sabato 15 maggio 2010

E' usicto il N 3 di Sottotraccia


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Contro il disagio giovanile: una voce comune

Sulla condizione giovanile sono stati versati mari d'inchiostro, intere generazioni di sociologi, psicologi, preti (non mancano mai) e giornalisti d'ogni ordine e grado, nel corso degli anni, hanno dato vita allo psicodramma corale del “disagio giovanile”: una sorta di entità astratta in cui si mescolano problemi reali ed immaginari e che detiene il poco invidiabile potere di dissolvere cause reali di problemi concreti nella mistica dei turbamenti (post) adolescenziali.
Ad onor del vero l'immagine che emerge dalle interviste ricalca molti tratti essenziali di rappresentazioni ben più quotate quali quella dello IARD, sostanzialmente i giovani vengono immaginati e quindi si immaginano come una massa amorfa senza particolare solidarietà generazionale, azzerata culturalmente sui valori della famiglia e dell'edonismo personalistico e che prova a tirare a campare in un eterno “presente liquido” la cui mitologia, fruibile in tutte le stagioni, diventa particolarmente utile per tagliar corto, liquidando una seria ricerca delle cause dell'immobilità generazionale nel bel paese. In effetti quello che colpisce dalle interviste non é tanto quanto l'immaginario dei giovani sia stato colonizzato dai discorsi fatti (da altri) su di loro, quello è relativamente normale, visto che gli unici “autorizzati” ad esprimersi sui turbamenti esistenziali della gioventù del bel paese hanno da tempo superato gli “anta”; quello che merita di essere osservato è l'impossibilità di individuare una causa: esiste una percezione di un disagio reale, diffuso, che indubbiamente si attesta su una linea generazionale (oltre che ovviamente di genere, di classe, di eredità etnica) ma tutti i discorsi su questo “male oscuro” non riescono ad individuarne le cause politiche e strutturali. Facciamo un esempio concreto; tutti i ragionamenti sulla precarietà, sulla dipendenza dal nucleo familiare trascurano un fatto fondamentale ovvero il fatto che si sta discutendo della condizione giovanile in un paese che, allo stato attuale, non ha alcuna politica di welfare per i giovani e questo è completamente ignorato dai giovani stessi, debitamente addestrati a considerare normale una situazione profondamente anormale. In Italia l'istruzione costa cara, non si può dire lo stesso di Germania e Francia, in Italia non esiste una politica per il sostegno alle giovani coppie o all'impiego femminile che in Spagna o nei Paesi Scandinavi è una realtà affermata da tempo, per intenderci e restare nel concreto consideriamo che i paesi Ocse spendono mediamente il 2.3% del Pil per servizi alle famiglie, la Francia spende circa il 3.8%, il Regno Unito circa il 3,6% Germania circa il 3%, l' Italia arriva a stento all'1.4%. Per rincarare la dose serve scartabellare un po’ di dati sulla disoccupazione: la disoccupazione giovanile in Italia si attesta sul 27% circa (dati Istat 2010), in pratica un lavoratore su quattro, fra i 15 ed i 24 anni è disoccupato, il tasso di disoccupazione giovanile è triplo rispetto a quello globale (circa 8-9%) e a fronte di tutto questo lo stato italiano spende lo 0,5/0,6 % (sempre in punti Pil) per sostenere chi perde un lavoro, diversamente dal la Francia che, pur avendo un tasso di disoccupazione simile, spende il 1,7% mentre i paesi scandinavi superano il 2%.
Tutto questo diventa ancora più grottesco se consideriamo che, se si parla di pensioni, le cifre sono ben altre infatti, dopo l'Austria, l'Italia è il paese che più spende in welfare per i pensionati (11%).
Di questo stato di cose non v'è alcuna consapevolezza, si dibatte di “questioni giovanili” in termini esclusivamente morali quando il problema ha contorni assolutamente materiali e reali: i giovani sono i meno tutelati dallo stato sociale, se ottengono qualcosa è solo attraverso il tramite della famiglia, essi sono anche i più colpiti dal fenomeno del precariato, infatti nel 2008 c'erano circa tre milioni di precari, che nel 60% dei casi avevano meno di 35 anni. A fronte di tutto questo, parlare di questioni culturali e del solito stereotipo dell'italiano mammone è pura disinformazione in cui, ahimè, i giovani cascano con tutte le scarpe. Non che manchi la volontà di cambiare qualcosa, forse manca un reale progetto, ma il problema più grave rimane il fatto che esprimersi in termini di “merito”, di “cervelli in fuga”, di “inerzia” o “voglia di sbattersi”, di “professionalità” o di riformette inciuciste significa voler partecipare -e magari “vincere”- presso un tavolo da gioco ignorando il fatto che le regole siano profondamente truccate ed è proprio questa ingenuità che non deve essere più perpetuata, soprattutto perché questo equivoco è chiarissimo ai centri di potere e viene spesso utilizzato ad arte per creare legittimità attorno a progetti politici allucinanti.
