibile, ed ecco allora moltiplicarsi autobus a biodiesel, linee di montaggio a ridotto impatto ambientale, condizionatori "ecosostenibili", mele “biosolidali”.
La soluzione ad un problema che si ammette essere complesso appare semplice, il discorso che la sostiene è tranquillizzante: “comprate prodotti "verdi", non preoccupatevi del problema, la mano invisibile del mercato curerà anche la febbre del pianeta, del resto non ha avuto successo in passato?” Diseguaglianza, sottosviluppo e povertà sono concetti oramai consegnati al passato. Ironia a parte, può essere utile indagare le ragioni di questa infatuazione bucolica del mercato. Il capitalismo rappresenta un modo di produzione "rivoluzionario", strutturalmente senza fine, in cui lo scambio denaro-merce produce un surplus di denaro che deve essere necessariamente reinvestito per garantire la tenuta del sistema; il reinvestimento è possibile solo se la "sfera del mercato" si amplia, solo se, in poche parole, il mercato riesce a creare nuovi bisogni o a soddisfare necessità che precedentemente trovavano risposta in altri ambiti di produzione.
Ma questa crescita illimitata, necessaria al funzionamento dell’apparato economico, si scontra in primo luogo con i limiti fisici di un sistema-terra dalle risorse limitate e in via di esaurimento. Ciò crea una fortissima contraddizione tra la sfera ambientale e quella dell’economia. Il sistema-terra, infatti, è governato dalle leggi fisiche di conservazione e trasformazione della materia-energia. L’uomo, in sostanza, non è in grado di creare né di distruggere, ma può soltanto trasformare la materia e l’energia. Ognuna di queste trasformazioni comporta, però, anche dei costi: al termine di ogni processo, infatti, una certa quota di energia viene dispersa in modo irrecuperabile. Tutto questo, perciò, risulta incompatibile con il concetto stesso di sviluppo illimitato, proprio perché ciò non è in grado di far fronte ai vincoli fisici dati dal contesto ambientale. L’unica soluzione possibile al problema ambientale parrebbe quindi quella di una forte limitazione dei consumi. Questa, però, risulta incompatibile con un sistema economico basato sul reinvestimento del surplus. Proprio per tale motivo,il problema in questione viene totalmente ignorato, continuando a spingere sull’acceleratore della crescita per far sopravvivere l’intero sistema. Qualora non trovi questo "spazio vitale" il capitalismo entra, infatti, in crisi.
Per quanto la retorica neoliberista tenti di rivenderci il mito del mercato che bada a se stesso, nella realtà storica lo Stato si è sempre occupato di garantire l’ampliamento della sfera del mercato oppure di inserire dei correttivi per impedirne il collasso. Lo Stato assicura la possibilità del reinvestimento del surplus mediante la costruzione di infrastrutture, programmi di riarmo, favorendo l’espansione urbana e geografica del capitalismo, "esportando la democrazia" e conquistando nuovi territori da annettere al "mondo libero"; qualora tutto questo sia impossibile non rimane altro che intervenire direttamente per scongiurare il collasso, ad esempio stampando carta moneta per salvare le banche insolventi. Quando si tratta di sostenere le rendite da capitale tutto diventa possibile, e tutto può venire sacrificato per correggere le disfunzioni di un sistema economico in grado garantire sviluppo economico e benessere diffuso. Quanto c'entra tutto questo con il "capitalismo verde"? Molto, perché se consideriamo che fino ad oggi la priorità del sistema politico internazionale, nelle sue varie articolazioni, è stata quella di garantire la "tenuta" del mercato, allora possiamo vedere al di là della retorica ed iniziare a chiederci quanto questa "riconversione spirituale" del liberoscambismo sia da imputarsi alla crisi ecologica o quanto, più realisticamente, sia da imputarsi alla necessità di creare un nuovo programma infrastrutturale ed una nuova serie di necessità a cui il mercato fornirà equa soddisfazione; in altre parole, la priorità non è il taglio delle emissioni (che in ogni caso continua a non avvenire) ma la garanzia di poter reinvestire il surplus presso nuovi lidi. “Se realmente si tagliano le emissioni, che importanza può avere se qualcuno riesce a ricavarne profitto?” Potrà sembrare che noi si butti via il bambino con l’acqua sporca, eppure, anche ammettendo che si riesca a tagliare le emissioni, (cosa tutt’altro che scontata visti i risultati di COP 15 ) i problemi permangono e stanno proprio nel profitto. Per chiarire utilizziamo un esempio considerando un singolo prodotto: una saponetta ad "emissioni zero"; detta saponetta ovviamente costerà leggermente di più per coprire le spese di ripiantumazione, ammettiamo anche che i produttori siano sinceri e che l’intera popolazione mondiale, presa da crisi di coscienza, decida di acquistare la saponetta miracolosa (già ora siamo abbondantemente nella fantapolitica) e che tale prodotto miracoloso abbia saturato completamente il mercato azzerando le emissioni connaturate alla propria produzione… e poi?La saturazione del mercato ci riporterebbe al punto di crisi, surplus da investire e necessità di spazi per poterlo fare, il surplus ricavato dal sapone dei miracoli dovrebbe essere reinvestito, potrebbe essere reinvestito in altre attività ad impatto zero certo, ma se dovessero aprirsi nuovi spazi? Spazi che garantiscono un ritorno economico superiore a quello che si può ricavare dalla sostenibilità ecologica?
