giovedì 19 novembre 2009

Presentazione 25/11

Qualcosa si sta muovendo

SOTTOTRACCIA…

Mercoledì 25 ore 16,30 aula 3

Facoltà di scienze politiche, Via Conservatorio 7 (MM1 San Babila)

Presentazione del giornale universitario Sottotraccia


Ci stanno arrestando, denunciando, caricando nelle piazze… per il governo siamo “guerriglieri”, “fannulloni”, “oppositori dell’innovazione”, “amici dei baroni”.


Ma i provvedimenti sull’università intaccano la corporazione docente? Il diritto allo studio è stato potenziato, come promesso più volte? Chi ha scritto i provvedimenti? Quali sono gli equilibri politici che li hanno permessi?


A tutte queste domande abbiamo cercato di rispondere nello speciale “merito e diritto allo studio” del primo numero di SOTTOTRACCIA, la nuova rivista universitaria della Statale di Milano.


Per scoprire le risposte a queste domande, partecipa alla presentazione di SOTTOTRACCIA!

A seguire aperitivo nel cortile della Facoltà


Se 60 denunciati e 2 sospensioni vi sembrano poco...

60 studenti universitari milanesi sono stati denunciati per i fatti accaduti durante le mobilitazioni
dello scorso autunno contro la legge 133. Gli altri studenti ne sanno poco o nulla, e siamo certi che questo argomento susciterà in molti di voi un freddo disinteresse.
Ecco perchè vorremmo cercare di comunicare proprio con chi, per motivi diversi, non ritiene gravi attacchi come questi alla libertá di manifestare
e di ribellarsi allo smantellamento
dell’istruzione pubblica. Già, perchè 60 denunciati sono un fatto molto serio, sia per i singoli in questione sia per i gruppi, i collettivi e le soggettività che durante l’Onda tutti voi in un modo o nell’altro avete conosciuto. Tuttavia, il pensiero più diffuso è di sano menefreghismo. Perchè
allora interessarsi delle vicende giudiziarie di 60 studenti?
Proviamo a rispondere.
In primo luogo perchè quegli studenti non hanno messo in gioco il proprio tempo perchè si
annoiavano in università. Questa potrebbe essere un’accusa tanto banale quanto fuorviante da parte di chi spesso addita le mobilitazioni degli studenti come manifestazioni di fancazzismo. Di fancazzista in tutto questo c’è proprio poco. C’è e c’era in quei mesi, un’indignazione, una profonda
carica di rabbia, che in tanti non si è spenta. Rabbia per un’università che, travolta dalla crisi e dalle sue disfunzioni croniche, non trovava di meglio da fare che cambiarsi in peggio, millantando riforme strutturali e meritocratiche che, oltre a lasciare i baroni al loro posto, spalancano porte, portoni e finestre
alle fondazioni e al capitale privato. Ecco allora un primo motivo per non lasciare soli quei 60 studenti. Per esprimere solidarietà e sostegno a chi ha messo in gioco sé stesso con passione per la difesa di un bene comune, cioè di tutti, ricchi, poveri, lavoratori, precari, docenti
e studenti. Ma non si tratta solo di questo. Quelle denunce
rappresentano un pericolo per tutti. Perchè spostano sul piano giudiziario il confronto politico sul futuro dell’istruzione e delle ricerca che l’Onda aveva saputo affrontare collettivamente. Cosí come sono un pericolo le 2 sospensioni che il Senato Accademico della Statale ha comminato lo scorso settembre a 2 studenti, rei di aver partecipato
a un’iniziativa poltica, la “The Cleva Cup” che denunciava l’ipocrisia dei baroni, a partire dal Rettore Decleva. Quando al dissenso si risponde con gli apparati
repressivi (magistratura nei tribunali, polizia nelle piazze e nelle universitá), significa che i politici, i baroni, i burocrati
che lavorano alle riforme dell’istruzione si rifiutano di affrontare le rivendicazioni di cambiamento dal basso, e decidono
di colpire un gruppo di studenti
e fare terra bruciata intorno,
additandoli come “pericolosi sovversivi” o “lesivi del docoro dell’Accademia”. Questo per legittimare come interlocutori solo alcuni timorosi e timorati leccapiedi che certamente niente hanno da dire di critico ai potenti dell’università, per non rischiare la carriera nei partiti o in universitá... Ecco allora un altro motivo per non lasciare soli i 60 denunciati per essere scesi in piazza con centinaia di migliaia di persone,
genitori, maestri, insegnanti,
lavoratori, ricercatori, studenti che in tutta Italia hanno bloccato il traffico delle cittá, hanno occupato i binari delle stazioni ferroviarie per cercare di impedire a Tremonti
e Gelmini di distruggere l’istruzione pubblica.
Ci rendiamo conto che per chi non si occupa regolarmente di università, per chi non fa politica militante, interessarsi di queste cose è difficile e quasi fastidioso.
Ma i denunciati e i sospesi sono studenti come voi, che si sono messi in gioco per un’università migliore. Per questo non possiamo
lasciarli soli. E non possiamo permettere che un confronto, anche aspro, su questioni cruciali
per il futuro nostro e di questo sciagurato paese, venga ricacciato nelle aule dei tribunali
ed eluso e cloroformizzato nelle nostre vetuste e dormienti università.

LO SPECIALE: MERITO E DIRITTO ALLO STUDIO

Dalla pubblica amministrazione all’università, merito e valutazione sono le parole d’ordine usate per legittimare e costruire consenso attorno a provvedimenti e presunte riforme. E a ragione: in una società ingessata, in cui da un lato le disuguaglianze socioeconomiche
si aggravano e dall’altro la mobilità sociale è minima, l’idea che ognuno possa disporre delle opportunità che le proprie capacità gli offrono, sembra condivisibile.

Inchiesta

Proviamo a distinguere i provvedimenti adottati dai “valori” usati per legittimarli:
l. 1/2009, ripartizione differenziata dei tagli della 133/2008 in base alla classifica ministeriale delle università meritevoli, via libera ai concorsi indetti ormai 2 anni fa e annunciata riforma della governance. Quali sono gli equilibri che hanno portato a questi provvedimenti? La struttura di potere che governa l’università (il cosiddetto baronato) ne è intaccata? C’è una relazione tra il merito e i dispositivi implementati dal ministero?
Cercheremo di rispondere a queste domande analizzando la classifica degli atenei virtuosi dello scorso 24 luglio, tracciando i profili dei paladini del merito nell’Universitá, usando le informazioni raccolte dal collettivo Fuori Controllo di Scienze Politiche.

Giallo al ministero dov'è sparito il merito?
La cronistoria
I protagonisti del merito

I Privati

Diversi sono stati i provvedimenti legislativi volti a una privatizzazione del sistema università,
a partire dalla possibilità per le università di trasformarsi in fondazioni di diritto privato (l. 133/2008), per arrivare all’annunciata presenza nel Consiglio di Amministrazione
di almeno il 40% di membri esterni (ddl di riforma dell’Universitá). Saranno i privati made in Italy a salvarci dai baroni e a instaurare la meritocrazia? Cercheremo di rispondere a partire da esempi concreti.

Ci salveranno i Privati?

Diritto allo Studio

Se i provvedimenti adottati dal governo andassero in una “direzione” meritocratica, vedremmo maggiori opportunità per gli studenti provenienti da backgrounds disagiati e meno abbienti. Vedremmo insomma qualche forma di potenziamento del diritto allo studio capace di garantire paritá di condizioni materiali. Perché solo cosí avrebbe senso ricondurre le differenze nei rendimenti al merito individuale. Se i tagli fossero indirizzati
a colpire i baroni e a incrementare il diritto dello studio vedremmo piu’ servizi per gli studenti e regole che cercano di scalfire la corporazione docente. Ci addentreremo nella nostra università, la Statale di Milano, con l’aiuto di uninversi.org : biblioteche, mensa, tasse…. (nel prossimo numero casa e mobilitá). A che punto siamo?

Diritto allo Studio e servizi agli studenti, a che punto siamo?
Un pranzo in Statale
Le tasse aumenteranno?

Le precondizioni del Merito

Il merito, per poter passare da semplice valore a criterio in base al quale ridistribuire ricchezza, deve poter essere definito, scomposto in indicatori e misurato attraverso indici. Ma quali ne sono le precondizioni? Daremo qualche spunto di riflessione, non abbiamo una risposta pronta. Contribuite alla discussione inviandoci le vostre opinioni a
sotto-traccia@inventati.org.
Le pubblicheremo sul nostro sito sottotraccia.tk e sul prossimo numero della rivista.

Le precondizioni del merito

l'inchiesta sulla classifica degli atenei virtuosi

Giallo al ministero. dov'é sparito il merito?

