sabato 15 maggio 2010

Essere poesia a Milano #2

Siamo ufficialmente la generazione del fallimento: abbiamo tradito le aspettative di tutti. I nostri genitori ci hanno consegnato il Sessantotto nelle mani e noi l’abbiamo fatto precipitare sul pavimento. Con il dito puntato, ora ci accusano di aver ucciso i loro sogni. Dicono che siamo superficiali, immobili, spudoratamente ignoranti, viziati, amorali, apatici. La coscienza sociale è morta, c'è La Crisi, adesso invece di Togliatti ecco Bersani e si è così bruscamente passati dal coraggio dell'estremismo alla statica mediocrità, causa ed effetto dell'ormai tipica atmosfera nonsense che si respira tra le pagine dei quotidiani. Ed è tutta colpa nostra, delle nostre mani ferme. Noi siamo, generalmente, la gioventù-bue cui bisogna impedire di bere a suon di decreti legge. Nel 1960 Moravia pubblicava “La Noia”, adesso c’è Federico Moccia ad alleggerirci gli animi, prodotto diretto di innegabili richieste di mercato. Abbiamo ucciso anche la Poesia, con i nostri SMS avocalici, le kappa usate a sproposito e la nostra, già citata, impermeabilità. Abbiamo accoltellato Majakovskij, girando altrove lo sguardo mentre si dissanguava in un angolo. Ci accusano di aver perduto “la meraviglia”, nel senso socratico del termine. Tuttavia, personalmente, trovo che questi atti d'accusa siano riduttivi, e addirittura errati. Noi giovani non siamo colpevoli, siamo soltanto rassegnati, con il capo chino sotto le spalle pesanti. Stiamo stracciando i nostri talenti perché con l'Arte non si mangia e poi “chi vuoi che mi pubblichi, sono figlio di nessuno” (cit.). Stiamo morendo, schiacciati dalla tipica mentalità italiana fatta di raccomandazioni, trucchi, becero clientelismo e abbiamo così poche alternative verso cui girare lo sguardo! “Carpe diem” è diventato imperativo categorico: il passato è così strenuamente difeso da coloro che l’hanno costruito da non permettere nessuno spiraglio ed il futuro è talmente incerto da essere, in ultima analisi, assolutamente non valutabile. Dateci il respiro, quindi, voi che tutto d'un fiato avete viaggiato in aereo, trapiantato un cuore, camminato sulla luna e scalato l'Everest! Siate poi rapidi nella vostra concessione, perché “è questo il modo in cui finisce il mondo / Non già con uno schianto ma con un lamento.” (Eliot, “The Hollow Men”)
Ed ora, voltando pagina per ritornare, forse, ad innamorarci dei papaveri, questa è l'opera di Vittorio. Si intitola, semplicemente, “Mia 33” ed è stata scritta, con violenza poco primaverile, proprio il ventuno di Marzo. Colpisce perché immediata: i versi pungono, vergati con la decisione tipica del rifiuto, dell'umana insofferenza all'umano che urla, sola, nel bel mezzo di una stanza colma di persone.
Netturbini
Universali
Raccoglitori
di spazzatura
analitica
su fogli sprecati
Vergare
righi
di illusioni
di grandezza
in olezzo
di santità
e aspirazione
d'eternità
Torniamo
a scappare
da bionde barbie
dai pantaloni leopardati
dalla vista corta.
Questa rubrica appartiene a chi ci scrive, perciò inviate le vostre opere a: tappetoletterario@libero.it

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