Se domani si scoprisse un modello di business che assicura profitti stratosferici riversando mercurio nei fiumi o sparando arsenico nelle nubi, è veramente così realistico pensare che buona parte dei surplus ottenuti commerciando prodotti "amici dell'ambiente" non sarebbe reinvestito in queste attività ?Qui è dove muoiono tutte le buone intenzioni.
Il mercato non possiede gli anticorpi necessari contro questo tipo di speculazione, quando ci si riduce a sperare nel "buon cuore" delle multinazionali e dei centri finanziari, o nella capacità di autoregolazione del mercato, le prospettive per un futuro sostenibile non sono alla frutta ma hanno abbondantemente superato l'ammazzacaffè.
Perché, invece, non confidare in un secondo New Deal verde, un welfare state climatico? Magari simile a quello tanto glorificato da Obama, una soluzione eccellente per salvare capra e cavoli: le multinazionali guadagnano un po’ meno e lo stato garantisce la buona fede ecologista delle stesse. Eppure anche qui si rischia di peccare di ingenuità.
Abbiamo già visto come lo Stato e le politiche di espansione del mercato rappresentino un tassello fondamentale del sistema e garantiscano lo spazio di manovra basilare per assicurare il reinvestimento del surplus, quindi perché fidarsi?
Anche lo stesso paragone con lo welfare state è completamente fuori luogo dato che lo stato sociale rappresentò un tentativo di mediazione fra le istanze capitalistiche e quelle potenzialmente rivoluzionarie del movimento operaio. Anche ammesso e non concesso che la mediazione sia una strada percorribile, quali istanze si dovrebbero mediare oggi? Di quali soggetti?La realtà è che non esiste alcun tavolo di dialogo né, oggettivamente, se ne avverte il bisogno.
Alcuni se ne stanno chiusi dentro un palazzo concentrati non sulle emissioni ma su come riuscire a estrarre profitto dalla crisi, altri stanno fuori dal palazzo reclamando giustizia e trovando solo manganelli. Nel migliore dei casi le decisioni che emergono dalle conferenze programmatiche (quando e se emergono) presuppongono una gestione autoritaria della crisi. Presuppongono la cooptazione di parole d’ordine ed associazioni ambientaliste per costruire una nuova verginità ideologica alla solita macchina che consuma risorse e sfrutta il lavoro per produrre profitti la cui redistribuzione riposa ormai sulla sola filantropia “dei ricchi”. Quanto detto ci spinge a pensare che le varie crisi di cui sentiamo parlare sempre più spesso (ecologica, finanziaria, produttiva, climatica e biologica) siano in realtà da ricondurre alla crisi del modello di produzione contemporaneo.
Questa ipotesi indica la natura politica del problema che ci troviamo di fronte. Al di là di quanto sostengono i profeti del neoliberismo, nelle sue versioni di destra e di sinistra, una soluzione efficace non può essere consegnata alla capacità di autoregolazione del mercato, all'intervento statale per correggere alcune disfunzioni o per sostenere i consumi attraverso politiche ridistributive. La soluzione deve essere politica, in quanto il problema è politico . Non si possono produrre soluzioni efficaci che lascino immutato il sistema economico, si può e si deve invece pensare e continuare a pensare alla soluzione del riscaldamento globale e dell’esaurimento delle risorse come ad un qualcosa di profondamente legato al problema della concentrazione di potere e reddito, ed al deficit di partecipazione che questi implicano, nonché di una visione economica noncurante dei vincoli fisici dati dal contesto ambientale.

La storia di Zingonia, il ghetto che muore di sete.

La storia di Zingonia, il ghetto che muore di sete.
C’era una volta Renzo Zingone, noto ed influente banchiere romano che un bel giorno, cavalcando un sogno di evidente megalomania, decise di costruire una città che portasse il suo nome: Zingonia.
Zingonia nacque proprio così, nel 1964, come progetto di pianificazione urbanistica privata e ridente archetipo di “città moderna”: sorta nello strategico crocevia logistico tra Bergamo-Milano-Brescia, sarebbe dovuta diventare un efficiente connubio tra “produzione, residenza e socialità”, con nuove strutture residenziali edificate ad hoc, unità produttive nell’estremo sud dell’area ed infrastrutture per lo sport ed il tempo libero collocate come cuscinetto tra le prime due; un enorme complesso, insomma, destinato ad accogliere 50000 abitanti e circa 1000 unità produttive.