La riforma dell'università? Ma va ovviamente nel miglior interesse dei giovani, poco importa se consiste solo in tagli perché sono tagli fatti per il sacro “merito”. Le riduzioni delle pensioni o il prolungamento dell'età pensionabile ? Ma anche queste cose sono per i giovani, poco importa anche qui se nel paradossale stato attuale il welfare per i genitori rappresenta una importante fonte di reddito per i loro discendenti: quanti studenti fuori sede sono mantenuti da mammà che (se va bene) gode di un impiego a tempo indeterminato ? O dalla pensione di papà ? Quanti lavoratori precari, magari ultratrentenni, necessitano della tutela genitoriale per accendere un mutuo immobiliare ?
Ma questo squallido cinismo non è esclusiva del liberismo targato Pdl dato che anche la cosiddetta opposizione ci mette del suo: non è forse nell'interesse dei giovani che si sventola il “contratto unico” neanche fosse la sindone il giorno dell'ostensione? Anche qui poco importa che sia una riedizione all'italiana del CPE francese e che la sua genesi provenga dallo stesso brodo di cultura “progressista” che ci ha regalato meraviglie come il pacchetto Treu; l'importante è che sia per i giovani.
E, per la cronaca, pure il pacchetto Treu o la legge 30 erano “per i giovani”: la flessibilità non avrebbe forse dovuto favorirli? Negli scenari utopici rivendutici in quel del 1997 i giovani avrebbero finalmente potuto armonizzare vita, studio e lavoro grazie all’ingresso della flessibilità la quale ci veniva rivenduta come una conquista generazionale: basta con la noia del lavoro stabile, sarebbe stato possibile saltabeccare da una “esperienza” ad un’altra, in un mondo fatato di prosperità, completamente avulso dal reale. E che dire delle giovani donne magicamente libere, grazie alla flessibilità, di conciliare maternità e lavoro ?
Ironia a parte, tutto questo sproloquio vorrebbe servire a rilevare quanto il concetto di “disagio generazionale” rappresenti uno strumento per l'alienazione reale dei giovani, comodamente disponibile a qualsiasi centro di potere, un raffinato artificio che con la stessa mossa priva i giovani di voce e parla a loro nome, millantando di farlo per il loro stesso bene, come se fossero animali in via di estinzione. E' in nome dei giovani quindi o, più concretamente, sulla pelle dei giovani che si possono giocare le lotte di potere fra le varie cordate del liberismo tricolore, ciascuna intenta a mobilitare i poveri giovani affranti e derelitti per far passare l'ennesimo pacchetto legge o l'ennesima riforma peggiorativa dell'esistente. Al di là di tutta la “fuffa” finora delineata, la realtà è quella di un sistema che, con felice intuizione, Banfield definisce “familistico amorale”, in cui le mobilitazioni di solidarietà universali e le “meravigliose sorti e progressive” del riformismo liberista nascondono il solito trucco patriarcale di negare diritti in pubblico ai figli degli altri, per poi poterli munificamente concedere in privato alla propria prole. Se il mercato del lavoro è bloccato, in realtà non c'è nessun problema, c'è sempre quell'amico di Papà (forse); se non si riesce ad aprire un mutuo ci sono due generazioni di pensioni pronte a fare da garanzia (forse), in questo modo ciò che dovrebbe essere un diritto da rivendicare viene magicamente trasformato in un privilegio da mendicare e si finisce vilipesi e sfruttati non una ma due volte. C'è da dire che, a voler essere acidamente franchi, i giovani accettano di buon grado la pratica della mendicità dei diritti; non tanto per qualche difetto caratteriale o antropologico, non tanto per quell'oscena banalità che vuole ogni generazione più “molle” di quella che la ha preceduta, quanto per il fatto che i processi di precarizzazione degli individui e del corpo sociale sono stati, in primo luogo, altrettanti progetti di distruzione di tutti quegli artefatti sociali o culturali che potevano essere utile per pensarsi come corpo collettivo autonomo ed indipendente.
Il quadro non è certo roseo ma per uscire dal pantano è necessario definire i tratti della crisi, molti dei quali hanno a che fare con le difficoltà di questa generazione a parlare come una voce unica e anziché ostaggio dei giochi di potere.
Decisamente non compete a questo articolo individuare una via di fuga o un percorso corretto per uscire dall'impasse generazionale ma un'osservazione è necessaria: qualunque percorso rivendicativo, qualunque modo di ribaltare il tavolo truccato dovrà essere frutto di una riflessione autonoma di chi in precedenza è stato ridotto al silenzio. L'uscita da una posizione di subalternità quasi feudale avverrà solo se si riuscirà a comprendere che il proprio benessere ed il proprio futuro individuale dipendono dalla capacità di avanzare rivendicazioni pubbliche e collettive, dalla capacità di difendere e creare nuovi diritti comuni.

