sabato 15 maggio 2010

L’editoriale: Una questione giovanile?

“Sfigati” che fanno lavori precari, svogliati, bamboccioni, consumatori passivi di divertimenti notturni, ma anche speranza di rinnovamento e preziosi cervelli che, non avendo spazio in Italia, fuggono all’estero, ecco alcuni dei frammenti che compongono l’immagine di questa generazione. Quanto c’è di vero in questo? Sono banali stereotipi o semplici verità? Un tratto che accomuna queste rappresentazioni è l’idea di una generazione senza futuro, che il futuro non vuole prenderselo. Sentiamo che c’è qualcosa di vero. Chi ha vent’anni oggi fa parte di una generazione che, dopo quarant'anni in cui la piena occupazione era obiettivo politico e il lavoro garantiva l’accesso al welfare state, anche se ha un impiego non ha la sicurezza di mantenerlo e con esso tutti i diritti che vi erano associati. Si tratta anche della prima generazione che accede alla società con un ragguardevole peso sulle spalle: il ricatto dei prestiti e dei mutui, il debito delle finanze pubbliche e di quelle private, a cui si aggiunge il conto salato dell’ultima crisi. In Italia tutto questo è aggravato da un mobilità sociale pressoché inesistente: i vecchi non lasciano il cadreghino, e quando muoiono è già prenotato da amici, parenti e “leccaculo”.
L’emergenza di una questione generazionale è sotto gli occhi di tutti. Sembra in parte riconducibile a delle precise scelte politiche volte a governare le modificazioni dei processi produttivi: la soppressione della scala mobile nel luglio 1992, la revisione degli assetti contrattuali del 1993, l’introduzione del lavoro interinale e dei contratti atipici con la l. 196/1997 (pacchetto Treu) e la loro revisione con la l. 30/2003 (legge Biagi) e da ultimo l’accordo separato del 2009; tutto questo ha portato ad un mercato del lavoro frammentato, in cui i giovani pagano il prezzo peggiore.

Il mercato del lavoro

Il primo problema che un giovane incontra al suo ingresso nel mondo del lavoro consiste nell’ottenimento di un contratto e quindi di un livello minimo di garanzie. A questo si aggiungono le tante possibili (e tra loro molto diversificate) tipologie di accordo con il quale viene assunto.
Questo ingresso avviene però di default con contratti che riassumono, con sfaccettature differenti, il concetto di precarietà. La suddetta non è necessariamente un male per un ragazzo sedicenne che necessita di una parziale indipendenza economica e non avrebbe le possibilità per assicurare una costante presenza all’interno di un luogo di lavoro. Ma, in generale, per il mondo dei giovani la precarietà si traduce in una impossibile progettazione del futuro e della vita sia su basi sia su tempi solidi.
Il rischio, che ormai si è purtroppo quasi tramutato in realtà, è quello della frammentazione del mercato del lavoro in due macroaree, con da una parte i lavoratori in possesso di contratti di lavoro a tempo indeterminato che cercano di difendere la loro categoria e hanno strumenti per preservarla dai rischi del mercato e dall’altra i loro figli, senza tutele o garanzie.
Nei box sottostanti sono riassunti i rischi e le tutele a cui vanno incontro i giovani per semplificare loro il quadro normativo, nel momento della scelta di tipologia contrattuale da stipulare.
Oltre a ribadire l'esistente può essere interessante elencare alcune proposte di riforma del mercato del lavoro fra le più famose.
La prima proposta potrebbe essere quella di una restrizione delle quote di personale precario sulla percentuale totale della forza lavoro, scritte e normate nei CCNL (contratti collettivi nazionali di lavoro), rispetto a quelle attualmente vigenti.
Per essere efficace questa proposta dovrebbe ragionare non solo sulle quote di personale, ma anche sulla quantità di contratti precari annualmente stipulati, allo scopo di riuscire a vincolarli alla trasformazione in contratti a tempo indeterminato.
Un’ altra ipotesi di riforma potrebbe essere l’individuazione di limiti e/o regole di stabilità occupazionale per le esternalizzazioni di rami d’azienda, facendo sì che non vi sia un peggioramento delle tipologie contrattuali dei nuovi “assunti”.
Per quel che concerne il passaggio dal mondo dei senza garanzie a quello dei garantiti, una delle proposte che ha ricevuto più visibilità é quella di Boeri il quale ipotizza un percorso che, partendo dall'ingresso in azienda (con un contratto a tempo determinato) porti gradualmente (con scatti ascendenti semestrali) all'equiparazione sia contrattuale che di diritti con i lavoratori a tempo indeterminato. L' idea che ispira questa proposta è quella di affiancare la salvaguardia dei diritti dei “già inseriti” ad un percorso di reali acquisizioni da parte dei “nuovi entrati”.
Ad onor del vero quest'ultima proposta rimane ancora controversa e dibattuta; è di pochi giorni fa un’intervista rilasciata al Manifesto da parte del sociologo Luciano Gallino che equipara il contratto unico al CPE francese e sostiene che potrebbe ulteriormente aggravare le cose, “spalancando una porta d'oro alla flessibilità”.


