sabato 15 maggio 2010

Racconti di viaggio: this is my heart

Tornata dal viaggio in Palestina provo a scrivere qualche riga su questa esperienza. Il foglio è bianco e vorrei riempirlo di indignazione, di rabbia, di condanna ai nostri governi europei, agli Usa. Alla fine decido che ciò che serve è un discorso chiaro, un’analisi storico-politica che tenti di offrire la giusta interpretazione dei fatti a chi legge, che dia l’opportunità di capire come stanno realmente le cose. Perché io le ho viste, devono credermi.
Poi realizzo che di gente che ha la verità in tasca ce n’è tanta (e pure mille volte più convincente di me), e che il massimo che posso fare è trovare un filo logico al groviglio di pensieri che ho portato con me al ritorno da un’esperienza così forte. Il punto è che tutto questo groviglio è ASSURDO e solo provare a parlare della nuda e cruda realtà ha un senso.
Allora chiudo gli occhi e vedo Bil’in, un villaggio palestinese che vive di pastorizia e degli ulivi che crescono sulle sue colline. Queste, però, sono squarciate dal muro (che per ora è ancora allo stato di corridoio di recinzioni e filo spinato). Da cinque anni, ogni venerdì, la gente di Bil’in e di altri villaggi, accompagnata da alcuni internazionali, si reca davanti al muro e protesta, in modo assolutamente pacifico, armata ‘solo’ della determinazione che da 62 anni accompagna il popolo palestinese nella sua instancabile lotta per la libertà. Il diffondersi della protesta non violenta disturba molto Israele, disturba più di un ragazzo che decide di farsi saltare in aria, convinto che sia sempre meglio vivere il paradiso che ha nella sua testa, e per cui si farà scoppiare, piuttosto che vivere in questo inferno, e che gli resta solo questa scelta per lottare contro l’occupazione. Negli ultimi mesi i soldati israeliani hanno condotto in prigione molti appartenenti e attivisti ai movimenti non violenti che si stanno espandendo, pur con mille difficoltà, in tutta la Cisgiordania e Gaza. In fondo, i kamikaze purtroppo fanno comodo a Israele: come legittimare, altrimenti, la sua lotta per la sicurezza e la sua politica di occupazione militare?
Eyad Burat, leader del movimento di Bil’in, ci accoglie in casa sua, con la generosa ospitalità che ho riscontrato in ogni palestinese che ho conosciuto. Ci presenta così la sua piccola figlia di cinque o sei anni che è tutta intenta a sistemarsi una kefia a mo’di vestito: “this is my heart”. Poi ci mostra un video di una delle manifestazioni del venerdì in cui lo vedo in corteo con in braccio la bambina: aveva portato con sé il suo cuore in quella lotta non violenta per la sua terra rubata. Qualche settimana prima del nostro arrivo, ci racconta, il suo caro amico Bassen era stato ucciso da un proiettile a gas lacrimogeno lanciato dai soldati israeliani al di là della recinzione. Una delle migliaia di vittime di questa politica di oppressione. Usciamo di casa e percorriamo il tragitto consueto delle manifestazioni, dirigendoci verso il muro. Mi fermo dopo pochi passi, non riesco a proseguire. Il mio istinto del ‘vedere fotografare documentare’ mi ha abbandonata, sopraffatto da un unico pensiero: ‘se vedo qualcos’altro scoppio’. Si è fatta sera ed è ora di tornare sul pullman. Eyad percorre con noi qualche metro e poi ci saluta dicendo “ci rivedremo quando la Palestina sarà libera!”. E’ troppo, scoppio in un pianto silenzioso. Lui, che vive ogni giorno questo inferno, ci crede davvero: allora perché sto piangendo?
Dal finestrino saluto con lo sguardo i bambini di Bil’in che mi sorridono o mi guardano incuriositi. Mi ricordano i bambini con cui ho parlato a Nablus, di fronte una casa ricostruita di recente che qualche anno fa era stata letteralmente rasa al suolo da bulldozzer israeliani. Dentro c’era un’intera famiglia di undici persone, l’undicesima era ancora nella pancia della mamma. E tutta questa devastazione perché? Perché vivevano dove non potevano vivere, perché erano ciò che non potevano essere, palestinesi. Mi ricordano anche i bambini di At-Twani, un villaggio di pastori che ha visto sorgere nella collina di fronte un avamposto israeliano (che è il primo passo per la costruzione di un vero e proprio insediamento). Ogni giorno andando e tornando da scuola i bambini e gli stessi internazionali che li accompagnano per proteggerli rischiano di venire picchiati con catene e bastoni dai coloni dell’avamposto. Mi ricordano le due bambine che passeggiavano a Hebron, città palestinese, mano nella mano per le vie del Suq, il mercato. Solo una rete protettiva incastrata tra le case impediva all’immondizia lanciata dai coloni insediati nei piani alti delle abitazioni di cader loro in testa.
Il 5 gennaio rientriamo in Israele, diretti all’aeroporto di Tel Aviv. La vita qui sembra aver ripreso a correre sui binari giusti. Niente più checkpoint, con le loro infinite ore di attesa per raggiungere la scuola, l’università, il lavoro; niente più cumuli di terra o blocchi di pietra improvvisati da un giorno all’altro che impediscono di tornare a dormire la sera a casa propria; niente più tornelli per andare a pregare in moschea; niente più militari che ti possono fermare in qualsiasi momento per chiederti cosa stai facendo, insultarti, controllarti i documenti con lentezza esasperante; niente più mancanza d’acqua potabile perché l’insediamento di fronte a casa tua ne ha il controllo e t’impedisce di fruirne; niente più arresti nel pieno della notte di uomini, donne, bambini, non importa; niente più timore che mi tolgano la casa in cui vivo e di finire in un campo profughi…
Era tutto solo un brutto sogno?

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