L’editoriale: Una questione giovanile?

“Sfigati” che fanno lavori precari, svogliati, bamboccioni, consumatori passivi di divertimenti notturni, ma anche speranza di rinnovamento e preziosi cervelli che, non avendo spazio in Italia, fuggono all’estero, ecco alcuni dei frammenti che compongono l’immagine di questa generazione. Quanto c’è di vero in questo? Sono banali stereotipi o semplici verità? Un tratto che accomuna queste rappresentazioni è l’idea di una generazione senza futuro, che il futuro non vuole prenderselo. Sentiamo che c’è qualcosa di vero. Chi ha vent’anni oggi fa parte di una generazione che, dopo quarant'anni in cui la piena occupazione era obiettivo politico e il lavoro garantiva l’accesso al welfare state, anche se ha un impiego non ha la sicurezza di mantenerlo e con esso tutti i diritti che vi erano associati. Si tratta anche della prima generazione che accede alla società con un ragguardevole peso sulle spalle: il ricatto dei prestiti e dei mutui, il debito delle finanze pubbliche e di quelle private, a cui si aggiunge il conto salato dell’ultima crisi. In Italia tutto questo è aggravato da un mobilità sociale pressoché inesistente: i vecchi non lasciano il cadreghino, e quando muoiono è già prenotato da amici, parenti e “leccaculo”.
L’emergenza di una questione generazionale è sotto gli occhi di tutti. Sembra in parte riconducibile a delle precise scelte politiche volte a governare le modificazioni dei processi produttivi: la soppressione della scala mobile nel luglio 1992, la revisione degli assetti contrattuali del 1993, l’introduzione del lavoro interinale e dei contratti atipici con la l. 196/1997 (pacchetto Treu) e la loro revisione con la l. 30/2003 (legge Biagi) e da ultimo l’accordo separato del 2009; tutto questo ha portato ad un mercato del lavoro frammentato, in cui i giovani pagano il prezzo peggiore.

Il mercato del lavoro

Il primo problema che un giovane incontra al suo ingresso nel mondo del lavoro consiste nell’ottenimento di un contratto e quindi di un livello minimo di garanzie. A questo si aggiungono le tante possibili (e tra loro molto diversificate) tipologie di accordo con il quale viene assunto.
Questo ingresso avviene però di default con contratti che riassumono, con sfaccettature differenti, il concetto di precarietà. La suddetta non è necessariamente un male per un ragazzo sedicenne che necessita di una parziale indipendenza economica e non avrebbe le possibilità per assicurare una costante presenza all’interno di un luogo di lavoro. Ma, in generale, per il mondo dei giovani la precarietà si traduce in una impossibile progettazione del futuro e della vita sia su basi sia su tempi solidi.
Il rischio, che ormai si è purtroppo quasi tramutato in realtà, è quello della frammentazione del mercato del lavoro in due macroaree, con da una parte i lavoratori in possesso di contratti di lavoro a tempo indeterminato che cercano di difendere la loro categoria e hanno strumenti per preservarla dai rischi del mercato e dall’altra i loro figli, senza tutele o garanzie.
Nei box sottostanti sono riassunti i rischi e le tutele a cui vanno incontro i giovani per semplificare loro il quadro normativo, nel momento della scelta di tipologia contrattuale da stipulare.
Oltre a ribadire l'esistente può essere interessante elencare alcune proposte di riforma del mercato del lavoro fra le più famose.
La prima proposta potrebbe essere quella di una restrizione delle quote di personale precario sulla percentuale totale della forza lavoro, scritte e normate nei CCNL (contratti collettivi nazionali di lavoro), rispetto a quelle attualmente vigenti.
Per essere efficace questa proposta dovrebbe ragionare non solo sulle quote di personale, ma anche sulla quantità di contratti precari annualmente stipulati, allo scopo di riuscire a vincolarli alla trasformazione in contratti a tempo indeterminato.
Un’ altra ipotesi di riforma potrebbe essere l’individuazione di limiti e/o regole di stabilità occupazionale per le esternalizzazioni di rami d’azienda, facendo sì che non vi sia un peggioramento delle tipologie contrattuali dei nuovi “assunti”.
Per quel che concerne il passaggio dal mondo dei senza garanzie a quello dei garantiti, una delle proposte che ha ricevuto più visibilità é quella di Boeri il quale ipotizza un percorso che, partendo dall'ingresso in azienda (con un contratto a tempo determinato) porti gradualmente (con scatti ascendenti semestrali) all'equiparazione sia contrattuale che di diritti con i lavoratori a tempo indeterminato. L' idea che ispira questa proposta è quella di affiancare la salvaguardia dei diritti dei “già inseriti” ad un percorso di reali acquisizioni da parte dei “nuovi entrati”.
Ad onor del vero quest'ultima proposta rimane ancora controversa e dibattuta; è di pochi giorni fa un’intervista rilasciata al Manifesto da parte del sociologo Luciano Gallino che equipara il contratto unico al CPE francese e sostiene che potrebbe ulteriormente aggravare le cose, “spalancando una porta d'oro alla flessibilità”.