I notevoli capitali necessari per la costruzione della sopracitata città modello derivavano tutti dalle molteplici attività economiche del suo fondatore: in quanto presidente del Gruppo Zeta, poteva infatti disporre liberamente dei quattrini derivanti dalla Zingone Strutture (ZS), Zingone Iniziative Fondiarie (ZIF) e dalla Banca Generale di Credito, nate e cresciute durante gli anni ’50 e ’60.
Il sogno di una città autonoma e razionale, tuttavia, morì nella metà degli anni Settanta, quando il signor Zingone si tolse improvvisamente di scena per continuare le sue attività imprenditoriali in Costa Rica e Guatemala, investendo i massicci capitali del Gruppo Zeta nell’ agribusinnes e nell’allevamento, accaparrandosi successivamente il monopolio del riso in Costa Rica e Nicaragua (dove ne acquisì l’impresa demaniale) e creando la Corporaciòn Megasuper, seconda catena di supermercati in Costa Rica. (Una piccola nota di colore: la signora Donatella Pasquali Zingone, vedova di Zingone, moglie in seconde nozze del senatore Lamberto Dini e presidentessa del Gruppo Zeta dal 1981, nel 2007 è stata condannata a Roma a due anni e quattro mesi di reclusione per bancarotta fraudolenta mediante falso in bilancio a conclusione del processo sulla vicenda del Gruppo Zeta).
Zingonia è stata lasciata da sola, quindi e nella più completa schizofrenia amministrativa, dal momento che, in assenza di un governo unitario, si è ritrovata ad essere frazione di cinque comuni diversi (Boltiere, Ciserano, Osio Sotto, Verdello e Verdellino), impegnati nel disinteresse più totale piuttosto che nell’assunzione delle responsabilità verso questa zona abbandonata a se stessa.
Attualmente, la popolazione totale dell'area di Zingonia è di circa 1778 abitanti, di cui 1328 (il 74,7%) migranti e sono rimasti soltanto la cadente fontana con l’obelisco spaziale ed il fatiscente Grand Hotel a testimonianza di fasti mai realizzati né vissuti. Zingonia non è un paese e nemmeno una città: è semplicemente “un’area”, nemmeno segnata sulle cartine stradali. Ci sono i tre enormi complessi condominiali “Athena”, gialli e cadenti, che dal momento della loro costruzione non hanno MAI subito un intervento di manutenzione: l’intonaco va sbriciolandosi in strada, cadono le tegole dai tetti e nessuno se ne cura. Gli abitanti di Zingonia vivono in un duplice ghetto: quello dei comuni limitrofi, che vedono quest’”area” come un cancro, pericoloso ed indesiderabile e quello della malavita organizzata la quale, approfittando della generale indifferenza, opera indisturbata nell’ormai solido racket di spaccio e prostituzione. La polizia staziona tronfia e inutile davanti alla fontana: poco più in là, nella “Piazza Affari”, dimorano pusher e magnaccia ma lì spesso e volentieri le questioni si risolvono a pistolettate nelle gambe ed ecco il motivo per cui i nostri tutori dell’ordine se ne tengono ben lontani.
Intorno ai condomini Athena, si sollevano al cielo decine di capannoni e non è un segreto per nessuno: lì dentro c’è lavoro per tutti, in nero ovviamente, perché tanto si sa, con il nuovo DdL Sicurezza che sancisce la clandestinità come “reato grave”, il non avere permesso di soggiorno rende automaticamente “invisibili” e perciò i padroni possono permettersi di speculare a cuor contento sopra le schiene dei migranti. Un pezzo di pane guadagnato senza diritti: ecco cosa rende gli appartamenti Athena così appetibili. Le agenzie immobiliari, gli amministratori ed i padroncini che, di regola, dovrebbero regolare gli affitti, sanno rendersi opportunamente invisibili: le strutture non ricevono manutenzione da anni, sono clamorosamente fatiscenti EPPURE gli affitti sono salatissimi e nessuno fa domande né si preoccupa se, nella stessa stanza, dimorano più di dieci persone.
Zingonia, nel 2008, è stata anche appannaggio della campagna elettorale leghista: uno sfortunato corteo verde, nato “per ripulire Zingonia prima che infetti i paesi vicini” è stato pacificamente bloccato dagli stessi migranti, irritati, probabilmente, dallo sconcertante utilizzo del loro disagio nell’ottica di un’insensata speculazione politica. Questo fatto, tuttavia, ebbe notevoli ripercussioni mediatiche: su Zingonia si espressero addirittura da Montecitorio e tutto ciò che ottenne questa “indignazione d’alto bordo” furono una serie di tremende retate nei comprensori (più di cento i carabinieri impegnati volta per volta, provenienti dai comandi di Bergamo, Zogno, Treviglio e Milano) che null’altro conclusero se non la reclusione di qualche irregolare (ricordiamoci la Bossi-Fini…) nei Centri di Permanenza Temporanea di Milano e Gorizia. Gli spacciatori e i malavitosi, lo dicono gli stessi abitanti, non sono così sprovveduti da abitare in quei palazzi, così fatiscenti e ciclicamente nell’occhio del ciclone mediatico: se ne tengono ben lontani, dribblando opportunamente le periodiche retate.