Nell’autunno del 2008, a pochi mesi dal suo insediamento, il governo si è trovato ad affrontare
il primo movimento di protesta. Dalle scuole materne fino all’università, il mondo dell’istruzione é sceso in piazza
contro i tagli decisi dalla manovra finanziaria per il 2009 (l.133/2008). Tagli voluti e così illustrati dal potente Ministro Tremonti alla Camera: “dovendo ridurre il deficit e non potendo aumentare le tasse, le alternative
che ci si aprivano non erano numerose: si trattava di una politica
di serio contenimento delle dinamiche incrementali della spesa pubblica” (17/07/2008) .
L’Onda è stato un movimento capace di unire diverse componenti
sociali e di riscuotere consenso nell’opinione pubblica. Situazione problematica per la Gelmini, che finiva per essere facile bersaglio dei manifestanti,
ma anche dei colleghi di governo, e per giunta a causa di provvedimenti non suoi e che il 31 luglio aveva commentato negativamente: “Per quanto riguarda le risorse, è inutile ripetere cose già dette [..] Il turn over è certamente una misura pesante che, come ho già detto, è stata imposta dalla situazione economica dello Stato. Siamo consapevoli di arrecare un danno ai giovani, soprattutto a coloro che dovrebbero entrare nell’università”.
“La filosofia cui intendo uniformare
l’azione del ministero [..] si fonda sul trinomio autonomia, valutazione, merito, che è anche quanto l’Italia, oggi, si aspetta da noi”, così il 17 giugno 2008 il Ministro Gelmini si rivolgeva
già per la seconda volta alla Commissione per spiegare
il suo progetto di riforma dell’università. Non sarebbe potuta andare peggio: nel giro di pochi mesi si è trovata non solo senza fondi, ma anche molto impopolare.
La Gelmini ha deciso di affrontare le proteste di piazza
continuando ad inneggiare alla riforma dell’istruzione, alla necessità di combattere le baronie
negli atenei, ai grembiulini nelle scuole.... cosa abbastanza tragicomica visto che l’unico provvedimento di una qualche consistenza era il drastico taglio alla spesa pubblica, dalla scuola materna all’università. Man mano che le proteste crescevano,
la Gelmini ha cominciato ad usare l’ufficio stampa del ministero per annunciare, a scadenze brevi e regolari, l’arrivo di un’imminente riforma dell’università che avrebbe introdotto meritocrazia e valutazione contro gli interessi della corporazione docente che, insieme ai partiti della sinistra,
strumentalizzava i poveri ingenui nelle piazze. Poco importa
che i partiti della sinistra abbiano avuto scarsissimo peso nel movimento, perlomeno quello universitario, né che nelle piazze, oltre che contro i tagli, si protestasse contro i baroni.
Infine arrivò il merito
Tra il 10 novembre 2008 e il 28 ottobre 2009 sono infine arrivati i primi provvedimenti che preparano la strada della riforma dell’università: la l. 1/2009; i provvedimenti che ne attuano tutti i punti (tranne il potenziamento del diritto dello studio), tra cui la classifica degli atenei per ripartire quello che rimane del FFO; una bozza del regolamento dell’Anvur; la direttiva n. 160; il ddl di riforma dell’università. Tutto in nome della meritocrazia e contro la corporazione docente. Quali sono gli equilibri che ne hanno resa possibile l’approvazione? La struttura di potere che governa l’università (il cosiddetto
baronato) ne è intaccata? Abbiamo cercato di rispondere a queste domande a partire dalla classifica degli atenei meritevoli.

La classifica degli atenei virtuosi

24 luglio 2008. Stando al comunicato del Ministero e alle prime pagine dei quotidiani, è stato il giorno della rivoluzione nel sistema universitario. Repubblica: “Università, scatta la rivoluzione: più finanziamenti agli atenei migliori”; il Corriere: “Più fondi agli atenei migliori. La lista dei 27 centri virtuosi che riceveranno € 525 milioni”.
Tuttavia il ministro Gelmini ha semplicemente firmato una serie di provvedimenti attuativi della l. 1/2009 (salvo quelli per il potenziamento del diritto allo studio). Ha sbloccato i concorsi indetti nel 2008 per la felicità dei baroni che già si stanno accordando nei dipartimenti per decidere chi far passare (con quali soldi?). Ha stabilito i criteri per la ripartizione del 7% del FFO per il 2009 (523,5 mil. €) peraltro con mesi di ritardo rispetto al 31 marzo, limite previsto dalla l. 1/2009. Ancora piú in ritardo (il 23 settembre) é arrivato il decreto che ha effettivamente sbloccato i fondi per l'anno in corso.
I rettori delle università penalizzate hanno rilasciato dichiarazioni molto critiche, sottolineando l'arbitrarietà dei criteri utilizzati per valutare il merito e la qualità. Meno critici i rettori degli atenei virtuosi, come il Rettore di Trento, prima in classifica: “Lavorare premia: in Italia è una eccezione ma questa volta è successo”, o il Rettore dell'Università di Chieti, tredicesima: “Il 13° posto della d'Annunzio tra le università italiane non mi coglie di sorpresa. In parte lo sapevo già, in parte me lo aspettavo”. La corporazione docente sembra sconfitta: ogni Rettore commenta comprensibilmente la prestazione del proprio ateneo a seconda della posizione in classifica.

C'E' QUALCOSA CHE NON QUADRA
Sembrerebbe una classifica rigorosa e imparziale, che ha premiato chi se lo meritava. Tuttavia qualcosa non quadra... Come mai il ministero non ha mai divulgato le tabelle riassuntive e di confronto per tutte le università? C'è la classifica ma non i dati...... Quello che sappiamo é poco rassicurante: € 172.76 milioni sono stati assegnati in base a dati raccolti dal Civr piú di sei anni fa, nella valutazione triennale della ricerca 2001-2003. Molto discutibili anche gli indicatori scelti per misurare la qualitá della ricerca e la qualitá della didattica come il rapporto tra il numero di insegnamenti per i quali è stato richiesto il parere degli studenti ed il numero totale di insegnamenti attivi , o la percentuale di laureati 2004 occupati a tre anni dal conseguimento del titolo.
La classifica lascia qualche dubbio... E' strano vedere cosí distanti la Statale di Milano (11°) e La Sapienza di Roma (42°).

CHIETI -PESCARA COME OXFORD?
Qualcos'altro non quadra.... L'Universitá di Chieti e Pescara é 13°. Dal Rapporto del 2008 sullo Stato del Sistema Universitario apprendiamo che la metà degli immatricolati all'ateneo non residenti in Abruzzo, “risultano immatricolati dopo sei o più anni di distanza dal conseguimento del diploma di maturità. Ciò potrebbe essere dovuto all’effetto di specifiche convenzioni per il riconoscimento di crediti relativi ad attività lavorative pregresse”. La conseguenza? Nel 2007 il 53,3% dei laureati all'Universitá di Chieti, ha coneguito la laurea precocemente. Ovviamente il rapporto tra il numero di crediti conseguiti e il numero di crediti previsti é uno degli indici della qualitá della didattica usati dal ministero. E' strano che Giavazzi non si sia stupito di vedere l'ateneo abruzzese cosí in alto nella classifica. Come ha potuto dimenticarsi il divertente articolo di Stella e Rizzo del 26 ottobre 2008 intitolato “Universitá, il business dei laureati precoci. La metá negli atenei di Siena e Chieti”?
Il prof. Cuccurullo non ricopre solo l'incarico di rettore della Oxford abruzzese dal 1997 (attualmente é al quinto mandato, lo Statuto non pone limiti): dallo stesso anno è anche Presidente della II sezione del Consiglio Superiore di Sanità; é presidente della fondazione privata G. D'Annunzio finanziata generosamente dall'ateneo ma anche da molte case farmaceutiche ; é presidente per Statuto del CdA dell'universitá telematica Da Vinci; dal 2001 é presidente del Civr. Naturalmente Chieti fa parte dell'Aquis. Non ci stupirebbe scoprire che una persona cosí qualificata e meritovele abbia anche stilato la classifica.

La Cronistoria

1) Il 28 maggio 2008, il consiglio dei ministri approva l'atteso decreto legge n. 93/2008 (convertito nella legge n. 126/2008), che abolisce i l'ICI. Il mancato gettito viene coperto anche con una riduzione del FFO, a partire dal 2010, di 467 milioni più 16 milioni per ciascuno degli anni 2008-2009-2010 (art. 5, c. 1 e 7).

2) Il 25 giugno 2008, su proposta del Ministro del Tesoro On. Tremonti, il Consiglio dei Ministri approva , Gelmini compresa, il decreto legge n. 112 concernente: “Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria”.

3) Il 5 agosto 2008 viene convertito dal parlamento nella legge n. 133, parte della monovra finanziaria per il 2009. Questi i punti che riguardano l'università: taglio del FFO ( Art.66 comma 13), Riduzione del turn over del personale ( Art. 66 commi 1-11, 14), facoltà per le università di trasformarsi in fondazioni di diritto privato (Art. 16 commi 1,2,5,9).

4) Il 10 novembre 2008 il consiglio dei ministri adotta il decreto legge n. 180, “Disposizioni urgenti per il diritto allo studio, la valorizzazione del merito e la qualità del sistema universitario e della ricerca”. E' un provvedimento integrativo rispetto alla legge 133. I provvedimenti più rilevanti: nuove norme per i concorsi per i professori universitari e i ricercatori (art. 1); dal 2009 più fondi alle università nazionali migliori (art. 2) per risultati didattico-formativi e di ricerca ( se un ateneo è virtuoso lo stabilisce il Miur stilando una classifica); potenziamento del diritto allo studio (art. 3) ricorrendo alle “risorse del fondo per le aree sottoutilizzate”.

5) Il 9 gennaio 2009 il parlamento converte il dl. 180/2008 nella l. 1/2009.

