mercoledì 17 marzo 2010

Editoriale: il capitalismo verde

Per rendersi conto del livello della crisi economica ed ecologica non c'è nulla di meglio che osservare il numero di parole spese per glorificare soluzioni che, nel migliore dei casi, rimangono puramente retoriche e, nel peggiore, fungono da presupposti per un ulteriore aggravamento della situazione. Il fallimento del summit danese di COP 15 (e dei summit precedenti) è sotto gli occhi di tutti, talmente palese che non vale nemmeno la pena di spenderci più di due parole. E allora perché ovunque intorno a noi si moltiplica la retorica del capitalismo verde? Mercato delle emissioni, biocarburanti, addirittura il nucleare "amico dell'ambiente", fiumi di inchiostro ed ore di conversazione celebrano il capitalismo ecocompatibile, ed ecco allora moltiplicarsi autobus a biodiesel, linee di montaggio a ridotto impatto ambientale, condizionatori "ecosostenibili", mele “biosolidali”.
La soluzione ad un problema che si ammette essere complesso appare semplice, il discorso che la sostiene è tranquillizzante: “comprate prodotti "verdi", non preoccupatevi del problema, la mano invisibile del mercato curerà anche la febbre del pianeta, del resto non ha avuto successo in passato?” Diseguaglianza, sottosviluppo e povertà sono concetti oramai consegnati al passato. Ironia a parte, può essere utile indagare le ragioni di questa infatuazione bucolica del mercato. Il capitalismo rappresenta un modo di produzione "rivoluzionario", strutturalmente senza fine, in cui lo scambio denaro-merce produce un surplus di denaro che deve essere necessariamente reinvestito per garantire la tenuta del sistema; il reinvestimento è possibile solo se la "sfera del mercato" si amplia, solo se, in poche parole, il mercato riesce a creare nuovi bisogni o a soddisfare necessità che precedentemente trovavano risposta in altri ambiti di produzione.
Ma questa crescita illimitata, necessaria al funzionamento dell’apparato economico, si scontra in primo luogo con i limiti fisici di un sistema-terra dalle risorse limitate e in via di esaurimento. Ciò crea una fortissima contraddizione tra la sfera ambientale e quella dell’economia. Il sistema-terra, infatti, è governato dalle leggi fisiche di conservazione e trasformazione della materia-energia. L’uomo, in sostanza, non è in grado di creare né di distruggere, ma può soltanto trasformare la materia e l’energia. Ognuna di queste trasformazioni comporta, però, anche dei costi: al termine di ogni processo, infatti, una certa quota di energia viene dispersa in modo irrecuperabile. Tutto questo, perciò, risulta incompatibile con il concetto stesso di sviluppo illimitato, proprio perché ciò non è in grado di far fronte ai vincoli fisici dati dal contesto ambientale. L’unica soluzione possibile al problema ambientale parrebbe quindi quella di una forte limitazione dei consumi. Questa, però, risulta incompatibile con un sistema economico basato sul reinvestimento del surplus. Proprio per tale motivo,il problema in questione viene totalmente ignorato, continuando a spingere sull’acceleratore della crescita per far sopravvivere l’intero sistema. Qualora non trovi questo "spazio vitale" il capitalismo entra, infatti, in crisi.
Per quanto la retorica neoliberista tenti di rivenderci il mito del mercato che bada a se stesso, nella realtà storica lo Stato si è sempre occupato di garantire l’ampliamento della sfera del mercato oppure di inserire dei correttivi per impedirne il collasso. Lo Stato assicura la possibilità del reinvestimento del surplus mediante la costruzione di infrastrutture, programmi di riarmo, favorendo l’espansione urbana e geografica del capitalismo, "esportando la democrazia" e conquistando nuovi territori da annettere al "mondo libero"; qualora tutto questo sia impossibile non rimane altro che intervenire direttamente per scongiurare il collasso, ad esempio stampando carta moneta per salvare le banche insolventi. Quando si tratta di sostenere le rendite da capitale tutto diventa possibile, e tutto può venire sacrificato per correggere le disfunzioni di un sistema economico in grado garantire sviluppo economico e benessere diffuso. Quanto c'entra tutto questo con il "capitalismo verde"? Molto, perché se consideriamo che fino ad oggi la priorità del sistema politico internazionale, nelle sue varie articolazioni, è stata quella di garantire la "tenuta" del mercato, allora possiamo vedere al di là della retorica ed iniziare a chiederci quanto questa "riconversione spirituale" del liberoscambismo sia da imputarsi alla crisi ecologica o quanto, più realisticamente, sia da imputarsi alla necessità di creare un nuovo programma infrastrutturale ed una nuova serie di necessità a cui il mercato fornirà equa soddisfazione; in altre parole, la priorità non è il taglio delle emissioni (che in ogni caso continua a non avvenire) ma la garanzia di poter reinvestire il surplus presso