Mobilitazione e apatia…

Trovare una risposta univoca alla domanda: “Chi sono i giovani d'oggi?” presuppone l'analisi di una serie pressoché infinita di scenari.
Il nostro Ministro per la Pubblica Amministrazione e l'Innovazione, Renato Brunetta, dall'alto della propria statura morale, ha più volte tuonato affascinanti iperboli a proposito, definendoci, senza mezze misure, “guerriglieri” e “bamboccioni” (Padoa-Schioppa docet).
Bambocci perché, incapaci di mantenerci economicamente durante gli studi superiori, in quest'Italia satura di generalismo ed invocante una classe lavoratrice specializzata da inserire nei propri quadri, ci si trova a dipendere per forza dal borsellino di mamma e papà.
Ma contemporaneamente anche disonorati guerriglieri: l'espressione del dissenso durante L'Onda è stata intollerabile, una sorta di anti-prosopopea socratica, insomma, un netto, ingrato e disgustoso sputo nel piatto gentilmente concessoci.
Guardando oltremare, poi, nel Nuovo Continente, troviamo Thomas Friedman, opinion-leader americano e vincitore di tre Premi Pulitzer, che, in un editoriale del New York Times ha etichettato i giovani come una massa informe di apatia e disinteresse, “too quiet, too online, for its own good, and for the country's own good”, incapaci di indignazione e coscienza sociale.
“O tempora, o mores!”, insomma, come cornice generica all'opinione maggiormente condivisa.
Ma torniamo a noi, con un esempio concreto. La crisi dell'Istruzione Italiana, con i suoi angoscianti dati, è diventata quasi una routine surreale, un normale argomento di discussione, un tremendo cliché: eppure le piazze, riempitesi per un semestre, si sono presto svuotate e tuttora restano silenziose, nonostante il problema sia rimasto, reale, a governare le vite degli studenti.
Dati alla mano: il Fondo Unico d'Ateneo, diviso in CU (Contributi Universitari) e FD (Fondo Potenziamento Didattica) è calato del 50% rispetto al 2007.
Se i giovani sono i protagonisti è altrettanto vero che è sulle loro spalle che si sta marciando a colpi di decreto-legge, ma tutto questo non sembra turbare nessuno; si pensa : “cosa potrà mai cambiare? Il sessantotto c'è già stato”, continuando a lamentarsi immobili, sorseggiando caffè davanti alle macchinette delle facoltà.
Se esiste una colpa generazionale allora questa è quella della rassegnazione, una sorta di timore anti-darwiniano verso il tentativo, il miglioramento, la sfida, che poi non è nient'altro che un modo per essere vecchi e stanchi ancor prima di cominciare.


… Contro nuove possibilità.