6) Il 24 luglio 2009 il Consiglio dei Ministri approva in prima lettura il regolamento dell'Anvur e i provvedimenti adottati attuativi del dl 180/2008 (tranne quelli riguardanti il diritto allo studio):
- classifica dei 27 atenei nazionali più meritevoli e delle altrettante università più viziose in base alla quale attribuire il 7% del FFO del 2009, ridotto dalla l.133/2008.
- bozza di regolamento dell'Anvur, che sostiuirà Civr e Cnvsu e tra le sue funzioni avrà quella di differenziare la ripartizione del FFO.
- sblocco dei concorsi banditi nel 2008 e bloccati dalle nuove norme entrate in vigore con il dl 180/2008.

7) Il 4 settembre 2009 il Ministro Gelmini interviene con la direttiva n°160. Tra i consigli agli atenei: “ si incentiva la possibilità di conferire incarichi, conteggiabili parzialmente per i requisiti, ai docenti in pensione”.
Questo perchè ai docenti non in pensione non vengono pagati i contributi. Intanto l’assunzione di organico strutturato rimane bloccata al 20%.

8) Il 28 ottobre 2009 il consiglio dei ministri approva il ddl di riforma dell'università. Secondo il ministro l ariforma “sarà legge nei primi mesi di febbraio dell'anno prossimo, tra febbraio e marzo. Poi ci vorranno sei mesi per i decreti legislativi. Entro un anno sarà applicata”.

I silenziosi coltelli di casa CRUI

Come è possibile che prima che l'Udu pubblicasse i dati dell'inchiesta, nessuna tra le università colpite, tranne quella di Parma, si fosse accorta dei “misteri” della classifica? In seguito qualche rettore ha rilasciato dichiarazioni piuttosto dure, la Cgil-flc ha chiesto chiarimenti, ma a fine settembre tutti sembravano essersene già dimenticati. Intervistato lo scorso 24 luglio Frati, rettore de La Sapienza, si è limitato a criticare l'utilizzo di dati vecchi, senza mettere in discussione la classifica stessa. Decleva, presidente della Crui e rettore della Statale di Milano, non ha speso una parola a riguardo.
Forse non tutti sanno del silenzioso conflitto per la presidenza della Crui, che le nostre fonti ci informano essersi consumato tra Decleva e Frati. Il secondo mandato del Rettore della Statale sarebbe dovuto scadere lo scorso 30 settembre. Siccome lo Statuto pone il limite di due mandati, Decleva avrebbe dovuto abbandonare anche la presidenza della Crui. A cavallo tra il 2008 e il 2009 a Milano si é discusso se fosse opportuno modificare lo Statuto ad personam. Nel frattempo Luigi Frati, decisamente piú vicino al governo, si stava organizzando per prendere il posto del rivale milanese. Gli undici rettori delle universitá lombarde non hanno esitato a schierarsi col Magnifico scrivendo al Senato Accademico della Statale. “Si avvicina il dibattito politico sulla riforma della governance degli atenei e cambiare ora la guida della Crui sarebbe dannoso” ha spiegato il Rettore Fontanesi (Bicocca) a Repubblica il 29 dicembre . Infine, nonostante le iniziative di protesta dei collettivi, il 20 marzo il Senato della Statale ha modificato lo Statuto. Come mai la modifica, confermata con decreto ministeriale, non ha suscitato nessuno scalpore al ministero? Come mai la Gelmini ha preferito avere al tavolo della riforma un rettore “ostile” rispetto a uno “allineato”? Decleva non ha mai risposto a queste domande rivoltegli dai collettivi, ció che é certo é che La Sapienza si é trovata con quasi € 11 milioni in meno. Non ha risposto nemmeno all'invito rivoltogli ufficialmente dal Consiglio della Facoltá di Scienze Politiche di Milano lo scorso 10 febbraio a illustrare “il programma che intende proporre per il biennio di prolungamento del Suo mandato rettorale, nonché i provvedimenti di riforma delle governance dell’Ateneo che gli consentano di svolgere efficacemente entrambi gli impegnativi ruoli di Rettore [..] e di Presidente della CRUI”. I tagli all'universitá restano e secondo alcune indiscrezioni il bilancio della Statale sará in rosso di € 30 milioni giá dal 2010.

Come è stata fatta la classifica?

A metá settembre l'Udu é riuscito a avere i dati del ministero e li ha utilizzati per ricalcolare la classifica in base agli stessi criteri. Il risultato é assai diverso: La Sapienza risulta 2°, Milano 3°. Trento, la migliore, risulta 19°. Come si puó arrivare a risultati cosí diversi utilizzando gli stessi dati e facendo gli stessi calcoli? Semplice: la classifica della Gelmini non riporta l'indice di merito totale (“la misura del merito”) di ogni ateneo né tantomeno la porzione di quel 7% assegnato in base all'indice. Espone invece la variazione percentuale dei fondi assegnati a ciascun ateneo rispetto a quelli che avrebbe ricevuto senza la ripartizione differenziata. Dall'ammontare della quota base del FFO viene sottratto il 7% (€ 523,5 milioni). Questo importo viene ripartito tra gli atenei in funzione dell'indice di merito totale. Sommando la parte dei €523,5 milioni ottenuta in base all'indice di merito totale e la parte della quota base del FFO, si ottiene il finanziamento di ogni ateneo. La differenza percentuale tra questa somma e quanto ogni ateneo avrebbe ricevuto senza ripartizione differenziata determina la posizione in classifica. Gli “effetti ottici” che ne derivano sono notevoli (vedi tabella). Così La Sapienza, pur essendo la 2° per “merito”, con l'attuale modello di ripartizione del FFO riceve circa € 11 milioni in meno. La Oxford abruzzese invece, nonostante sia stata “aiutata”, come visto sopra, dalla scelta degli indici di merito, risulta 35°, ma riceve l'1,50% in più. Insomma: si sono scelti dei criteri discutibili, li si é applicati a dati vecchi, i risultati sono stati utilizzati per ripartire un fondo già decurtato e infine pubblicati in una tabella “distorta”. Il risultato? alcune tra le “peggiori” università si trovano in cima alla classifica e premiate, altre, tra le più “meritevoli”, sono invece state punite.


Chi ha fatto la Classifica?

Nei mesi precedenti la pubblicazione della classifica, sembrerebbe esserci stato un grande confronto tra le cordate nazionali di rettori per decidere i criteri e i dati da utilizzare. Consideriamo lo sfortunato “caso Macerata”. Il Rettore Roberto Sani in un comunicato dello scorso 12 giugno annunciava il suo Ateneo “terzo tra i 58 atenei italiani statali per virtuosità [..] Con l’applicazione della l. 1/2009 si troverebbe a ricevere una cifra consistente come quota premiale sulla base del merito”. Invece l’Ateneo si scoperto al 48° posto in base al merito, 53° nella classifica della Gelmini, con -3.14% di finanziamenti. Come mai? A spiegarlo il prorettore Roberto Sani in un comunicato rilasciato il 24 luglio stesso: il rettore “sulla base dei criteri stabiliti a suo tempo dal ministero, aveva giudicato molto positivamente la posizione dell’ateneo tra le Università italiane. Nel frattempo però sono cambiati i criteri di valutazione per cui il nostro ateneo [..] è tra gli ultimi”.
Anche se la classifica non é molto trasparente, non si tratta certamente del rinomato management made in Italy, “prima ci spartiamo i fondi in base agli equilibri politici, poi penseremo a indire gli appalti o a inventarci i criteri”.
Alla giornalista de Il Messaggero che gli chiedeva un commento sulla controinchiesta dell’Udu, Frati ha risposto: “per il futuro voglio [..] che le cose siano fatte per bene [..] E poi nelle commissioni che hanno preparato i dati, tra i valutatori, c’è anche qualche destinatario delle risorse e questo non va” (22/09/2009). Il Rettore Cuccurullo sembra confermare: “Il 13° posto della d'Annunzio tra le università italiane non mi coglie di sorpresa. In parte lo sapevo già, in parte me lo aspettavo [..] Questi dati io li ho visti nascere in anticipo, dato che conoscevo il meccanismo attraverso il quale si arriva a decidere quale università è di eccellenza e quale no. Tradotto in finanziamenti, questo significa una buona dote premiale in più, il che di questi tempi non guasta proprio” (intervista del 24 luglio pubblicata su primadanoi.it, quotidiano abruzzese on line) .
Se il ministero rendesse pubblici i nomi dei meritevoli che hanno lavorato alla classifica potremmo verificare la fondatezza di quanto ci hanno confermato le nostre fonti: Franco Cuccurullo avrebbe stilato la classifica insieme a Antonello Masia (Capo del Dipartimento per l'Universitá, MIUR) e Marco Tomasi (Direttore della Direzione Generale per l'Universitá, MIUR). Marco Tomasi é stato Direttore Amministrativo prima dell'Universitá di Trento (1°) e in seguito del Politecnico di Torino (2°). Carica che ha dovuto abbandonare il 14 luglio scorso, data della nomina al Ministero. Antonello Masia merita un capitolo a parte (vedi i protagonisti del merito).

Povera Gelmini tre volte ostaggio...