Si era parlato, sapete, dopo tutto questo assurdo clamore, della possibilità, per Zingonia, di entrare in un “Contratto di Quartiere”, stipulato tra la Regione Lombardia, gli assessorati dei comuni limitrofi e fortemente caldeggiato dall’ultraleghista presidente della Provincia bergamasca, Pietro Pirovano. Si parlava di “fondi trovati tra le pieghe del bilancio”, di “necessaria riqualificazione” e “nuove strutture”. Peccato però che il progetto sia stato giudicato in sintesi “troppo complesso”: forse perché, oltre alla demolizione di immobili, prevedeva anche la costruzione di centri d’integrazione, di strutture popolari con affitti calmierati e di accompagnamento all’affitto per quegli inquilini rimasti senza casa in seguito alle riqualificazioni. Per salvare faccia ed apparenza, quindi, la Regione Lombardia ha ben pensato di inserire Zingonia nei progetti FAS (Fondo Aree Sottosviluppate), snellendo gli obiettivi: i comprensori Athena saranno rasi al suolo, verranno ampliate le aree commerciali e nessun accenno a futuri propositi di edilizia popolare: gli alloggi ad affitto calmierato non saranno edificabili “poiché si assisterebbe ad una perpetuazione del problema”. Ma la vera perpetuazione del problema è un’altra, ben nascosta sotto l’ennesima facciata dei buoni propositi: LA SPECULAZIONE. Vi dice nulla il nome di Grossi, braccio della Compagnia delle Opere nonché costola economica di Comunione e Liberazione? Ecco, parte del futuro cemento che annegherà quest' ”area”, sarebbe dovuto arrivare proprio dalle sue betoniere, se solo non l'avessero arrestato negli ultimi mesi del 2009 per frode fiscale ed appropriazione indebita. Che strano.
Nessun accenno, ovviamente, agli abitanti, racchiusi senza distinzione sotto lo stemma di “problema” e alla meglio ritenuti come branco indifferenziato di spacciatori e criminali. Nessuno si è scandalizzato, infatti, dopo aver letto sui giornali che il giorno 3 dicembre 2009 è stato effettuato il taglio dell’acqua per morosità ai complessi Athena 2 e 3 (l’1 si è salvato grazie ad una fortuita colletta tra i condomini), dove tra l’altro si vive senza riscaldamento da anni. Nessuno si è preoccupato del fatto che, in realtà, molti condomini fossero effettivamente in regola con i pagamenti ed i debiti derivassero dalle morosità pregresse degli inquilini precedenti. Nessuno ha fatto caso alle svariate famiglie appena arrivate, disorientate e confuse e senza acqua nel rubinetto. Nessuno si è interessato ai destini dei bambini residenti, senza acqua calda: due tubi, posizionati all’esterno del complesso in pieno inverno e la tranquillità del dovere compiuto (“non avevano pagato le bollette”), hanno tranquillizzato numerose, troppe coscienze.
La reazione degli abitanti, comunque, non si è fatta attendere: un folto gruppo di persone ha occupato la strada statale Francesca, al grido di “Acqua e diritti per tutti!”, bloccando il traffico nell’ora di punta ed obbligando il sindaco del Comune di Ciserano a programmare un incontro tra i rappresentanti dei condomini senz’acqua ed i portavoce della BAS, società che fornisce l’acqua, facente parte del gruppo A2A. Il rimborso complessivo richiesto dalla società è altissimo ed ammonta a 400000 euro. Dopo giorni di estenuanti trattative, si è giunti ad un accordo: ciascun comprensorio dovrà versare subito una quota parte di 2500 euro e poi ciascun condomino si vedrà arrivare a casa, oltre alla bolletta consueta, un bollettino per il versamento della rata per il rientro del debito (circa 125 euro al mese in più per appartamento oltre al normale pagamento per il consumo dell’acqua). Tutta questa trafila, tremendamente burocratica, è comunque ancora dagli esiti incerti: se gli inquilini prossimamente non rispetteranno il “Piano di Rientro”, resteranno un’altra volta all’asciutto, l’attenzione è al massimo livello.
C’era una volta Linda Davis, ventitré anni. “C’era una volta”, perché adesso non c’è più: è morta il 22 dicembre 2009 in uno degli sbriciolati appartamenti del complesso Athena, intossicata dal monossido di carbonio prodotto dal braciere che utilizzava per scaldarsi in quelle stanze gelate, senza riscaldamento per i debiti accumulati negli anni.
A2A, come un macigno durante una frana, è inesorabilmente passata sopra tutto: a Linda, alle difficili condizioni economiche delle famiglie di Zingonia, alla problematica situazione dell’area stessa, a coloro che, al grido di “ACQUA! ACQUA!”, invocavano i propri diritti seduti in mezzo ad una strada. Ed eccola qui, la vera faccia della privatizzazione dell’acqua, il vero disastroso marciume malamente nascosto dietro l’Articolo 15 del Decreto Ronchi: l’esclusione sociale. Verranno infatti attaccati gli ultimi, i più deboli, i più fragili, coloro che non potranno permetterselo, coloro che verranno addirittura colpevolizzati poiché poveri.
