giovedì 19 novembre 2009

NORMALIZZARE. NARCOTIZZARE. CONSERVARE. QUEGLI ANNI SONO ANCORA TRA NOI.

Milano, 40 anni dopo, non è più la stessa. Noi non c’eravamo, ma lo capiamo che era tutta un’altra città. Sono i racconti “dei grandi” a farci immaginare Piazza Duomo invasa dalle auto, i capelloni con l’eskimo che si avviano verso la Statale. Anche Piazza Fontana è cambiata. Per noi è una tranquilla rotonda con panchine, dove sembra quasi di essere a Milano.
Ma il 12 dicembre 1969 l’Italia si è svegliata sotto una valanga di morti ed ancora oggi ci si interroga su perché, da quel giorno, si sia dovuto fare i conti con la paura e con la morte.
Quel giorno d’autunno si è proiettato, come le schegge assassine di quel pomeriggio, nel presente, lasciando dei segni indelebili.
Disincanto, arretratezza economica e sociale, incapacità di analizzare il tempo presente con distacco e scientificità, la sensazione che il Potere costituito sia tramandato immutato e immutabile, la nascita dei fenomeni di antipolitica come reazione alla “scomparsa” della politica.
E se lontani sono ormai gli anni dell’immaginazione al potere, la sfiducia nel futuro è un elemento caratterizzante delle nuove generazioni di “professionisti del precariato”.
Questa fosca situazione ci ha spinto a domandarci dove tutto ciò abbia avuto origine.
L’Italia che esce dalla guerra è un Paese malconcio, ma già 10 anni dopo si parla di boom economico: aumento dei consumi, vitalità e partecipazione politica, volontà di trasformazione. Sono tutti sintomi di un Paese che cresce.
Le prime battute d’arresto arrivarono verso la metà dei Sessanta, con la fine del boom, il Piano Solo, il fallimento del centrosinistra, e consegnarono ai sessantottini un Paese ormai in bilico tra voglia di cambiamento e volontà di conservazione.
La contestazione giovanile fa paura, quando si trasforma in scontro di piazza genera ondate di dura repressione. E mentre cresce anche il movimento operaio, che ben presto presenterà istanze di cambiamento, determinate forze reazionarie e conservatrici si misero in moto per bloccare la spinta dal basso.
Il 25 aprile ‘69 esplodono 2 bombe a Milano, una alla Fiera campionaria, l’altra alla Stazione Centrale. Nella notte tra 8 e 9 agosto dello stesso anno, ben 10 ordigni deflagrano su altrettanti treni, in tutta Italia.
Alla riapertura delle fabbriche, prende avvio un’intensa stagione di vertenze, scioperi, occupazioni: sarà l’autunno caldo, ma nessuno sembrerà accorgersi che si sta tentando di stroncare la grande mobilitazione; tutto ciò finisce, infatti, per appoggiare quanti sostengono che il pericolo comunista non sia più ignorabile, facendo leva su paure e angosce mai sopite.
E’ in questo clima che la bomba del 12 dicembre, con il suo devastante carico di morte, si porta via 16 vite e lascia un solco profondo nell’Italia intera.
Ma se l’obiettivo era fermare lo spirito di trasformazione di quella stagione di grandi lotte sociali che andava aprendosi, esso in un primo momento fallisce.
Durante i funerali delle vittime, Milano risponde con composta fermezza; quel giorno, migliaia di persone si ergono, consapevolmente o meno, a difesa della libertà. Anche i 3000 che partecipano ai funerali di Pino Pinelli fanno da monito a qualsiasi tentativo di svolta autoritaria.
La strage segna però una degenerazione, un progressivo imbarbarimento del modo di far politica, che scivola dal piano del conflitto sociale a quello dello scontro armato, innalzando sempre più la tensione.
Già, la strategia della tensione, che passa dalla fase teorica alla fase d'attuazione iniziando un lento lavoro di logoramento delle coscienze, soprattutto di chi si oppone alla normalizzazione e alla conservazione.
Le bombe nelle banche, nelle piazze, sui treni, il golpe strisciante, la guerra civile a bassa intensità.
Dalla stagione delle bombe si passa agli anni di piombo; il mostro terrorista generato dall’odio e dalla violenza si nutre dell’odio e della violenza che ha generato, assurto ormai a fenomeno endemico della società italiana dopo più di trent’anni di presenza sulla scena nazionale. Sangue versato, stillicidio quotidiano di morti, violenza inoculata giorno per giorno e che diventa il veleno che negli anni addormenta le coscienze.
Prima lo stragismo, poi il terrorismo infergono duri colpi ai movimenti dei Settanta, edulcorandone man mano la capacità e la volontà propositiva, innovativa rispetto una società che non chiedeva altro che normalità.
In questo senso la strage di Piazza Fontana rese possibile avviare una stagione che ha prima arginato (e normalizzato) la situazione; poi ha posto le basi per la conservazione della società grazie anche ad una graduale narcotizzazione del pensiero collettivo anticonformista e ribelle.
Per tutti questi motivi il 12 dicembre 1969 segna uno spartiacque. Piazza Fontana diviene snodo cruciale tra due stagioni che spaccano la storia recente del Paese. Prima e dopo. Perciò quegli anni sono ancora tra noi.
Ora abbiamo la possibilità di analizzare, sezionare, capire quelle radici che molti si affannano a seppellire, e che fa dire alla maggioranza degli studenti di oggi che la strage di Piazza Fontana è opera delle Brigate rosse.
Studiare Piazza Fontana significa capire le ragioni dell’oggi e attrezzarsi diversamente ad affrontare un futuro che, senza le dovute correzioni, potrebbe rivelarsi molto più nero di quello che l’Italia ha affrontato all’indomani della strage.
Ecco, questo quarantesimo potrebbe essere l’occasione per cominciare a risalire la china.

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