“Non si cambia l’università in un giorno, ma questo è un secondo segnale forte (il primo fu il decreto sui concorsi di novembre) del quale il ministro Gelmini porta tutto il merito” così l'editoriale del Corriere firmato Giavazzi del 25 luglio scorso.
Assai diverso è il quadro complessivo che emerge da questa inchiesta: un ministro incompetente e che conta meno di zero. All’interno del governo la Gelmini è ostaggio del potente Ministro Tremonti che ha già decretato la morte della ricerca universitaria e dell'università pubblica accollandole i costi dell’abolizione dell’ICI e della crisi (dl. 93/2008 e l. 133/2008). La Gelmini è anche ostaggio delle alte cariche del suo dicastero come il Capo del Dipartimento per l'Universitá Antonello Masia e dei potentati di baroni che, in un’estenuante lotta per spartirsi le briciole rimaste, di fatto scrivono e decidono i provvedimenti da adottare. Ovviamente su indirizzo politico del Ministro: “La filosofia cui intendo uniformare l'azione del ministero [..] si fonda sul trinomio autonomia, valutazione, merito, che è anche quanto l'Italia, oggi, si aspetta da noi”.
E' su questi presupposti che il “Disegno di legge in materia di organizzazione e qualità del sistema universitario, di personale accademico e di diritto allo studio” è stato approvato dal Consiglio dei Ministri dello scorso 28 ottobre. Lo stiamo analizzando, alla prossima….

LE PRECONDIZIONI DEL MERITO

Avete mai provato a chiedere ad un cittadino italiano cosa pensa della meritocrazia?
E' molto probabile che vi risponda che è un valido principio e che rappresenta lo strumento ideale per premiare coloro che se lo meritano.
Niente di cui stupirsi, in Italia esiste un atavica fame di merito: una struttura sociale bloccata e nepotistica produce necessariamente, da parte dei giovani, una richiesta di un criterio valutativo”nuovo” in grado di scardinare le attuali gerarchie.
Eppure spesso di merito se ne sente parlare troppo ed a sproposito, il merito rappresenta un concetto “giusto a prescindere” e proprio per questo strutturalmente ambiguo, che può essere mobilitato in difesa qualsiasi posizione: da quella, corretta, di chi vede sminuite le proprie competenze da un sistema iniquo; a quella, profondamente distorta, di coloro che, privi di qualsiasi merito personale, non disdegnano di utilizzare “Il Merito” allo scopo di attaccare ciò che intralcia il loro personalissimo potere: servizio pubblico, scuola, studenti solo per citarne alcuni.
A questo punto, per capire il merito c'è la necessità di fare un passo indietro enumerando le precondizioni materiali in grado di rendere reale il concetto.
In primo luogo il merito presuppone un' uguaglianza sostanziale delle posizioni di partenza, perché i nostri risultati finali siano frutto del nostro lavoro personale occorre che a tutti sia concessa la stessa dotazione di partenza. Questo per quanto riguarda l'università richiede che si provveda a tutte quelle iniziative che rendono reale il “diritto allo studio”.
Per una dimostrazione più precisa vi rimandiamo all'inchiesta ma se avete mai provato a usufruire di un alloggio o a richiedere una borsa di studio o se anche solo siete fuorisede avete certamente provato sulla vostra pelle la “concretezza” del diritto allo studio.
In secondo luogo il merito presuppone una valutazione ed, ovviamente un valutatore; questo apre tutta un altra serie di problemi.
Una valutazione strettamente oggettiva è, per definizione, impossibile e, per quanto sia possibile ed auspicabile l'utilizzo di criteri valutativi trasparenti, sperare nell'imparzialità di una classe politico-amministrativa ostaggio di lottizzazioni, quote di partito, feudi e baronie personali ci sembra quantomeno ingenuo.
In conseguenza di queste due semplici osservazioni possiamo considerare come del merito si senta solo “il profumo” senza mai poterne assaporare la sostanza.
Resta da capire il ruolo concreto dell'ideologia del merito nel sistema contemporaneo per rendercene conto basta uno sguardo ai dati occupazionali dei laureati1.
Ad un anno dalla laurea specialistica non lavora il 37,8 % dei laureati; del restante 62% che lavora il 18 % lavora part time, il 42% finisce nel pantano dei contratti “atipici”ed il 3,5% direttamente lavora senza contratto. A rincarare la dose aggiungiamo sia il fatto che esiste una differenza netta di 300 euro fra lo stipendio medio di uomini e donne a vantaggio dei primi (nonostante il voto delle donne sia, in media, più alto di due punti) sia il fatto che il 45,6 % dei “lavoratori” semplicemente prosegue un lavoro che esercitava prima della laurea.
Da questi dati possiamo renderci conto che in Italia esiste una massa di individui per cui il titolo di studio e le conoscenze apprese hanno ben poca connessione con il lavoro e la conseguente posizione sociale, tutto questo dà l'idea del fallimento completo della laurea quale mezzo per migliorare le proprie condizioni.

A fronte di questo sfacelo l'ideologia del merito sembra essere utilizzata come procedura di “conenimento dei danni”. In pratica se le cause del fallimento sono e restano strutturali (basta un minimo di memoria storica per ricordare gli sfaceli delle varie riforme e riformine) il merito permette di spostare la colpa dell'insuccesso sul singolo individuo: non ti sei laureato in tempo ? La colpa non è del fatto che non hai potuto usufruire di servizi decenti, del fatto che magari hai dovuto lavorare per pagarti gli studi o del fatto che non esistono abbastanza appelli d'esame; no il problema è il tuo non esserti impegnato abbastanza.
Rincariamo ulteriormente la dose.
E' cosa accertata, anche senza citare dati, che in Italia nella ricerca di un lavoro decente contino più le conoscenze personali e familiari che i titoli accademici, è quasi banale parlarne. Tuttavia quello che non è banale è il notare come le richieste di una maggiore meritocrazia giungano spesso e volentieri da persone che si sono ben guardate dall'utilizzare il merito quale criterio guida per la loro ascesa al potere. Come esempio basti considerare le storie personali del ministro Brunetta e della presidente di confindustria Emma Marcegaglia: il deprimente curriculum accademico del primo è stato oggetto di un numero dell'Espresso e per quanto riguarda la seconda, visto e considerato che porta lo stesso cognome dell'azienda che dirige possiamo considerare quali insormontabili difficoltà debba aver affrontato nell'ottenere cotanta posizione di prestigio da parte di suo padre.
Ora, il problema del merito come concetto esiste nella misura in cui l'ideologia del merito impedisce la discussione dei presupposti di una reale meritocrazia; per essere più diretti il problema è costituito da quanti, saliti al potere per ragioni tutt'altro che meritocratiche utilizzano il paravento del merito sia per nascondere l origine della propria posizione sia per disciplinare tutta quella massa di studenti e lavoratori scontenti e sottoccupati rendendoli responsabili di colpe non loro ,onde evitare che queste stesse persone si rendano conto di quanto la responsabilità della loro condizione risieda altrove.
Ora, considerato questo, rimane sempre la solita domanda “che fare?”: abbandonare totalmente il concetto di merito come ideologico ed irrealistico oppure selezionare alcuni correttivi che permettano di sostituire al “profumo del merito” una meritocrazia fattuale?
La risposta è tutt'altro che semplice, travalica lo scopo di questo semplice articolo e, data la sua importanza, nemmeno sarebbe corretto darla in questa sede; in effetti crediamo che la risposta debba emergere dalla discussione fra il giornale ed i suoi lettori, proprio per questo vorremmo che foste anche voi, insieme a noi, a ragionare sul concetto di merito.
Fatelo, mandandoci delle email, raccontandoci cosa pensate sul tema. Le proposte , i problemi segnalati e la discussione che ne scaturirà saranno poi pubblicati.

UN PRANZO IN STATALE?

Avete mai pranzato nella mensa di Festa del Perdono? Beh, non vi siete persi nulla. Gli studenti che studiano e vivono nella grande sede storica della Statale sanno che bisogna tenersene alla larga, se non altro per il fatto che, tutto intorno alle mura dell'ateneo, bar, baretti, pizzerie, kebappari, indiani, piadinerie, etc. offrono a costi minori o uguali cibo di qualità migliore: una per tutti la mensa delle ACLI di Via della Signora , a cento metri dalla mensa dell'università, che per 6,50 euro offre pasti completi.
In realtà la questione è ben più grave.
La possibilità di mangiare un pasto caldo, e buono, ad un prezzo contenuto dovrebbe essere una certezza per gli studenti universitari; e infatti in gran parte degli altri atenei italiani non capita di spendere 7-8 euro per un pasto. In altre città il CIDIS (ex ISU), o chi per lui, si preoccupa di rimborsare gran parte del costo del pranzo: le mense costano come da noi, ma, se si presenta il tesserino universitario, si paga la metà.
E' troppo pretendere che la mensa sia un posto confortevole e di socializzazione? Non hanno diritto gli studenti a mangiare in tranquillità (senza essere cacciati appena finito il pasto), a fare colazione ripassando gli appunti prima di un esame, a discutere di filosofia, storia o geografia sorseggiando una birra in compagnia?
A queste se ne aggiungono alcune che rivelano aspetti più inquietanti: perché le porte di sicurezza della mensa sono sprangate? Come mai la Statale appalta la ristorazione a una ditta scadente, cara e che fa ampio uso di manodopera precaria?
Uninversi ha iniziato il suo percorso sulle mense con una serie di provocatori pranzi sociali a base di cous-cous vegetariano e con un filmato che riprende le uscite di sicurezza bloccate dai lucchetti (primavera scorsa. n.d.r.) che sarà a breve pubblicato sul sito. Ora intende sviscerare il problema con un'indagine approfondita che parta dalle colpe del CIDIS fino al ruolo dell'amministrazione e dell'Aspam (la ditta appaltatrice. n.d.r.).