Mobilitazione e apatia…

Trovare una risposta univoca alla domanda: “Chi sono i giovani d'oggi?” presuppone l'analisi di una serie pressoché infinita di scenari.
Il nostro Ministro per la Pubblica Amministrazione e l'Innovazione, Renato Brunetta, dall'alto della propria statura morale, ha più volte tuonato affascinanti iperboli a proposito, definendoci, senza mezze misure, “guerriglieri” e “bamboccioni” (Padoa-Schioppa docet).
Bambocci perché, incapaci di mantenerci economicamente durante gli studi superiori, in quest'Italia satura di generalismo ed invocante una classe lavoratrice specializzata da inserire nei propri quadri, ci si trova a dipendere per forza dal borsellino di mamma e papà.
Ma contemporaneamente anche disonorati guerriglieri: l'espressione del dissenso durante L'Onda è stata intollerabile, una sorta di anti-prosopopea socratica, insomma, un netto, ingrato e disgustoso sputo nel piatto gentilmente concessoci.
Guardando oltremare, poi, nel Nuovo Continente, troviamo Thomas Friedman, opinion-leader americano e vincitore di tre Premi Pulitzer, che, in un editoriale del New York Times ha etichettato i giovani come una massa informe di apatia e disinteresse, “too quiet, too online, for its own good, and for the country's own good”, incapaci di indignazione e coscienza sociale.
“O tempora, o mores!”, insomma, come cornice generica all'opinione maggiormente condivisa.
Ma torniamo a noi, con un esempio concreto. La crisi dell'Istruzione Italiana, con i suoi angoscianti dati, è diventata quasi una routine surreale, un normale argomento di discussione, un tremendo cliché: eppure le piazze, riempitesi per un semestre, si sono presto svuotate e tuttora restano silenziose, nonostante il problema sia rimasto, reale, a governare le vite degli studenti.
Dati alla mano: il Fondo Unico d'Ateneo, diviso in CU (Contributi Universitari) e FD (Fondo Potenziamento Didattica) è calato del 50% rispetto al 2007.
Se i giovani sono i protagonisti è altrettanto vero che è sulle loro spalle che si sta marciando a colpi di decreto-legge, ma tutto questo non sembra turbare nessuno; si pensa : “cosa potrà mai cambiare? Il sessantotto c'è già stato”, continuando a lamentarsi immobili, sorseggiando caffè davanti alle macchinette delle facoltà.
Se esiste una colpa generazionale allora questa è quella della rassegnazione, una sorta di timore anti-darwiniano verso il tentativo, il miglioramento, la sfida, che poi non è nient'altro che un modo per essere vecchi e stanchi ancor prima di cominciare.


… Contro nuove possibilità.

Nel 1991 Robert Reich, ministro del lavoro durante l’amministrazione Clinton, pubblica The Work of Nations, un contributo interessante nell’analisi del lavoro immateriale nell’epoca postfordista. Reich definisce il lavoro immateriale come la capacità di “manipolazione dei simboli”. Da allora gli studi economici sulla natura e le potenzialità del lavoro immateriale sono aumentati in modo esponenziale. Uno degli elementi che risulta ancora controverso è la sua valutazione in termini di profitti per le aziende. Queste vedono un ritorno economico dei loro investimenti solo sulla base dei consumi all’interno dei contesti socio-culturali in cui operano. La consapevolezza che questo tipo di sistema economico non si basa esclusivamente sulla formazione culturale dei propri lavoratori ha spinto le aziende ad investire sempre di più nella cultura e nella creazione di immaginario, basta guardare alla presenza pressante delle aziende all’interno della Università e delle Accademie. Gli studenti sono mantenuti in uno stato di formazione perenne che si protrae per anni, nell’attesa di essere inseriti in un mercato del lavoro che, comunque, non riuscirebbe ad assorbire una richiesta lavorativa così alta; questo permette di avere un largo bacino di consumatori e produttori (definiti da Toffler “prosumer”) di conoscenza e del sapere che, effettivamente, garantiscono la sopravvivenza delle aziende. In uno scenario come questo però si dimentica un’importante effetto collaterale: se le aziende riescono ad avere un ritorno economico nel breve periodo, nel medio e nel lungo periodo questo modo di fare porterà all' inaridimento del contesto socioculturale in cui le stesse imprese si inscrivono. Un esempio lampante è il progressivo allontanamento dello Stato dall’investimento nella ricerca e nella sperimentazione, a favore degli interessi formativi delle aziende. C’è tuttavia un enorme difetto nell’analisi di Reich: considerare il lavoro immateriale solo come “manipolazione dei simboli” esclude una serie di componenti fondamentali e determinanti anche sul piano della resistenza ad un sistema che ci vorrebbe tutti prosumer della conoscenza. Il lavoro immateriale è anche e soprattutto un complesso sistema comunicativo-relazionale basato sui desideri di singoli individui che però sono membri di una collettività. Partire dai desideri per arrivare a recuperare le relazioni tra i singoli è un elemento fondamentale e questo può avvenire attraverso l’utilizzo della conoscenza e dei processi comunicativi di cui tutti deteniamo i mezzi di produzione. In un sistema così debole perché basato esclusivamente sulla astrazione ed elaborazione dei simboli è possibile recuperare tutta la materialità della produzione attraverso strumenti la cui proprietà è nostra. Nel XIX secolo i luddisti si organizzarono nella creazione di un immaginario che arrivasse alla distruzione della macchine. Nel 2010 lo stesso spirito luddista può essere recuperato all’interno dei processi di comunicazione, utilizzando gli stessi strumenti che portano guadagno e profitto per le aziende per garantirci sapere libero e conoscenza svincolata dal potere.