nuovi lidi. “Se realmente si tagliano le emissioni, che importanza può avere se qualcuno riesce a ricavarne profitto?” Potrà sembrare che noi si butti via il bambino con l’acqua sporca, eppure, anche ammettendo che si riesca a tagliare le emissioni, (cosa tutt’altro che scontata visti i risultati di COP 15 ) i problemi permangono e stanno proprio nel profitto. Per chiarire utilizziamo un esempio considerando un singolo prodotto: una saponetta ad "emissioni zero"; detta saponetta ovviamente costerà leggermente di più per coprire le spese di ripiantumazione, ammettiamo anche che i produttori siano sinceri e che l’intera popolazione mondiale, presa da crisi di coscienza, decida di acquistare la saponetta miracolosa (già ora siamo abbondantemente nella fantapolitica) e che tale prodotto miracoloso abbia saturato completamente il mercato azzerando le emissioni connaturate alla propria produzione… e poi?La saturazione del mercato ci riporterebbe al punto di crisi, surplus da investire e necessità di spazi per poterlo fare, il surplus ricavato dal sapone dei miracoli dovrebbe essere reinvestito, potrebbe essere reinvestito in altre attività ad impatto zero certo, ma se dovessero aprirsi nuovi spazi? Spazi che garantiscono un ritorno economico superiore a quello che si può ricavare dalla sostenibilità ecologica?
Se domani si scoprisse un modello di business che assicura profitti stratosferici riversando mercurio nei fiumi o sparando arsenico nelle nubi, è veramente così realistico pensare che buona parte dei surplus ottenuti commerciando prodotti "amici dell'ambiente" non sarebbe reinvestito in queste attività ?Qui è dove muoiono tutte le buone intenzioni.
Il mercato non possiede gli anticorpi necessari contro questo tipo di speculazione, quando ci si riduce a sperare nel "buon cuore" delle multinazionali e dei centri finanziari, o nella capacità di autoregolazione del mercato, le prospettive per un futuro sostenibile non sono alla frutta ma hanno abbondantemente superato l'ammazzacaffè.
Perché, invece, non confidare in un secondo New Deal verde, un welfare state climatico? Magari simile a quello tanto glorificato da Obama, una soluzione eccellente per salvare capra e cavoli: le multinazionali guadagnano un po’ meno e lo stato garantisce la buona fede ecologista delle stesse. Eppure anche qui si rischia di peccare di ingenuità.
Abbiamo già visto come lo Stato e le politiche di espansione del mercato rappresentino un tassello fondamentale del sistema e garantiscano lo spazio di manovra basilare per assicurare il reinvestimento del surplus, quindi perché fidarsi?
Anche lo stesso paragone con lo welfare state è completamente fuori luogo dato che lo stato sociale rappresentò un tentativo di mediazione fra le istanze capitalistiche e quelle potenzialmente rivoluzionarie del movimento operaio. Anche ammesso e non concesso che la mediazione sia una strada percorribile, quali istanze si dovrebbero mediare oggi? Di quali soggetti?La realtà è che non esiste alcun tavolo di dialogo né, oggettivamente, se ne avverte il bisogno.
Alcuni se ne stanno chiusi dentro un palazzo concentrati non sulle emissioni ma su come riuscire a estrarre profitto dalla crisi, altri stanno fuori dal palazzo reclamando giustizia e trovando solo manganelli. Nel migliore dei casi le decisioni che emergono dalle conferenze programmatiche (quando e se emergono) presuppongono una gestione autoritaria della crisi. Presuppongono la cooptazione di parole d’ordine ed associazioni ambientaliste per costruire una nuova verginità ideologica alla solita macchina che consuma risorse e sfrutta il lavoro per produrre profitti la cui redistribuzione riposa ormai sulla sola filantropia “dei ricchi”. Quanto detto ci spinge a pensare che le varie crisi di cui sentiamo parlare sempre più spesso (ecologica, finanziaria, produttiva, climatica e biologica) siano in realtà da ricondurre alla crisi del modello di produzione contemporaneo.
Questa ipotesi indica la natura politica del problema che ci troviamo di fronte. Al di là di quanto sostengono i profeti del neoliberismo, nelle sue versioni di destra e di sinistra, una soluzione efficace non può essere consegnata alla capacità di autoregolazione del mercato, all'intervento statale per correggere alcune disfunzioni o per sostenere i consumi attraverso politiche ridistributive. La soluzione deve essere politica, in quanto il problema è politico . Non si possono produrre soluzioni efficaci che lascino immutato il sistema economico, si può e si deve invece pensare e continuare a pensare alla soluzione del riscaldamento globale e dell’esaurimento delle risorse come ad un qualcosa di profondamente legato al problema della concentrazione di potere e reddito, ed al deficit di partecipazione che questi implicano, nonché di una visione economica noncurante dei vincoli fisici dati dal contesto ambientale.

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