C’era una volta Renzo Zingone , c’era una volta Linda Davis e c’è, ancora, Zingonia, solcata da tutte quelle cicatrici che ricordano, irrimediabilmente spesso, ciò che di peggio caratteristico c’è in Italia: speculazione, assenza d’integrazione, mancanza di pianificazione, sviluppo industriale incontrollato. Sopra tutto ciò, come una soffocante coltre di nebbia, ecco a voi l’Indifferenza a far da padrona: il sentimento odioso del Cittadino Bene che non sa vedere oltre una bolletta non pagata.

L'Aggiornamento.
(ovvero di come in realtà il Natale non renda più buono nessuno).
Ci risiamo. Dopo la consueta pausa festiva, che oltre a riempire gli stomaci si preoccupa talvolta anche di pulire le coscienze, facendo opportunamente rimanere i problemi lontani dall'albero e dal vischio, la “Questione Zingonia” ha ricominciato, cocciuta, a bussare contro la porta.
25 Gennaio 2010: ad oggi, il comprensorio Athena 3 è, di nuovo, senz'acqua e presto la medesima sorte toccherà ad altri due condomini (Anna 1 ed Anna 2). Il programma di rientro del debito non ha funzionato e, se mi è concessa dell'amara ironia, permettetemi di esclamare un sarcastico “ma pensa!”.
Sono ben centoventicinque, infatti, gli euro di rata mensile che si era stabilito dovesse versare ciascuna famiglia abitante i sopracitati complessi: cifra sicuramente non irrisoria per la stragrande maggioranza degli abitanti di Zingonia, costretti alla miseria dal bassissimo reddito, dalla disoccupazione, dalla clandestinità e perlopiù vincolati al monoreddito famigliare.
Al termine dell'ultima riunione, tenutasi tra i cinque sindaci dell'area ed i rappresentanti di ALER, Regione e Provincia di Bergamo con lo scopo di avviare un tavolo congiunto di riqualificazione, Ettore Pirovano (presidente leghista della provincia, ndr) ha dichiarato entusiasta: “Zingonia è un ghetto e va abbattuto”.
Il castello di carte è crollato, miseramente, insieme a tutta quella laida rete d'ipocrisia imbastita unicamente per mantenere silenziosa l'opinione pubblica. Il fallimento dell'accordo di rientro era già noto a chi ha obbligato i condomini alla stipula del contratto, si sapeva benissimo che non sarebbe mai potuto essere rispettato e noi, con la nostra incredulità di fronte ad una cecità cosi palese, non siamo stati altro che ingenui.
Le bollette non pagate non sono state altro che un sapiente pretesto, i debiti insoluti unicamente un tentativo per tranquillizzare l'opinione pubblica. Il taglio dell'acqua agirà come un vero e proprio cuneo su Zingonia: le famiglie se ne andranno, gli edifici fatiscenti verranno abbattuti, l'area sarà annegata di cemento, si potrà edificare, ciascun metro quadrato verrà rivalutato tanto oro quanto pesa, dei pusher e delle puttane non resterà traccia ed il bergamasco medio approverà tutto ciò con solenni cenni del capo perché, d'altronde, non pagando le bollette se la sono proprio andata a cercare.
Siamo praticamente in piena campagna elettorale, non dimentichiamocelo: concetti come Ordine, Pulizia e Lotta al Degrado, in questi tempi di crisi ed incertezza, non sono altro che la miglior fabbrica di voti esistente (doloroso deja-vu, ndr).
L'acqua, da simbolo di vita è diventata ricatto, strumento di disuguaglianza sociale sul quale agire indiscriminatamente e Zingonia, dal canto suo, un laido contenitore di problemi da estirpare.
C’era una volta Renzo Zingone , c’era una volta Linda Davis e c’è, ancora, Zingonia, città fantasma abitata da “problemi” e non da “persone”, senz'acqua da mesi ma annegata nell'ipocrisia di una classe politica xenofoba e accentratrice, capacissima, come s'è già visto, di camminare sopra i diritti senza crearsi troppi scrupoli di coscienza.

La Corazzata a2a

SPECIALE A2A

Nulla di meglio di un esempio per comprendere le dinamiche del capitalismo “verde”.
Per una qualche contorta forma di esterofilia, ci aspettiamo che gli alfieri del rinnovamento“ecosostenibile” provengano da qualche landa lontana, magari dal Nord Europa o dagli Stati Uniti, ed invece uno degli esempi più interessanti vive proprio accanto a noi, distante non più di pochi passi dalle nostre vite, produce la nostra elettricità, riscalda le nostre case, smaltisce i nostri rifiuti.
In poche parole costituisce l’ossatura infrastrutturale del Comune di Milano, i suoi destini finanziari sono legati a filo doppio con la salute del bilancio dell’amministrazione pubblica, il suo controllo rappresenta uno dei punti cardine dell’egemonia politico-finanziaria milanese.