In conclusione

In questo Speciale abbozzeremo una ricostruzione della figura sociale del “giovane”. Ci sembra opportuno premettere che l’idea di uno stato intermedio fra l’infanzia e l’età adulta si è sviluppata relativamente tardi, durante il periodo dei “30 gloriosi” (‘50-‘70), ed è tuttora un concetto in mutamento ed espansione. Basti solo considerare che, a differenza di come avveniva pochi decenni fa, oggi si è giovani anche a quarant’anni. Potremmo scrivere enciclopedie cercando di ricostruire il più fedelmente possibile la condizione oggettiva di questa generazione. Ma forse non ne vale neanche la pena. Sappiamo fin troppo bene che se alla condizione oggettiva non corrisponde la percezione soggettiva di tale condizione, allora ben pochi cambiamenti sono possibili. Abbiamo quindi scelto di dare parola ai “giovani”, di lasciare che si raccontino, che dicano chi sono, cosa fanno, cosa vorrebbero cambiare, quali sono le loro aspettative … insomma, esiste una comune percezione soggettiva tra persone che niente hanno a che fare tra di loro per capitale culturale, sociale e economico? Esiste una “questione generazionale”? La si può delineare a partire dai racconti e dalle esperienze di chi la vive? E’ sempre più urgente e necessario iniziare a tracciare le prime pennellate di questo affresco. E’ arrivata l’ora di cominciare ad autonarrarci. Perché la nostra è anche una scommessa politica. Che si gioca a partire dai desideri e dai bisogni di noi giovani, e non dalle provocazioni dei neoliberisti di destra e di sinistra che, dopo aver ipotecato il futuro della nostra generazione, vogliono attaccare ulteriormente i redditi e il welfare state vaneggiando di meritocrazia.