DIRITTO ALLO STUDIO E SERVIZI AGLI STUDENTI, A CHE PUNTO SIAMO?

L'apertura di un confronto sul tema, negli anni del merito e del traghettamento delle università pubbliche in fondazioni, è questione di sicura in-attualità. Un bilancio disincantato sull'incompiutezza del diritto allo studio (cavallo di battaglia delle mobilitazioni universitarie degli ultimi venti anni) appare oggi altamente improbabile e gli anni dell'opposizione alla riforma Ruberti e del movimento della Pantera sono lontani più che mai. Se la memoria di quell'esperienza sarà consegnata al rituale ingessamento editoriale, la domanda che offre il titolo a questo contributo rimarrà a lungo inevasa. L'esercizio di sovrapporre questo tema “antico” alla vulgata contemporanea in tema di meritocrazia offre però l'occasione per riproporre in termini inediti questa sfida: un'idea organica di diritto allo studio è irriducibile all'idea di accesso universale all'istruzione (progressione delle tasse, borse di studio..); solo integrando un adeguato sistema di servizi ed agevolazioni per gli studenti sarà possibile lavorare sull'appianamento delle molteplici condizioni socio-economiche di partenza.

Da queste considerazioni siamo partiti un anno fa con una scommessa: fare breccia nella questione del “dsu“ giocando su un punto focale differente da quello delle grandi riforme e vicino alla quotidianità del vivere, oggi, in Statale. L'esperienza maturata in seno al gruppo di studio ci ha portato ad elaborare dossier, ad occupare simbolicamente la sala studio più frequentata dell'ateneo, fino a spingere in maniera determinante per la sperimentazione di apertura serale nei tre mesi primaverili1.
La “Statale” gestisce un patrimonio di una ventina tra grandi biblioteche e sale studio ed oltre 130 biblioteche di dipartimento per un patrimonio non solo librario che sarebbe riduttivo definire inestimabile; tuttavia in “Festa del Perdono” solo la “sala A”, 250 posti, resta aperta fino alle 19.30, a seguire...coprifuoco. Una prima valutazione sullo stato dell'arte del sistema bibliotecario può coerentemente poggiare su questi pochi, peculiari dati: grande potenziale culturale ma anche grande inefficienza e totale incomprensione di contesto metropolitano post-moderno.

Fin qui d'accordo ma perché affrontare un tema già vasto a partire da una questione tanto puntuale? Assume qui prioritaria importanza la comprensione delle forme dell'abitare a Milano: quanti di noi sono studenti che condividono stanze in affitto, pendolari, studenti fuori sede o magari equilibristi del doppio e triplo lavoro? E' una città, Milano, che si fa gran vanto di non conoscere pause né feste comandate; allo stesso tempo però le biblioteche rionali chiudono la sera2 (riflettendo perfettamente una patologia storica del nostro ateneo) e non esistono, specialmente col freddo, altri spazi confortevoli e dotati di servizi dove poter studiare.
Alla luce di questo excursus assume nitidezza l'idea di partenza: individuammo tre vertenze simboliche legate alle biblioteche d'ateneo (apertura serale, fornitura di servizi fotocopie ed accoglienza, apertura del dibattito sull'open access) con l'intento di innescare partecipazione a partire da esigenze quotidiane e riflessioni maturate con l'esperienza dell'essere studenti, individui curiosi e insoddisfatti. Metaforicamente quindi, ci siamo approcciati al tema del “dsu” innanzitutto da una sua possibile declinazione (biblioteche e tutto quanto si dipana da questa bella parola) per poi ampliare la prospettiva d'inchiesta ad altri ambiti: la questione della casa, le mense, quindi la mobilità e così via.

Veniamo in chiusura a quella sovrapposizione di campo cui accennavamo introducendo: la metafora della carriera universitaria come “corsa a premi” non ci affascina: la medaglia per il primo arrivato non giova alla crescita collettiva e la squalifica conseguente relega tutti gli altri al ruolo di comparse nel vasto esercito di riserva della formazione universitaria. Come vincere la propria singolare sfida e scommettere sul futuro quando i blocchi di partenza sono sparsi lungo tutta la pista di atletica?

Ecco perché dobbiamo riproporre l'attualità del “dsu” quale garanzia di equità di trattamento ed opportunità (sempre nell'era del merito presunto). Ecco perché vogliamo biblioteche aperte, gratuite e ricolme di servizi, dentro e fuori dalle facoltà; è lo stesso motivo per cui ci ostiniamo a non capire perché i testi fuori edizione non siano resi accessibili gratuitamente in rete. Vogliamo qualità, open access ed un posto accogliente dove coltivare il nostro presente singolare e il nostro futuro collettivo.

CI SALVERANNO I PRIVATI?

Diversi sono stati i provvedimenti legislativi volti a una privatizzazione del sistema università, a partire dalla possibilità per le università di trasformarsi in fondazioni di diritto privato (l. 133/2008), per arrivare alla presenza nel Consiglio di Amministrazione di almeno il 40% di membri esterni (ddl di riforma dell'Universitá). Come si inseriscono questi provvedimenti nel contesto specifico di un paese che, per tradizione, ha sempre investito poco nell'innovazione e nel sistema formativo? Soprattutto come si collocano in questo periodo di crisi economica? Perchè le imprese private dovrebbero investire proprio ora nelle università e nella ricerca? Come avviene e che conseguenze ha l'ingresso dei capitali privati nei bilanci degli Atenei?
Cominciamo con un'interessante esempio di uno dei significati che può assumere la possibilità per le università di trasformarsi in fondazioni di diritto privato.

Una strana fondazione.
Accanto all'Università degli studi Gabriele d'Annunzio di Chieti-Pescara, vi è la “Fondazione Gabriele d'Annunzio”, creata nel 2003 su volere del Rettore Franco Cuccurullo. La Fondazione viene descritta nello Statuto come braccio operativo dell'Ateneo avente come scopo quello di procurare risorse aggiuntive tramite l'acquisizione di beni e servizi alle migliori condizioni di mercato; “questa azione [...] comporterà una notevole riduzione dei tempi di approvigionamento rispetto a quelli richiesti dalle procedure pubblicistiche”. Come mai una riduzione dei tempi? Semplice: evitando le procedure pubbliche di appalto e passando alle chiamate dirette di ditte e tecnici secondo criteri non stabiliti.
Finorà però i finanziamenti ricevuti da enti privati sono stati pochissimi. Il fatto è presto spiegabile notando che nel Consiglio d'Amministrazione della Fondazione i posti riservati a membri esterni sono solo 2 su 8... nessun ente dunque vorrà mai investire un'ingente somma sapendo che poi non avrà il potere di controllarla e gestirla.
Con quali soldi opera allora la Fondazione? Il Consiglio d'Amministrazione dell'Ateneo ha stabilito una dotazione iniziale di 600.000 euro e un contributo annuo di 500.000 euro a decorrere dal 2004. Da dove arrivano questi soldi? Dall'Ateneo (pubblico).
Per finire un'ultima domanda: chi sono gli altri 6 facenti parte del Consiglio di Amministrazione e che dunque gestiscono questo denaro pubblico? Il Presidente è il Rettore Cuccurullo e gli altri membri sono gli stessi docenti che siedono già nel Senato e nel Consiglio d'Amministrazione dell'Ateneo.
La situazione è ben strana: non si capisce infatti l'utilità del braccio operativo se poi il denaro è sempre quello pubblico e le persone che lo controllano sono sempre le stesse.. Unica risposta che sembra realistica è dunque che la creazione di una Fondazione di diritto privato permette di evadere le regole di garanzia, trasparenza, economicità cui sono tenute le amministrazioni pubbliche e poter gestire così in modo privatistico un denaro che è pubblico.

É così che la componente baronale di un'università pubblica può trarre vantaggi, economici e di potere, dalla creazione di una fondazione di diritto privato e foraggiare con denaro pubblico le imprese private che partecipano al sistema clientelare locale.
Continuiamo riflettendo su quali vantaggi ci possono invece essere per imprese o enti privati. Da cosa possono essere spinti per decidere di investire nelle università?Per capirlo vediamo come si configura il rapporto tra impresa e università nel...