Stiamo parlando di A2A, una corazzata il cui giro di affari si aggira intorno ai seimila milioni di euro,
proprietaria, fra le altre, del 60% di Edison, del 25% di Metroweb, del 100% di Amsa, operatore accreditato per il trading di emissioni, certificati verdi ed infine presenza significativa nel mercato dei termovalorizzatori (sua è infatti la “nuova”gestione del termovalorizzatore di Acerra).
Questo gigante multiutility, almeno a parole, ha costruito il suo business attorno alla “sostenibilità”, pubblicando addirittura un bilancio a proposito e fregiandosi del fatto che “A2A ha sempre praticato la Sostenibilità anche verso l’intera comunità dei suoi Clienti, erogando servizi di qualità e producendo energia con tecnologie innovative ed adeguate alle esigenze sociali ed economiche oltre che ambientali.”.
Ripercorrere le vicende di A2A può aiutarci a comprendere meglio quelle che sono le dinamiche reali del capitalismo “verde” in salsa lombarda, gli scontri di potere al suo interno ed il peso reale della fin troppo citata “sostenibilità” in confronto al più banale profitto.
A seconda del livello di lettura, la storia di A2A è estremamente semplice o mostruosamente intricata. I libri di storia ne registrano la nascita il 1 gennaio 2008 in seguito ad una complessa fusione delle aziende di servizi municipalizzate di Milano e Brescia (AEM ASM AMSA); conseguentemente a questa operazione l' azienda è stata quotata in borsa.
I comuni delle due città d'origine, tuttavia, hanno mantenuto un significativo controllo sia in virtù delle quote azionarie in loro possesso sia in sede di nomina del management. Quello che i libri di storia spesso omettono , però, è il ruolo delle agevolazioni fiscali concesse dallo Stato sul finire degli anni '90 per favorire la quotazione in borsa delle aziende municipalizzate, permettendo l’ingresso di capitale privato all’interno delle stesse.
La Commissione Europea, nel giugno 2002, ha considerato questa iniziativa equiparabile ad un aiuto di Stato e perciò ha condannato A2A, fra le altre, alla corresponsione di una multa maximilionaria; il governo, recepita la direttiva, ne ha disposto il pagamento, ma l’azienda, dal canto suo, ha minacciato di azzerare il pagamento dei dividendi per far fronte alla maximulta.
E fin qui non sembrerebbe esserci nulla di particolarmente interessante se non fosse che i Comuni di Milano e di Brescia in veste di azionisti di maggioranza avrebbero fatto affidamento sui dividendi 2009 per garantire la tenuta finanziaria corrente e non stiamo parlando di bruscolini ma di una cifra che si aggira attorno ai 166 milioni di euro (dividendo anno 2008).
Come se non fosse già abbastanza assurdo che la stabilità finanziaria di amministrazioni pubbliche dipenda dalla performance di aziende private, il Comune di Milano, per aggiungere al danno la beffa, “incoraggiato”dal mancato rimborso del taglio dell’ICI (disavanzo di 30 milioni), starebbe pensando di risolvere il problema trasformando i crediti in titoli vendibili, ovvero, in gergo tecnico, cartolarizzando una serie di immobili di proprietà comunale fra cui sedi ANPI e centri sociali (Cox, Ponte della Ghisolfa), riuscendo in questo modo anche nell’intento di liberarsi di “scomode spine nel fianco”.
Da questa iniziativa possiamo comprendere una delle caratteristiche centrali del rinnovamento capitalista in analisi: non si evolve nel vuoto politico come vorrebbe il vangelo secondo il mercato, ma la sua genesi deriva da un equilibrio di poteri (e di nomine) strettamente connesso ai giochi delle forze politiche e, nello specifico lombardo, al “sultanato formigoniano”.
Per essere brutalmente chiari la situazione è questa: un’azienda privata entra in possesso,grazie ad aiuti di stato, della rete energetica lombarda, di fatto privatizzando l'erogazione di quanto, fino al giorno prima, costituiva un bene pubblico; quando questo stato di cose arriva alla sua logica conclusione, l’unica risposta compatibile con la stabilità finanziaria del sistema risulta essere un ulteriore ciclo di privatizzazioni e di svendita dei beni comuni; una strategia, quest’ultima, che fa decisamente emergere una linea di tendenza che, a guardarla con occhi disincantati, risulta avere più a che fare con il saccheggio che con la “libera impresa”.
Tuttavia, per comprendere A2A, il semplice dato finanziario non basta. Come scritto nelle righe precedenti, la sua redditività la rende una preda ambita nei giochi di potere lombardi: le nomine del management, secondo questi tristi maneggi, risultano perciò ostaggio del conflitto/cooperazione fra varie cordate politico-finanziarie.
Al momento i centri di potere principali sono due: uno organico al potere ciellino ed alla Compagnia delle Opere di Brescia, l'altro espressione del sindaco Moratti e della sua legione di consulenti “d'oro”; questi si spartiscono le poltrone più ambite ma in futuro non è da escludersi che componenti minori quali Lega e la holding politica della famiglia La Russa (ora confinati alla periferia del sistema) possano rosicchiare posizioni importanti.
