Sulla condizione giovanile sono stati versati mari d'inchiostro, intere generazioni di sociologi, psicologi, preti (non mancano mai) e giornalisti d'ogni ordine e grado, nel corso degli anni, hanno dato vita allo psicodramma corale del “disagio giovanile”: una sorta di entità astratta in cui si mescolano problemi reali ed immaginari e che detiene il poco invidiabile potere di dissolvere cause reali di problemi concreti nella mistica dei turbamenti (post) adolescenziali.
Ad onor del vero l'immagine che emerge dalle interviste ricalca molti tratti essenziali di rappresentazioni ben più quotate quali quella dello IARD, sostanzialmente i giovani vengono immaginati e quindi si immaginano come una massa amorfa senza particolare solidarietà generazionale, azzerata culturalmente sui valori della famiglia e dell'edonismo personalistico e che prova a tirare a campare in un eterno “presente liquido” la cui mitologia, fruibile in tutte le stagioni, diventa particolarmente utile per tagliar corto, liquidando una seria ricerca delle cause dell'immobilità generazionale nel bel paese. In effetti quello che colpisce dalle interviste non é tanto quanto l'immaginario dei giovani sia stato colonizzato dai discorsi fatti (da altri) su di loro, quello è relativamente normale, visto che gli unici “autorizzati” ad esprimersi sui turbamenti esistenziali della gioventù del bel paese hanno da tempo superato gli “anta”; quello che merita di essere osservato è l'impossibilità di individuare una causa: esiste una percezione di un disagio reale, diffuso, che indubbiamente si attesta su una linea generazionale (oltre che ovviamente di genere, di classe, di eredità etnica) ma tutti i discorsi su questo “male oscuro” non riescono ad individuarne le cause politiche e strutturali. Facciamo un esempio concreto; tutti i ragionamenti sulla precarietà, sulla dipendenza dal nucleo familiare trascurano un fatto fondamentale ovvero il fatto che si sta discutendo della condizione giovanile in un paese che, allo stato attuale, non ha alcuna politica di welfare per i giovani e questo è completamente ignorato dai giovani stessi, debitamente addestrati a considerare normale una situazione profondamente anormale. In Italia l'istruzione costa cara, non si può dire lo stesso di Germania e Francia, in Italia non esiste una politica per il sostegno alle giovani coppie o all'impiego femminile che in Spagna o nei Paesi Scandinavi è una realtà affermata da tempo, per intenderci e restare nel concreto consideriamo che i paesi Ocse spendono mediamente il 2.3% del Pil per servizi alle famiglie, la Francia spende circa il 3.8%, il Regno Unito circa il 3,6% Germania circa il 3%, l' Italia arriva a stento all'1.4%. Per rincarare la dose serve scartabellare un po’ di dati sulla disoccupazione: la disoccupazione giovanile in Italia si attesta sul 27% circa (dati Istat 2010), in pratica un lavoratore su quattro, fra i 15 ed i 24 anni è disoccupato, il tasso di disoccupazione giovanile è triplo rispetto a quello globale (circa 8-9%) e a fronte di tutto questo lo stato italiano spende lo 0,5/0,6 % (sempre in punti Pil) per sostenere chi perde un lavoro, diversamente dal la Francia che, pur avendo un tasso di disoccupazione simile, spende il 1,7% mentre i paesi scandinavi superano il 2%.
Tutto questo diventa ancora più grottesco se consideriamo che, se si parla di pensioni, le cifre sono ben altre infatti, dopo l'Austria, l'Italia è il paese che più spende in welfare per i pensionati (11%).
Di questo stato di cose non v'è alcuna consapevolezza, si dibatte di “questioni giovanili” in termini esclusivamente morali quando il problema ha contorni assolutamente materiali e reali: i giovani sono i meno tutelati dallo stato sociale, se ottengono qualcosa è solo attraverso il tramite della famiglia, essi sono anche i più colpiti dal fenomeno del precariato, infatti nel 2008 c'erano circa tre milioni di precari, che nel 60% dei casi avevano meno di 35 anni. A fronte di tutto questo, parlare di questioni culturali e del solito stereotipo dell'italiano mammone è pura disinformazione in cui, ahimè, i giovani cascano con tutte le scarpe. Non che manchi la volontà di cambiare qualcosa, forse manca un reale progetto, ma il problema più grave rimane il fatto che esprimersi in termini di “merito”, di “cervelli in fuga”, di “inerzia” o “voglia di sbattersi”, di “professionalità” o di riformette inciuciste significa voler partecipare -e magari “vincere”- presso un tavolo da gioco ignorando il fatto che le regole siano profondamente truccate ed è proprio questa ingenuità che non deve essere più perpetuata, soprattutto perché questo equivoco è chiarissimo ai centri di potere e viene spesso utilizzato ad arte per creare legittimità attorno a progetti politici allucinanti.