...Progetto Axia:
Nestlè e Crui insieme per la ricerca?
Il 27 aprile 2009 viene presentato, presso la sala conferenze della Crui, il progetto Axia, che vede una collaborazione diretta tra le università italiane e la Nestlè (multinazionale nota per violazione dei diritti dei lavoratori e sfruttamento minorile, rinomata per il commercio di latte in polvere, nonché condannata per utilizzo di sostanze tossiche in alcuni imballaggi di alimenti). A partire dal marzo 2008 infatti il mondo accademico è stato chiamato all'appello per presentare progetti di ricerca, riconducibili a uno dei tre temi “Alimentazione, sostenibilità e multiculturalità”, che riceveranno poi i fondi dall'impresa. Complessivamente sono pervenuti 117 progetti di ricerca, da parte di 31 atenei e con il coinvolgimento di 500 docenti.
Ci racconta Decleva, nella prefazione del libro che raccoglie tutti i progetti, che Axia (in greco valore) si basa sullo spirito di una collaborazione innovativa e sistematica tra attività di ricerca scientifica e mondo produttivo volta a concretizzare la conoscenza per produrre sviluppo economico e sociale. Sarà vero?
Fra i 117 progetti Nestlè ne ha scelti quattro, sui temi alimentazione e sostenibilità (casualmente è rimasto rimasto fuori proprio il tema multiculturalità), i quali verranno finanziati nell'arco del biennio 2009/2010 grazie a un investimento già allocato di oltre 1 milione di euro. “Meglio finanziare adeguatamente un numero ristretto di idee piuttosto che finanziamenti a pioggia scarsi per tutti”, dichiara (o si vede costretto a dichiarare?) Decleva. E meglio ancora finanziare progetti “incentrati su argomenti coerenti con le priorità strategiche del Gruppo in area scientifica” -come possiamo leggere nella premessa del libro sopra citato.
D'altra parte la dichiarazione di Manuel Andrés, Capo Mercato del gruppo Nestlè Italia, “Nestlè avvia un percorso che mi auguro possa essere seguito anche da altre aziende desiderose di investire nella ricerca universitaria con l'intento di creare valore per l'uomo e per l'ambiente in cui esso vive” stride leggermente con quello che è il naturale scopo di ogni azienda che si rispetti: generare profitto.
Lo slogan “Nestlè e Crui insieme per la ricerca” sembra celare piuttosto un'opportunità per la prima di salvare la propria immagine, fingendosi interessata a un progetto teoricamente rivolto alla collettività, e un'occasione per la seconda di reperire altrove i finanziamenti venuti a mancare da parte dello stato.
Il nome Axia dunque come creazione di valore per la collettività-come dicono i loro promotori- o piuttosto come messa a valore sul mercato delle intelligenze dei ricercatori che vengono trasformate in prodotti vendibili e acquistabili?

C'è qualcos' altro che può attirare i privati ad entrare nelle università? Certo..

Dopo l'università-azienda arriva l'Università-vetrina.
Inoltre gli immobili di quegli Atenei che hanno le loro sedi nel centro-città offrono una vera e propria passerella e costituiscono un ottimo investimento per l'immagine di un'azienda.
Fu così che nell'aprile 2009 il cortile della sede di via Festa del Perdono si trasformò in una vetrina che metteva in esposizione le avveniristiche installazioni curate da Interni.
L'università che ha sede nella capitale italiana della moda, per mantenere il bilancio in attivo, ormai concede gli spazi dello studio e della libera ricerca a eventi mondani, esposizoni private, cartelloni pubblicitari.

Il debito con le banche convertito in capitale degli azionisti
La possibilità di gestire il patrimonio immobiliare degli Atenei, terreno fertile per ogni tipo di speculazione edilizia, si rivela piuttosto allettante. Quando nel 2010 la Statale di Milano avrá un bilancio in passivo per 30 milioni di euro, come potrá pagare gli stipendi? Ricorrendo a prestiti dalle banche. Su quali garanzia? L'unica garanzia che puó offrire sono gli immobili. Peggiornado ulteriormente il bilancio col passare degli anni, non é fantascienza l'ipotesi della trasformazione della Statale in una fondazione di diritto privato in cui il debito contratto con le banche diventa il capitale degli azionisti (le banche).

Se da un lato dunque il cosiddetto baronato continua a gestire il poco denaro pubblico rimasto, dall'altro gli enti privati entrano nelle università solo con finanziamenti mirati e solo per inseguire particolari interessi economici e non certo con un sistema di finanziamento che possa sopperire ai pesanti tagli ai fondi pubblici. All'orizzonte la minaccia delle fondazioni private dove le banche, creditrici, diventano azioniste di maggioranza.

I SILENZIOSI COLTELLI DI CASA CRUI

I SILENZIOSI COLTELLI DI CASA CRUI
Come è possibile che prima che l'Udu pubblicasse i dati dell'inchiesta, nessuna tra le università colpite, tranne quella di Parma, si fosse accorta dei “misteri” della classifica? In seguito qualche rettore ha rilasciato dichiarazioni piuttosto dure, la Cgil-flc ha chiesto chiarimenti, ma a fine settembre tutti sembravano essersene già dimenticati. Intervistato lo scorso 24 luglio Frati, rettore de La Sapienza, si è limitato a criticare l'utilizzo di dati vecchi, senza mettere in discussione la classifica stessa. Decleva, presidente della Crui e rettore della Statale di Milano, non ha speso una parola a riguardo.
Forse non tutti sanno del silenzioso conflitto per la presidenza della Crui, che le nostre fonti ci informano essersi consumato tra Decleva e Frati. Il secondo mandato del Rettore della Statale sarebbe dovuto scadere lo scorso 30 settembre. Siccome lo Statuto pone il limite di due mandati, Decleva avrebbe dovuto abbandonare anche la presidenza della Crui. A cavallo tra il 2008 e il 2009 a Milano si é discusso se fosse opportuno modificare lo Statuto ad personam. Nel frattempo Luigi Frati, decisamente piú vicino al governo, si stava organizzando per prendere il posto del rivale milanese. Gli undici rettori delle universitá lombarde non hanno esitato a schierarsi col Magnifico scrivendo al Senato Accademico della Statale. “Si avvicina il dibattito politico sulla riforma della governance degli atenei e cambiare ora la guida della Crui sarebbe dannoso” ha spiegato il Rettore Fontanesi (Bicocca) a Repubblica il 29 dicembre . Infine, nonostante le iniziative di protesta dei collettivi, il 20 marzo il Senato della Statale ha modificato lo Statuto. Come mai la modifica, confermata con decreto ministeriale, non ha suscitato nessuno scalpore al ministero? Come mai la Gelmini ha preferito avere al tavolo della riforma un rettore “ostile” rispetto a uno “allineato”? Decleva non ha mai risposto a queste domande rivoltegli dai collettivi, ció che é certo é che La Sapienza si é trovata con quasi € 11 milioni in meno. Non ha risposto nemmeno all'invito rivoltogli ufficialmente dal Consiglio della Facoltá di Scienze Politiche di Milano lo scorso 10 febbraio a illustrare “il programma che intende proporre per il biennio di prolungamento del Suo mandato rettorale, nonché i provvedimenti di riforma delle governance dell’Ateneo che gli consentano di svolgere efficacemente entrambi gli impegnativi ruoli di Rettore [..] e di Presidente della CRUI”. I tagli all'universitá restano e secondo alcune indiscrezioni il bilancio della Statale sará in rosso di € 30 milioni giá dal 2010.

LA CLASSIFICA DEGLI ATENEI VIRTUOSI

LA CLASSIFICA DEGLI ATENEI VIRTUOSI
24 luglio 2008. Stando al comunicato del Ministero e alle prime pagine dei quotidiani, è stato il giorno della rivoluzione nel sistema universitario. Repubblica: “Università, scatta la rivoluzione: più finanziamenti agli atenei migliori”; il Corriere: “Più fondi agli atenei migliori. La lista dei 27 centri virtuosi che riceveranno € 525 milioni”.
Tuttavia il ministro Gelmini ha semplicemente firmato una serie di provvedimenti attuativi della l. 1/2009 (salvo quelli per il potenziamento del diritto allo studio). Ha sbloccato i concorsi indetti nel 2008 per la felicità dei baroni che già si stanno accordando nei dipartimenti per decidere chi far passare (con quali soldi?). Ha stabilito i criteri per la ripartizione del 7% del FFO per il 2009 (523,5 mil. €) peraltro con mesi di ritardo rispetto al 31 marzo, limite previsto dalla l. 1/2009. Ancora piú in ritardo (il 23 settembre) é arrivato il decreto che ha effettivamente sbloccato i fondi per l'anno in corso.
I rettori delle università penalizzate hanno rilasciato dichiarazioni molto critiche, sottolineando l'arbitrarietà dei criteri utilizzati per valutare il merito e la qualità. Meno critici i rettori degli atenei virtuosi, come il Rettore di Trento, prima in classifica: “Lavorare premia: in Italia è una eccezione ma questa volta è successo”, o il Rettore dell'Università di Chieti, tredicesima: “Il 13° posto della d'Annunzio tra le università italiane non mi coglie di sorpresa. In parte lo sapevo già, in parte me lo aspettavo”. La corporazione docente sembra sconfitta: ogni Rettore commenta comprensibilmente la prestazione del proprio ateneo a seconda della posizione in classifica.

C'E' QUALCOSA CHE NON QUADRA
Sembrerebbe una classifica rigorosa e imparziale, che ha premiato chi se lo meritava. Tuttavia qualcosa non quadra... Come mai il ministero non ha mai divulgato le tabelle riassuntive e di confronto per tutte le università? C'è la classifica ma non i dati...... Quello che sappiamo é poco rassicurante: € 172.76 milioni sono stati assegnati in base a dati raccolti dal Civr piú di sei anni fa, nella valutazione triennale della ricerca 2001-2003. Molto discutibili anche gli indicatori scelti per misurare la qualitá della ricerca e la qualitá della didattica come il rapporto tra il numero di insegnamenti per i quali è stato richiesto il parere degli studenti ed il numero totale di insegnamenti attivi , o la percentuale di laureati 2004 occupati a tre anni dal conseguimento del titolo.
La classifica lascia qualche dubbio... E' strano vedere cosí distanti la Statale di Milano (11°) e La Sapienza di Roma (42°).