Racconti di viaggio: this is my heart

Tornata dal viaggio in Palestina provo a scrivere qualche riga su questa esperienza. Il foglio è bianco e vorrei riempirlo di indignazione, di rabbia, di condanna ai nostri governi europei, agli Usa. Alla fine decido che ciò che serve è un discorso chiaro, un’analisi storico-politica che tenti di offrire la giusta interpretazione dei fatti a chi legge, che dia l’opportunità di capire come stanno realmente le cose. Perché io le ho viste, devono credermi.
Poi realizzo che di gente che ha la verità in tasca ce n’è tanta (e pure mille volte più convincente di me), e che il massimo che posso fare è trovare un filo logico al groviglio di pensieri che ho portato con me al ritorno da un’esperienza così forte. Il punto è che tutto questo groviglio è ASSURDO e solo provare a parlare della nuda e cruda realtà ha un senso.
Allora chiudo gli occhi e vedo Bil’in, un villaggio palestinese che vive di pastorizia e degli ulivi che crescono sulle sue colline. Queste, però, sono squarciate dal muro (che per ora è ancora allo stato di corridoio di recinzioni e filo spinato). Da cinque anni, ogni venerdì, la gente di Bil’in e di altri villaggi, accompagnata da alcuni internazionali, si reca davanti al muro e protesta, in modo assolutamente pacifico, armata ‘solo’ della determinazione che da 62 anni accompagna il popolo palestinese nella sua instancabile lotta per la libertà. Il diffondersi della protesta non violenta disturba molto Israele, disturba più di un ragazzo che decide di farsi saltare in aria, convinto che sia sempre meglio vivere il paradiso che ha nella sua testa, e per cui si farà scoppiare, piuttosto che vivere in questo inferno, e che gli resta solo questa scelta per lottare contro l’occupazione. Negli ultimi mesi i soldati israeliani hanno condotto in prigione molti appartenenti e attivisti ai movimenti non violenti che si stanno espandendo, pur con mille difficoltà, in tutta la Cisgiordania e Gaza. In fondo, i kamikaze purtroppo fanno comodo a Israele: come legittimare, altrimenti, la sua lotta per la sicurezza e la sua politica di occupazione militare?
Eyad Burat, leader del movimento di Bil’in, ci accoglie in casa sua, con la generosa ospitalità che ho riscontrato in ogni palestinese che ho conosciuto. Ci presenta così la sua piccola figlia di cinque o sei anni che è tutta intenta a sistemarsi una kefia a mo’di vestito: “this is my heart”. Poi ci mostra un video di una delle manifestazioni del venerdì in cui lo vedo in corteo con in braccio la bambina: aveva portato con sé il suo cuore in quella lotta non violenta per la sua terra rubata. Qualche settimana prima del nostro arrivo, ci racconta, il suo caro amico Bassen era stato ucciso da un proiettile a gas lacrimogeno lanciato dai soldati israeliani al di là della recinzione. Una delle migliaia di vittime di questa politica di oppressione. Usciamo di casa e percorriamo il tragitto consueto delle manifestazioni, dirigendoci verso il muro. Mi fermo dopo pochi passi, non riesco a proseguire. Il mio istinto del ‘vedere fotografare documentare’ mi ha abbandonata, sopraffatto da un unico pensiero: ‘se vedo qualcos’altro scoppio’. Si è fatta sera ed è ora di tornare sul pullman. Eyad percorre con noi qualche metro e poi ci saluta dicendo “ci rivedremo quando la Palestina sarà libera!”. E’ troppo, scoppio in un pianto silenzioso. Lui, che vive ogni giorno questo inferno, ci crede davvero: allora perché sto piangendo?
Dal finestrino saluto con lo sguardo i bambini di Bil’in che mi sorridono o mi guardano incuriositi. Mi ricordano i bambini con cui ho parlato a Nablus, di fronte una casa ricostruita di recente che qualche anno fa era stata letteralmente rasa al suolo da bulldozzer israeliani. Dentro c’era un’intera famiglia di undici persone, l’undicesima era ancora nella pancia della mamma. E tutta questa devastazione perché? Perché vivevano dove non potevano vivere, perché erano ciò che non potevano essere, palestinesi. Mi ricordano anche i bambini di At-Twani, un villaggio di pastori che ha visto sorgere nella collina di fronte un avamposto israeliano (che è il primo passo per la costruzione di un vero e proprio insediamento). Ogni giorno andando e tornando da scuola i bambini e gli stessi internazionali che li accompagnano per proteggerli rischiano di venire picchiati con catene e bastoni dai coloni dell’avamposto. Mi ricordano le due bambine che passeggiavano a Hebron, città palestinese, mano nella mano per le vie del Suq, il mercato. Solo una rete protettiva incastrata tra le case impediva all’immondizia lanciata dai coloni insediati nei piani alti delle abitazioni di cader loro in testa.
Il 5 gennaio rientriamo in Israele, diretti all’aeroporto di Tel Aviv. La vita qui sembra aver ripreso a correre sui binari giusti. Niente più checkpoint, con le loro infinite ore di attesa per raggiungere la scuola, l’università, il lavoro; niente più cumuli di terra o blocchi di pietra improvvisati da un giorno all’altro che impediscono di tornare a dormire la sera a casa propria; niente più tornelli per andare a pregare in moschea; niente più militari che ti possono fermare in qualsiasi momento per chiederti cosa stai facendo, insultarti, controllarti i documenti con lentezza esasperante; niente più mancanza d’acqua potabile perché l’insediamento di fronte a casa tua ne ha il controllo e t’impedisce di fruirne; niente più arresti nel pieno della notte di uomini, donne, bambini, non importa; niente più timore che mi tolgano la casa in cui vivo e di finire in un campo profughi…
Era tutto solo un brutto sogno?

Essere poesia a Milano #2

Siamo ufficialmente la generazione del fallimento: abbiamo tradito le aspettative di tutti. I nostri genitori ci hanno consegnato il Sessantotto nelle mani e noi l’abbiamo fatto precipitare sul pavimento. Con il dito puntato, ora ci accusano di aver ucciso i loro sogni. Dicono che siamo superficiali, immobili, spudoratamente ignoranti, viziati, amorali, apatici. La coscienza sociale è morta, c'è La Crisi, adesso invece di Togliatti ecco Bersani e si è così bruscamente passati dal coraggio dell'estremismo alla statica mediocrità, causa ed effetto dell'ormai tipica atmosfera nonsense che si respira tra le pagine dei quotidiani. Ed è tutta colpa nostra, delle nostre mani ferme. Noi siamo, generalmente, la gioventù-bue cui bisogna impedire di bere a suon di decreti legge. Nel 1960 Moravia pubblicava “La Noia”, adesso c’è Federico Moccia ad alleggerirci gli animi, prodotto diretto di innegabili richieste di mercato. Abbiamo ucciso anche la Poesia, con i nostri SMS avocalici, le kappa usate a sproposito e la nostra, già citata, impermeabilità. Abbiamo accoltellato Majakovskij, girando altrove lo sguardo mentre si dissanguava in un angolo. Ci accusano di aver perduto “la meraviglia”, nel senso socratico del termine. Tuttavia, personalmente, trovo che questi atti d'accusa siano riduttivi, e addirittura errati. Noi giovani non siamo colpevoli, siamo soltanto rassegnati, con il capo chino sotto le spalle pesanti. Stiamo stracciando i nostri talenti perché con l'Arte non si mangia e poi “chi vuoi che mi pubblichi, sono figlio di nessuno” (cit.). Stiamo morendo, schiacciati dalla tipica mentalità italiana fatta di raccomandazioni, trucchi, becero clientelismo e abbiamo così poche alternative verso cui girare lo sguardo! “Carpe diem” è diventato imperativo categorico: il passato è così strenuamente difeso da coloro che l’hanno costruito da non permettere nessuno spiraglio ed il futuro è talmente incerto da essere, in ultima analisi, assolutamente non valutabile. Dateci il respiro, quindi, voi che tutto d'un fiato avete viaggiato in aereo, trapiantato un cuore, camminato sulla luna e scalato l'Everest! Siate poi rapidi nella vostra concessione, perché “è questo il modo in cui finisce il mondo / Non già con uno schianto ma con un lamento.” (Eliot, “The Hollow Men”)
Ed ora, voltando pagina per ritornare, forse, ad innamorarci dei papaveri, questa è l'opera di Vittorio. Si intitola, semplicemente, “Mia 33” ed è stata scritta, con violenza poco primaverile, proprio il ventuno di Marzo. Colpisce perché immediata: i versi pungono, vergati con la decisione tipica del rifiuto, dell'umana insofferenza all'umano che urla, sola, nel bel mezzo di una stanza colma di persone.
Netturbini
Universali
Raccoglitori
di spazzatura
analitica
su fogli sprecati
Vergare
righi
di illusioni
di grandezza
in olezzo
di santità
e aspirazione
d'eternità
Torniamo
a scappare
da bionde barbie
dai pantaloni leopardati
dalla vista corta.
Questa rubrica appartiene a chi ci scrive, perciò inviate le vostre opere a: tappetoletterario@libero.it