Nel 1991 Robert Reich, ministro del lavoro durante l’amministrazione Clinton, pubblica The Work of Nations, un contributo interessante nell’analisi del lavoro immateriale nell’epoca postfordista. Reich definisce il lavoro immateriale come la capacità di “manipolazione dei simboli”. Da allora gli studi economici sulla natura e le potenzialità del lavoro immateriale sono aumentati in modo esponenziale. Uno degli elementi che risulta ancora controverso è la sua valutazione in termini di profitti per le aziende. Queste vedono un ritorno economico dei loro investimenti solo sulla base dei consumi all’interno dei contesti socio-culturali in cui operano. La consapevolezza che questo tipo di sistema economico non si basa esclusivamente sulla formazione culturale dei propri lavoratori ha spinto le aziende ad investire sempre di più nella cultura e nella creazione di immaginario, basta guardare alla presenza pressante delle aziende all’interno della Università e delle Accademie. Gli studenti sono mantenuti in uno stato di formazione perenne che si protrae per anni, nell’attesa di essere inseriti in un mercato del lavoro che, comunque, non riuscirebbe ad assorbire una richiesta lavorativa così alta; questo permette di avere un largo bacino di consumatori e produttori (definiti da Toffler “prosumer”) di conoscenza e del sapere che, effettivamente, garantiscono la sopravvivenza delle aziende. In uno scenario come questo però si dimentica un’importante effetto collaterale: se le aziende riescono ad avere un ritorno economico nel breve periodo, nel medio e nel lungo periodo questo modo di fare porterà all' inaridimento del contesto socioculturale in cui le stesse imprese si inscrivono. Un esempio lampante è il progressivo allontanamento dello Stato dall’investimento nella ricerca e nella sperimentazione, a favore degli interessi formativi delle aziende. C’è tuttavia un enorme difetto nell’analisi di Reich: considerare il lavoro immateriale solo come “manipolazione dei simboli” esclude una serie di componenti fondamentali e determinanti anche sul piano della resistenza ad un sistema che ci vorrebbe tutti prosumer della conoscenza. Il lavoro immateriale è anche e soprattutto un complesso sistema comunicativo-relazionale basato sui desideri di singoli individui che però sono membri di una collettività. Partire dai desideri per arrivare a recuperare le relazioni tra i singoli è un elemento fondamentale e questo può avvenire attraverso l’utilizzo della conoscenza e dei processi comunicativi di cui tutti deteniamo i mezzi di produzione. In un sistema così debole perché basato esclusivamente sulla astrazione ed elaborazione dei simboli è possibile recuperare tutta la materialità della produzione attraverso strumenti la cui proprietà è nostra. Nel XIX secolo i luddisti si organizzarono nella creazione di un immaginario che arrivasse alla distruzione della macchine. Nel 2010 lo stesso spirito luddista può essere recuperato all’interno dei processi di comunicazione, utilizzando gli stessi strumenti che portano guadagno e profitto per le aziende per garantirci sapere libero e conoscenza svincolata dal potere.

In conclusione

In questo Speciale abbozzeremo una ricostruzione della figura sociale del “giovane”. Ci sembra opportuno premettere che l’idea di uno stato intermedio fra l’infanzia e l’età adulta si è sviluppata relativamente tardi, durante il periodo dei “30 gloriosi” (‘50-‘70), ed è tuttora un concetto in mutamento ed espansione. Basti solo considerare che, a differenza di come avveniva pochi decenni fa, oggi si è giovani anche a quarant’anni. Potremmo scrivere enciclopedie cercando di ricostruire il più fedelmente possibile la condizione oggettiva di questa generazione. Ma forse non ne vale neanche la pena. Sappiamo fin troppo bene che se alla condizione oggettiva non corrisponde la percezione soggettiva di tale condizione, allora ben pochi cambiamenti sono possibili. Abbiamo quindi scelto di dare parola ai “giovani”, di lasciare che si raccontino, che dicano chi sono, cosa fanno, cosa vorrebbero cambiare, quali sono le loro aspettative … insomma, esiste una comune percezione soggettiva tra persone che niente hanno a che fare tra di loro per capitale culturale, sociale e economico? Esiste una “questione generazionale”? La si può delineare a partire dai racconti e dalle esperienze di chi la vive? E’ sempre più urgente e necessario iniziare a tracciare le prime pennellate di questo affresco. E’ arrivata l’ora di cominciare ad autonarrarci. Perché la nostra è anche una scommessa politica. Che si gioca a partire dai desideri e dai bisogni di noi giovani, e non dalle provocazioni dei neoliberisti di destra e di sinistra che, dopo aver ipotecato il futuro della nostra generazione, vogliono attaccare ulteriormente i redditi e il welfare state vaneggiando di meritocrazia.

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