CHIETI -PESCARA COME OXFORD?
Qualcos'altro non quadra.... L'Universitá di Chieti e Pescara é 13°. Dal Rapporto del 2008 sullo Stato del Sistema Universitario apprendiamo che la metà degli immatricolati all'ateneo non residenti in Abruzzo, “risultano immatricolati dopo sei o più anni di distanza dal conseguimento del diploma di maturità. Ciò potrebbe essere dovuto all’effetto di specifiche convenzioni per il riconoscimento di crediti relativi ad attività lavorative pregresse”. La conseguenza? Nel 2007 il 53,3% dei laureati all'Universitá di Chieti, ha coneguito la laurea precocemente. Ovviamente il rapporto tra il numero di crediti conseguiti e il numero di crediti previsti é uno degli indici della qualitá della didattica usati dal ministero. E' strano che Giavazzi non si sia stupito di vedere l'ateneo abruzzese cosí in alto nella classifica. Come ha potuto dimenticarsi il divertente articolo di Stella e Rizzo del 26 ottobre 2008 intitolato “Universitá, il business dei laureati precoci. La metá negli atenei di Siena e Chieti”?
Il prof. Cuccurullo non ricopre solo l'incarico di rettore della Oxford abruzzese dal 1997 (attualmente é al quinto mandato, lo Statuto non pone limiti): dallo stesso anno è anche Presidente della II sezione del Consiglio Superiore di Sanità; é presidente della fondazione privata G. D'Annunzio finanziata generosamente dall'ateneo ma anche da molte case farmaceutiche ; é presidente per Statuto del CdA dell'universitá telematica Da Vinci; dal 2001 é presidente del Civr. Naturalmente Chieti fa parte dell'Aquis. Non ci stupirebbe scoprire che una persona cosí qualificata e meritovele abbia anche stilato la classifica.

MANUEL CASTELLS: IL POTERE DELLA COMUNICAZIONE

Trovarsi a recensire un libro che parla di potere, comunicazione e democrazia, devo ammettere, fa un certo effetto, non solo per l' anomalia della situazione italiana, ma anche per il fatto che quella stessa anomalia è discussa senza tutte quelle cortesie e quelle occhiute censure che in Italia hanno addomesticato il dibattito relativo alla questione.
Nella sua più intima essenza il libro di Castells è un analisi ferocemente impietosa dei meccanismi di produzione della politica nell'era della comunicazione: tratta di soldi, potere e di come, per ciascuno di noi, sia molto più facile credere a tutti quei discorsi che non mettono in questione la miseria delle nostre comode verità preconcette.
Il potere della comunicazione non è tanto la possibilità di far passare notizie più o meno “false” ma quello di creare un contesto, un frame emotivo entro cui poi le notizie verranno interpretate. E' una questione di parole, non di sostanza: un' invasione diventa una guerra al terrorismo e, per ritornare alle vicende di casa nostra, un criminale conclamato diventa un perseguitato politico.
L' importante non è tanto che la notizia sia ritenuta vera in sé, l' importante è che la notizia produca, tramite il gioco dei contesti e dei frame, una popolazione che vuol credere a quel tipo di notizia, e che intrecci le proprie vite con la narrazione proposta al punto di arrivare a diventare un tutt'uno con la finzione.
Se tutto questo vi sembra familiare è perché lo è: è la descrizione scientifica della “bolla di realtà” italiana dove pur in mancanza di una costrizione formale il potere berlusconiano viene riprodotto da quanti scelgono di nascondere le miserie della propria esistenza dietro alla narrazione di un mondo scintillante.
Ancora più rivelatore è il capitolo che parla della politica degli scandali, in questo ambito la teoria di Castells è molto semplice. Lo scandalo, oltre a servire come consolidata arma di lotta politica, per alcuni produce un beneficio aggiunto molto semplice: l'erosione della fiducia nel sistema politico in toto non implica l'erosione della fiducia in ciascun uomo politico, alla prova dei fatti determinate persone possono anche costruire la propria credibilità su un mare di fango...sono appunto quelle persone che sono state in grado di attivare su se stessi dei frame comunicativi efficaci, in grado di regalargli la ragione a prescindere.
A questo punto ci tengo a precisare che il libro non parla, se non di sfuggita, di Berlusconi, bensì si limita a delineare una teoria di potere e comunicazione nell'era neoliberista, e da questa analisi emerge per contrasto il carattere esemplare dell'autoritarismo comunicativo italiano.
In questo senso, molte delle riflessioni che ronzano nella testa di chiunque abbia ancora conservato padronanza del proprio cervello, troveranno in questo libro pane per i loro denti assieme ad alcune soluzioni proposte per uscire dall'impasse che, anche se esistono quasi esclusivamente a livello virtuale, meritano di essere indagate ed approfondite.

NORMALIZZARE. NARCOTIZZARE. CONSERVARE. QUEGLI ANNI SONO ANCORA TRA NOI.

Milano, 40 anni dopo, non è più la stessa. Noi non c’eravamo, ma lo capiamo che era tutta un’altra città. Sono i racconti “dei grandi” a farci immaginare Piazza Duomo invasa dalle auto, i capelloni con l’eskimo che si avviano verso la Statale. Anche Piazza Fontana è cambiata. Per noi è una tranquilla rotonda con panchine, dove sembra quasi di essere a Milano.
Ma il 12 dicembre 1969 l’Italia si è svegliata sotto una valanga di morti ed ancora oggi ci si interroga su perché, da quel giorno, si sia dovuto fare i conti con la paura e con la morte.
Quel giorno d’autunno si è proiettato, come le schegge assassine di quel pomeriggio, nel presente, lasciando dei segni indelebili.
Disincanto, arretratezza economica e sociale, incapacità di analizzare il tempo presente con distacco e scientificità, la sensazione che il Potere costituito sia tramandato immutato e immutabile, la nascita dei fenomeni di antipolitica come reazione alla “scomparsa” della politica.
E se lontani sono ormai gli anni dell’immaginazione al potere, la sfiducia nel futuro è un elemento caratterizzante delle nuove generazioni di “professionisti del precariato”.
Questa fosca situazione ci ha spinto a domandarci dove tutto ciò abbia avuto origine.
L’Italia che esce dalla guerra è un Paese malconcio, ma già 10 anni dopo si parla di boom economico: aumento dei consumi, vitalità e partecipazione politica, volontà di trasformazione. Sono tutti sintomi di un Paese che cresce.
Le prime battute d’arresto arrivarono verso la metà dei Sessanta, con la fine del boom, il Piano Solo, il fallimento del centrosinistra, e consegnarono ai sessantottini un Paese ormai in bilico tra voglia di cambiamento e volontà di conservazione.
La contestazione giovanile fa paura, quando si trasforma in scontro di piazza genera ondate di dura repressione. E mentre cresce anche il movimento operaio, che ben presto presenterà istanze di cambiamento, determinate forze reazionarie e conservatrici si misero in moto per bloccare la spinta dal basso.
Il 25 aprile ‘69 esplodono 2 bombe a Milano, una alla Fiera campionaria, l’altra alla Stazione Centrale. Nella notte tra 8 e 9 agosto dello stesso anno, ben 10 ordigni deflagrano su altrettanti treni, in tutta Italia.
Alla riapertura delle fabbriche, prende avvio un’intensa stagione di vertenze, scioperi, occupazioni: sarà l’autunno caldo, ma nessuno sembrerà accorgersi che si sta tentando di stroncare la grande mobilitazione; tutto ciò finisce, infatti, per appoggiare quanti sostengono che il pericolo comunista non sia più ignorabile, facendo leva su paure e angosce mai sopite.
E’ in questo clima che la bomba del 12 dicembre, con il suo devastante carico di morte, si porta via 16 vite e lascia un solco profondo nell’Italia intera.
Ma se l’obiettivo era fermare lo spirito di trasformazione di quella stagione di grandi lotte sociali che andava aprendosi, esso in un primo momento fallisce.
Durante i funerali delle vittime, Milano risponde con composta fermezza; quel giorno, migliaia di persone si ergono, consapevolmente o meno, a difesa della libertà. Anche i 3000 che partecipano ai funerali di Pino Pinelli fanno da monito a qualsiasi tentativo di svolta autoritaria.
La strage segna però una degenerazione, un progressivo imbarbarimento del modo di far politica, che scivola dal piano del conflitto sociale a quello dello scontro armato, innalzando sempre più la tensione.
Già, la strategia della tensione, che passa dalla fase teorica alla fase d'attuazione iniziando un lento lavoro di logoramento delle coscienze, soprattutto di chi si oppone alla normalizzazione e alla conservazione.
Le bombe nelle banche, nelle piazze, sui treni, il golpe strisciante, la guerra civile a bassa intensità.
Dalla stagione delle bombe si passa agli anni di piombo; il mostro terrorista generato dall’odio e dalla violenza si nutre dell’odio e della violenza che ha generato, assurto ormai a fenomeno endemico della società italiana dopo più di trent’anni di presenza sulla scena nazionale. Sangue versato, stillicidio quotidiano di morti, violenza inoculata giorno per giorno e che diventa il veleno che negli anni addormenta le coscienze.
Prima lo stragismo, poi il terrorismo infergono duri colpi ai movimenti dei Settanta, edulcorandone man mano la capacità e la volontà propositiva, innovativa rispetto una società che non chiedeva altro che normalità.
In questo senso la strage di Piazza Fontana rese possibile avviare una stagione che ha prima arginato (e normalizzato) la situazione; poi ha posto le basi per la conservazione della società grazie anche ad una graduale narcotizzazione del pensiero collettivo anticonformista e ribelle.
Per tutti questi motivi il 12 dicembre 1969 segna uno spartiacque. Piazza Fontana diviene snodo cruciale tra due stagioni che spaccano la storia recente del Paese. Prima e dopo. Perciò quegli anni sono ancora tra noi.
Ora abbiamo la possibilità di analizzare, sezionare, capire quelle radici che molti si affannano a seppellire, e che fa dire alla maggioranza degli studenti di oggi che la strage di Piazza Fontana è opera delle Brigate rosse.
Studiare Piazza Fontana significa capire le ragioni dell’oggi e attrezzarsi diversamente ad affrontare un futuro che, senza le dovute correzioni, potrebbe rivelarsi molto più nero di quello che l’Italia ha affrontato all’indomani della strage.
Ecco, questo quarantesimo potrebbe essere l’occasione per cominciare a risalire la china.