Criminalità organizzata: dalla lupara al mercato globale

Negli ultimi cinquant’anni la criminalità organizzata ha subito una radicale trasformazione, scardinando i vecchi luoghi comuni e le analisi arretrate con cui fino ad oggi si è affrontato il fenomeno; ha saputo costruire un sistema di relazioni capaci di unificare le attività criminali tradizionali e i centri dell’economia legale e del potere politico nelle aree in cui si è radicata.
Dopo aver preso piede nei territori d'origine, in tempi e con modalità (violenza brutale, omertà, estorsioni) ormai note, “le mafie” hanno saputo adattarsi ai mutati scenari, nazionali e internazionali, politici ed economici, sfruttando, ad esempio, il libero mercato e i meccanismi economici della globalizzazione neoliberista a noi contemporanea.
L'idea che le organizzazioni di stampo mafioso allignino là dove c'è miseria e povertà è un'idea antica e altrettanto falsa. Il mafioso vuole due cose: il potere innanzitutto e conseguentemente la ricchezza. E quindi non tratta con i miserabili, tratta con i potenti.
Dalla fine degli anni Cinquanta, sempre più esponenti delle organizzazioni malavitose si stabiliscono, spesso forzosamente, nei centri urbani del nord Italia.
La città che si rivelerà più accogliente sarà proprio Milano, capitale del boom economico e culla della finanza italiota. Qui arriveranno Joe Adonis, mafioso estradato dagli Stati Uniti, che farà fortuna grazie allo sfruttamento dell'industria del divertimento (night club, gioco d'azzardo, prostituzione) e Luciano Liggio, latitante di Cosa Nostra, più avvezzo ai sequestri di persona.
In seguito i confini del Bel Paese non saranno sufficienti a contenere le spinte “espansionistiche” delle organizzazioni criminali: dagli anni Settanta, infatti, la rete dei traffici inizierà a varcare i confini della penisola, sia per il bisogno di fuggire da un controllo legislativo sempre più stringente (quando applicato), sia per la necessità di estendere gli affari in nuovi mercati, dove le loro competenze sono sempre più richieste.
Partendo dalle comunità italiane d’immigrati sparse in molte zone del pianeta, rastrellando attività commerciali e imprenditoriali già presenti, le holding criminali hanno espanso in questi anni la loro azione e il loro controllo, trasformandosi in strutture imprenditoriali che, parallelamente alle attività “tradizionali” (estorsioni, narcotraffico, commercio di armi), hanno accresciuto la capacità non solo di convivere con le istituzioni e lo Stato, ma anche di utilizzare gli strumenti legali dell'economia di mercato per dettare regole e leggi.
Le organizzazioni criminali italiane hanno così superato prima i confini del Mezzogiorno italiano, che un tempo rappresentava la loro roccaforte, poi quelli dell'intera penisola. Ora i capitali legali e illegali nascono e si muovono in tutte le direzioni e vengono accumulati in molti Paesi.
L'innovazione di questa “nuova” criminalità sta, in primo luogo, nell'avere assunto una struttura “complessa” (piramidale, come Cosa Nostra e la cupola, o rizomatica, come le 'ndrine calabresi o i clan campani), in grado di funzionare nonostante la perdita di pezzi importanti dell'ingranaggio; in secondo luogo, nell'aver reso possibile una accumulazione di capitale tale da aver creato un vero e proprio modello alternativo di produzione di merci e ricchezza, ormai parallelo a quello capitalistico tradizionale; infine, nella capacità di adattamento e di influenza decisionale che le organizzazioni criminali dimostrano quotidianamente di avere in qualunque constesto si trovino.
Non è più pensabile ritenere la criminalità un fenomeno marginale e ininfluente, a livello storiografico come politico. È necessario comprendere la rilevanza e l'incisività che il fenomeno riveste sulla scena mondiale.