Come già nel sistema sanitario lombardo, la Compagnia delle Opere ha il ruolo del leone tant’è che l’uomo chiave di A2A è proprio Graziano Tarantini, avvocato d' affari, presidente del Consiglio di Sorveglianza, ex presidente della Cdo bresciana e, fra le altre cose, presidente di Akros, nata in seno all’Opus Dei.
Un secondo ruolo di assoluto interesse, quello di direttore delle aree Corporate e Mercato, risulta
essere occupato da un secondo esponente di CL, Renato Ravanelli.
Oltre a questo, la cordata ciellina detiene anche parecchie posizioni di rilievo all’interno delle banche ed è quindi determinante per l’accesso al credito: lo stesso Tarantini è consigliere della Bpm, commissario della
fondazione Cariplo ed azionista di Intesa.
L’altra metà della società risulta essere in mano ai fedayin del sindaco Moratti: uomini di particolare risalto sono Rosario Bifulco, vicepresidente del Consiglio di Sorveglianza, già direttore di Lottomatica (da cui ha ricevuto un compenso di 32 milioni per 4 anni di lavoro) e Giuseppe Sala, ex direttore generale del Comune.
In quota Lega possiamo annoverare incarichi relativamente prestigiosi fra cui quello di Bruno Caparini padre di Davide, parlamentare lumbard: in ogni caso non è un mistero che i bossiani stiano spingendo per ottenere una fetta più grossa.
Questa lottizzazione terminale è uno dei molti paradossi di A2A: si tratta di una compagnia privata a guida politica, un po’ come le vecchie aziende di Stato… ma nel tal caso spartirsi la torta è legale.

Con un curriculum simile non sorprende che la compagnia viva perennemente in quella zona grigia esistente fra commesse di Stato, appalti e libero mercato. Alcuni esempi permetteranno di rendere più chiaro il tutto. In primo luogo il nucleare perché, nonostante tutta l'enfasi sulla sostenibilità e le energie rinnovabili, costruire centrali è un’attività assai proficua e di fronte al vil denaro anche le scorie radioattive possono diventare "amiche dell’ambiente". Del resto, non è un segreto per nessuno la guerra serrata che si sta combattendo per chi fra Edison, Enel e A2A si debba aggiudicare la cascata di denaro legata alla riattivazione del nucleare nel belpaese (al momento sembrerebbe averla spuntata Enel ma i giochi sono tutt’altro che chiusi).
D'altronde le opinioni di A2A sull’atomico sono abbastanza chiare: il direttore del Dipartimento Energia Gilardi ha recentemente affermato che il fotovoltaico è remunerativo solo perché sovvenzionato dallo Stato; in poche parole al progressivo ritiro delle sovvenzioni corrisponderà anche il ritiro di A2A dal suddetto mercato. Per quanto riguarda il nucleare i toni cambiano, infatti Zuccoli, presidente del Consiglio di Gestione, da tempo sostiene la necessità del ritorno al nucleare
arrivando anche a chiamare in causa il destino produttivo, la volontà della nazione, nonché il libero mercato, indispensabile grimaldello ideologico per contrastare la posizione dominante di Enel/EDF.
Curioso poi il fatto che ci si lamenti dei contributi "verdi" per il fotovoltaico ,dato che buona parte del business di A2A risulta essere finanziato dal sistema dei "certificati verdi" e non stiamo parlando di
eolico o solare ma dei cari vecchi inceneritori di rifiuti.
La storia dei certificati verdi è molto interessante e merita di essere raccontata: nel lontano 1992 il Comitato Interministeriale Prezzi dispose il pagamento di sovrapprezzi sul costo dell’energia elettrica da destinare in seguito, con l’altisonante nome di certificato verde, allo sviluppo di fonti energetiche rinnovabili ed "assimilabili"; tra tali fonti fu a poco a poco ammesso di tutto, dagli scarti di raffinazione del petrolio fino all’incenerimento dei rifiuti. Per renderci conto dell’assurdità, consideriamo che nel solo 2005 circa 4000 milioni di denaro pubblico sono stati destinati al finanziamento delle energie "assimilabili" contro i 1700 milioni dedicati allo sviluppo delle fonti realmente rinnovabili; nel 2004 ASM, una delle genitrici di A2A, ha ricevuto 55 milioni come "certificati verdi", tanti da potersi permettere annuali donazioni milionarie all’Assessorato all’Ecologia del comune di Brescia, ma abbiamo visto come in questo settore di mercato il conflitto di interesse non sia un eccezione quanto piuttosto, la norma.
Questo sarebbe già abbastanza, ma la nostra bolletta dell’energia elettrica non è l’unica sorgente di finanziamento per gli inceneritori in quanto anche parte della Tarsu (tassa sullo smaltimento dei rifiuti solidi urbani) contribuisce al sovvenzionamento degli stessi.