La riforma dell'università? Ma va ovviamente nel miglior interesse dei giovani, poco importa se consiste solo in tagli perché sono tagli fatti per il sacro “merito”. Le riduzioni delle pensioni o il prolungamento dell'età pensionabile ? Ma anche queste cose sono per i giovani, poco importa anche qui se nel paradossale stato attuale il welfare per i genitori rappresenta una importante fonte di reddito per i loro discendenti: quanti studenti fuori sede sono mantenuti da mammà che (se va bene) gode di un impiego a tempo indeterminato ? O dalla pensione di papà ? Quanti lavoratori precari, magari ultratrentenni, necessitano della tutela genitoriale per accendere un mutuo immobiliare ?
Ma questo squallido cinismo non è esclusiva del liberismo targato Pdl dato che anche la cosiddetta opposizione ci mette del suo: non è forse nell'interesse dei giovani che si sventola il “contratto unico” neanche fosse la sindone il giorno dell'ostensione? Anche qui poco importa che sia una riedizione all'italiana del CPE francese e che la sua genesi provenga dallo stesso brodo di cultura “progressista” che ci ha regalato meraviglie come il pacchetto Treu; l'importante è che sia per i giovani.
E, per la cronaca, pure il pacchetto Treu o la legge 30 erano “per i giovani”: la flessibilità non avrebbe forse dovuto favorirli? Negli scenari utopici rivendutici in quel del 1997 i giovani avrebbero finalmente potuto armonizzare vita, studio e lavoro grazie all’ingresso della flessibilità la quale ci veniva rivenduta come una conquista generazionale: basta con la noia del lavoro stabile, sarebbe stato possibile saltabeccare da una “esperienza” ad un’altra, in un mondo fatato di prosperità, completamente avulso dal reale. E che dire delle giovani donne magicamente libere, grazie alla flessibilità, di conciliare maternità e lavoro ?
Ironia a parte, tutto questo sproloquio vorrebbe servire a rilevare quanto il concetto di “disagio generazionale” rappresenti uno strumento per l'alienazione reale dei giovani, comodamente disponibile a qualsiasi centro di potere, un raffinato artificio che con la stessa mossa priva i giovani di voce e parla a loro nome, millantando di farlo per il loro stesso bene, come se fossero animali in via di estinzione. E' in nome dei giovani quindi o, più concretamente, sulla pelle dei giovani che si possono giocare le lotte di potere fra le varie cordate del liberismo tricolore, ciascuna intenta a mobilitare i poveri giovani affranti e derelitti per far passare l'ennesimo pacchetto legge o l'ennesima riforma peggiorativa dell'esistente. Al di là di tutta la “fuffa” finora delineata, la realtà è quella di un sistema che, con felice intuizione, Banfield definisce “familistico amorale”, in cui le mobilitazioni di solidarietà universali e le “meravigliose sorti e progressive” del riformismo liberista nascondono il solito trucco patriarcale di negare diritti in pubblico ai figli degli altri, per poi poterli munificamente concedere in privato alla propria prole. Se il mercato del lavoro è bloccato, in realtà non c'è nessun problema, c'è sempre quell'amico di Papà (forse); se non si riesce ad aprire un mutuo ci sono due generazioni di pensioni pronte a fare da garanzia (forse), in questo modo ciò che dovrebbe essere un diritto da rivendicare viene magicamente trasformato in un privilegio da mendicare e si finisce vilipesi e sfruttati non una ma due volte. C'è da dire che, a voler essere acidamente franchi, i giovani accettano di buon grado la pratica della mendicità dei diritti; non tanto per qualche difetto caratteriale o antropologico, non tanto per quell'oscena banalità che vuole ogni generazione più “molle” di quella che la ha preceduta, quanto per il fatto che i processi di precarizzazione degli individui e del corpo sociale sono stati, in primo luogo, altrettanti progetti di distruzione di tutti quegli artefatti sociali o culturali che potevano essere utile per pensarsi come corpo collettivo autonomo ed indipendente.
Il quadro non è certo roseo ma per uscire dal pantano è necessario definire i tratti della crisi, molti dei quali hanno a che fare con le difficoltà di questa generazione a parlare come una voce unica e anziché ostaggio dei giochi di potere.
Decisamente non compete a questo articolo individuare una via di fuga o un percorso corretto per uscire dall'impasse generazionale ma un'osservazione è necessaria: qualunque percorso rivendicativo, qualunque modo di ribaltare il tavolo truccato dovrà essere frutto di una riflessione autonoma di chi in precedenza è stato ridotto al silenzio. L'uscita da una posizione di subalternità quasi feudale avverrà solo se si riuscirà a comprendere che il proprio benessere ed il proprio futuro individuale dipendono dalla capacità di avanzare rivendicazioni pubbliche e collettive, dalla capacità di difendere e creare nuovi diritti comuni.
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