Rubrica Ecologica

Nel proseguire l’analisi della relazione tra l’ecosistema terra e le società umane, iniziata negli scorsi numeri, ci sembra ora doveroso soffermarci sulla questione dei trend demografici, della loro sostenibilità e delle loro conseguenze.
La questione delle problematiche legate alla crescita della popolazione è già sollevata nel celebre saggio di Thomas Malthus “An Essay on the Principle of Population” del 1798. La tesi di fondo sostenuta da Malthus, e ripresa poi molti anni dopo da Paul Ehrlich nel libro “The Population Bomb” (1968), è che la crescita della produttività agricola non sarà in futuro in grado di tenere il passo con la crescita della popolazione. Nel primo caso, infatti, si tratterebbe di una progressione lineare, mentre nel secondo di una curva di crescita esponenziale.
E’ interessante osservare come le previsioni dei due autori si siano solo in minima parte realizzate: Malthus non aveva tenuto conto della scoperta dei combustibili fossili, motore della rivoluzione industriale, come Ehrlich non poteva prevedere l’enorme crescita della produttività agricola avvenuta con la Green Revolution.
Le lezioni da imparare sono molteplici: gli indici di popolazione sono in fondo solo una delle variabili in gioco, dal valore di per sè scarsamente esplicativo se non sono visti in relazione alla dimensione politica, economica e all’innovazione tecnologica. Sono inoltre dati, quelli relativi per esempio ai tassi di natalità, poco utili in forma aggregata, ma estremamente interessanti se esaminati e comparati a livello regionale.
Questi dati ci mostrano oggi che la maggior parte della crescita della popolazione avviene nei cosiddetti “paesi in via di sviluppo”, mentre l’incidenza demografica del mondo sviluppato crolla progressivamente. Si assiste, in questi paesi ricchi, ad un progressivo invecchiamento della popolazione, fenomeno che colpisce in particolare modo Corea del Sud e Giappone, ma anche Europa e Stati Uniti. Il 2010 sarà inoltre il primo anno nella storia in cui la maggior parte della popolazione mondiale vive in città invece che in campagna. Anche l’urbanizzazione cresce in particolare nei paesi asiatici, africani e sud-americani, con lo sviluppo di enormi agglomerati urbani.
Se, come abbiamo visto, è meglio astenersi dal pronunciare apocalittiche e solenni previsioni di lungo periodo, i ragionamenti di Malthus e Ehrlich non sono tuttavia da rigettare in toto e ci portano ad alcune semplici conclusioni: la prima di queste è che un mondo in cui tutti gli esseri umani godano dell’attuale stile di vita occidentale è fisicamente insostenibile. La capacità ecologica della terra è infatti insufficiente a soddisfare una popolazione mondiale con un consumo pro capite di risorse come quello dell’europeo o dell’americano medio.
La seconda conclusione che emerge è che la legittima pretesa e il perseguimento di una maggiore ricchezza materiale da parte di questa crescente, oltre che assolutamente maggioritaria, parte della popolazione mondiale è in diretta contrapposizione con la ferma intenzione da parte degli stati ricchi di mantenere, ed anzi accrescere, l’attuale livello di sviluppo economico e di conseguenza il consumo di risorse. Ci troviamo, insomma, in un gioco a somma zero in cui i benefici per un attore devono essere per forza bilanciati dalle perdite per un altro.
Le implicazioni sul piano geopolitico, se accettiamo questi presupposti, sono nella direzione di una significativa destabilizzazione dello scenario internazionale, uno scenario in cui all’arcaica divisione tra paesi sviluppati e in via di sviluppo si sovrappone quella tra paesi industrializzati in rapido invecchiamento (USA, Europa, Giappone), paesi in rapida crescita con una popolazione bilanciata (Cina, Brasile, India, Vietnam) e paesi estremamente giovani con governi ed economie deboli. Con un ulteriore aggravante: l’attuale contesto internazionale fa della competizione economica tra Stati uno dei suoi elementi principali. Tale presupposto renderà molto complicato trovare delle soluzioni in grado di porre la questione della limitazione dei consumi al centro del dibattito pubblico, in quanto le economie in crescita rivendicheranno il diritto di sfruttare i vantaggi ottenuti dalla recente industrializzazione, mentre le economie già consolidate difficilmente rinunceranno ai propri standard di consumo e ai vantaggi accumulati sugli altri paesi.
Un’obiezione verrà, a questo punto, inevitabilmente sollevata: come per Malthus ed Ehrlich, anche questa volta le previsioni si dimostreranno errate grazie allo sviluppo tecnologico e alla crescente efficienza dell’economia, che assicureranno benessere e ricchezza a tutti? E’ questo un tema che ci riserviamo di trattare nel prossimo numero.