Quindi, l'incenerimento non solo si trova ad essere la soluzione più deleteria per lo smaltimento dei rifiuti con il peggiore equilibrio costi benefici, ma dobbiamo anche pagarne le spese di sviluppo; in pratica corrispondiamo il nostro denaro ad un’azienda privata perché ci fornisca un
servizio che però si scopre essere di qualità inferiore ad altre alternative non sovvenzionate e, per completezza, ci sarebbe da ricordare che se in Italia paghiamo tasse per sostenere i termovalorizzatori, nel resto d’Europa sono i termovalorizzatori a pagare le tasse.

Un'altra storia interessante per comprendere i fasti del capitalismo verde in salsa morattiana è quella della Zincar, società di proprietà di Comune (51%) ed A2A (27%) con quote minoritarie in mano a Provincia(12%) e Coldremar Italia (12%).
Lo scopo dichiarato di questa società avrebbe dovuto essere quello di sviluppare soluzioni per la circolazione automobilistica a zero emissioni di carbonio e dico “avrebbe dovuto” perché allo stato attuale la società risulta fallita: in perdita dal 2007, nell’aprile 2009 è venuto alla luce un buco nel bilancio di circa 18 milioni di euro che ha poi contribuito al fallimento datato maggio 2009.
Per quanto celebrati dalla stampa, gli affari di Zincar non sono mai decollati: al suo attivo ricordiamo l’installazione di una stazione di rifornimento per auto ad idrogeno nel quartiere Bicocca che, se non ci fosse il pericolo di trasformare la farsa in tragedia, potremmo definire l'ennesima cattedrale nel deserto.
Quale possibilità, infatti, di veder funzionare quel distributore dal momento che non solo nel nostro paese le automobili ad idrogeno sono considerate illegali e quindi prive del permesso di vendita e circolazione ma anche, soprattutto, i prezzi dell’idrogeno non sono nemmeno lontanamente competitivi con quelli di diesel, benzina e gpl?
La storia tuttavia non finisce qui, infatti i nostri non si limitavano a produrre carburante per auto inesistenti ma percepivano pure finanziamenti dalla Comunità Europea nell'ambito del progetto Urban II con lo scopo di costruire un "centro per la sicurezza" nella periferia milanese di Quarto Oggiaro, ora destinato a rimanere incompleto.
Purtroppo nella città delle "consulenze dorate", dei Moratti, dei Grossi e degli Abelli, il fallimento di Zincar non suscita nemmeno particolare scalpore, rappresentando piuttosto solo l’ultimo elemento di una serie di società in cui il pubblico paga i conti ed il privato miete i guadagni, con la sostenibilità che giustifica consulenze, studi di fattibilità e progetti che nemmeno si pensa di poter portare in essere; l’importante sembra essere spendere soldi, non certo generare profitto, meno che mai sostenibile e forse solo in questo senso l’esperienza di Zincar è miratamente significativa.
Nel 2006 il Comune di Milano rileva la società da Aem che fino ad allora ne aveva detenuto la quota di maggioranza, ma nessuno si preoccupa di controllarne i bilanci; proprio da qui nasce il sospetto che il buco sia precedente al 2006 e che il Comune abbia voluto comprare la società per togliere “la patata bollente” alla municipalizzata che, di lì a poco, avrebbe cominciato il cammino per confluire all'interno di A2A.
Ricostruire le spese di Zincar rischia di diventare complesso e poco significativo dal punto di vista teorico ma basandoci sulle note spese ritrovate dalla Guardia di Finanza possiamo ricomporre la fibra morale del capitalismo dal volto verde: 2000 euro per coprire una trasferta di Baldanzi e "ospiti" da Milano a Brindisi, 1500 euro spesi in "biglietti di Natale", 180.000 euro investiti in una delle tante consulenze della società pubblicitaria AP&B che vanta fra i suoi soci Massimo Bernardo, fratello dell’assessore regionale Maurizio; si finisce poi nel surreale considerando che Zincar erogava contributi a pioggia per iniziative nemmeno remotamente collegabili con la sostenibilità quali la "valorizzazione delle pietre tradizionali del Verbano Cusio Ossola" (circa 20.000 euro).
Se, come esplicato nell’editoriale, il "capitalismo verde" rappresenta gli "abiti nuovi" di un vecchio padrone, quella lombarda si configura come una situazione particolarmente drammatica in cui anche il termine "capitalismo" rischia di essere fuori posto dal momento che non esiste alcun ciclo di reinvestimento ma solo una logica di appropriazione della cosa pubblica che continua imperterrita dal craxismo fino all’attuale equilibrio ciellino- morattiano- leghista in cui il denaro pubblico viene utilizzato non tanto per costruire alternative sostenibili quanto per finanziare ulteriori sperequazioni, in una chiave più feudale che moderna.

L ultima storia è forse la più preoccupante: parla di acqua, di chi quell’acqua la eroga ( e può rifiutarsi di farlo) e di una città che non è nemmeno quello ma soltanto un’ "area": Zingonia, presso Bergamo.