SIMONE SARASSO E DANIELE RUDONI: UNITED WE STAND

Fantapolitica: un modo diverso di immaginare il futuro e contemporaneamente di riflettere sul passato. Tra storia e fantascienza, dove l’esigenza non è né quella di raccontare o reinventare fatti già accaduti, né quella di mostrare la nave stellare di sorta, ma, in questo caso, quella di rendere credibile una guerra civile.

Anno 2013, il conflitto nucleare, scongiurato durante la guerra fredda, esplode tra Cina e Stati Uniti.
Italia, vittoria delle sinistre e del primo presidente donna alle elezioni. Colpo di stato militare delle milizie di Ultor, retaggio di certi apparati mai soppressi in passato.
Così si apre la graphic novel United We Stand, firmata Simone Sarasso e Daniele Rudoni.
Questo lo scenario, così apocalittico, ma allo stesso tempo così verosimile, del thriller fantapolitico in cui si sviluppano le storie dei 4 personaggi principali: Stella Ferrari, neo-eletta presidente del consiglio, la figlia Giada, Andrea Sterling, comandante dei golpisti e Ettore Brivido, rapinatore pluri-ergastolano, che quasi quasi ci ricorda Vallanzasca.
La narrazione si snoda tra flashback che toccano snodi cruciali della storia italiana (lo scoppio della bomba in Piazza Fontana, la scoperta di Gladio), omaggi ai poliziotteschi dei Settanta, il “presente”, cioè la resistenza al golpe militare, fino all’ultima inaspettata svolta.
Opera che mescola sapientemente cinema, letteratura e fumetto, sfruttando a pieno la libertà narrativa che quest’ultima forma consente, ricollegandosi al mondo parallelo creato da Sarasso nei suoi romanzi Confine di Stato e Settanta, in cui racconta una storia parallela del nostro paese tra servizi segreti, stragi, terrorismo e politici bastardi (vi suona familiare?).

ESSERE POESIA A MILANO #0

“C'era una volta un Uomo Comune che camminava sul mondo con una sensazione lieve in tasca;
non riuscendo ad esprimerla, si ritrovò soltanto più pesante di prima, come incapace di usare una moneta d'oro pur sentendola tintinnare nei pantaloni.”

Questa rubrica è nuova-nuova, è la numero zero, si fa pomposamente chiamare “Rubrica di Poesia”.
In teoria sarebbe mio dovere introdurvi le linee guida di questo spazio, presentarvi i suoi limiti e i suoi confini e le sue finalità quasi fossero i lati di un rettangolo, ben definiti ed asettici come un'incisione sul campo operatorio.
In pratica, però, non vi spiegherò nulla, perché per farlo dovrei enunciarvi il concetto di Poesia, nello stesso modo sterile e brutale con cui la definiscono i dizionari: “l'arte di comporre versi”.
Assurdo. Assurdo ed inconcepibile come il senso di quei fiori gialli che crescono tra i binari del treno.
Ditemi voi: come posso spiegare in poche righe che il poeta non ha bisogno di nessuna divinità perché gli basta vedere la nebbia alzarsi dalla campagna, due amanti su una panchina o l'autunno degli alberi per sentire la sua anima colmarsi e diventare cielo e primavera e sole e luna e farfalle e nuvole e terra e fiori tutto insieme e allora deve scrivere, scrivere, e scrivere ancora perché altrimenti gli sembra di aver le vene tanto piene da non poterci far stare nemmeno il sangue che scorre nel suo corpo?

Per essere Poeti basta così poco, un foglio, una penna e una Sensazione Lieve.
Dimentichiamoci gli endecasillabi e le rime baciate, AABBCC, le quartine e le terzine, la metrica, l'onomatopea e l'esametro.
Facciamo finta che non esistano e sentiamoci semplicemente poeti col nostro paio di emozioni in tasca e il vuoto sotto lo sterno.

Questa rubrica è uno spazio aperto, autogestito ed auto-evolvente, senza odiose pretese di torto o ragione, senza i presunti dettami della scrittura creativa, senza critiche e senza nomi altisonanti, perché è proprio così che mi piace immaginare la libera espressione di quei sentimenti resi musica dalle lettere e dalla punteggiatura e dall'aria che corre in gola di chi li legge ad alta voce.

Questa rubrica appartiene a chi ci scrive, perciò inviate le vostre opere all'indirizzo: tappetoletterario@libero.it

Aut-umn.
Stridono le tapparelle mentre vengono abbassate
e languiscono le marmitte
sbriciolandosi nella ruggine dell’usura;
percorrono i viali dove piovono le foglie come riso sul capo fiorito di sposa.

L’autunno, ospite sgradito, preme il viso sui vetri delle finestre
macchiando di sebo e unto la pulizia recente;
facendosi schermo dal riverbero con la mano a coppa
tenta di penetrare le intimità domestiche, raffreddando le ossa e calcificando le preoccupazioni.

Si cammina calpestando l’estate
che geme sotto i tacchi dei primi stivali pesanti;
la detestabile intransigenza così poco primaverile
fa capolino dalle agende colme di impegni e doveri.

E corrono i bambini nei cortili delle scuole
evitando le madri con i maglioni nelle mani
e bevono avidi le ultime tiepide brezze
catturando con le dita le farfalle inebetite.

Tra i precoci densi fumi di fiato
si consuma violenta la mia gioia;
mai sono stata così coerente con il tutto:
già marcia dentro, mentre fuori ingialliscono le piante.

L’ITALIA NON E’ UN PAESE PER GIOVANI

L’ITALIA NON E’ UN PAESE PER GIOVANI

Se guardiamo alle politiche di welfare, poco viene fatto per tutelare le nuove generazioni: nessuna forma di tutela contro la precarietà, nessun ammortizzatore sociale, nessuna politica attiva per l’inserimento lavorativo o per scardinare la gerontocrazia. Non esistono, o quasi, neanche politiche abitative, di sostegno alla mobilità e alla cultura, politiche per un reale diritto allo studio. Le politiche giovanili sembrano solo ricalcare forme di repressione e controllo, mentre gli aspetti educativi e promozionali slittano inevitabilmente in fondo all’agenda politica.
I numeri parlano da soli: dai dati emersi dal terzo rapporto dell’Osservatorio giovani della Provincia di Milano in relazione alla quota di bilancio comunale dedicata ai giovani, si evidenzia che la cifra dedicata alle politiche giovanili oscilla tra lo 0,005% e il 2%, collocandosi mediamente attorno allo 0,3%.
Nell’ultimo periodo si sta andando anche oltre. I giovani non sono solo dimenticati, ora sono diventati anche un problema. Un problema di ordine pubblico, si direbbe. Milano, purtroppo, non fa eccezione. Non solo i luoghi politicamente attivi come i centri sociali sono sotto attacco ma anche i semplici luoghi di aggregazione, come i circoli Arci, i locali, le piazze, i parchi, le panchine…
Qualsiasi luogo diventa potenziale fonte di conflitto, con i vicini, con la cittadinanza, con le autorità comunali … Il messaggio è chiaro: i giovani non devono disturbare, non devono poter vivere.
E’ ormai evidente che solo il valore economico delle nuove generazioni conta, nella sua doppia veste: quando i ragazzi sono consumatori, facilmente condizionabili dalla moda e con grosse possibilità di spesa (attingendo dal portafoglio di papà) e quando sono, invece, manodopera gratuita o senza tutela nei vari stage e contratti a tempo determinato.
Per il resto, nessuna loro esigenza è presa in considerazione, men che meno quella di trovarsi, socializzare, uscire dalla triste solitudine individuale che a 20 anni neanche la migliore programmazione televisiva può colmare.
Qualcosa però si muove in città: oltre a tutte le centinaia di luoghi che ogni giorno resistono ai continui attacchi, negli ultimi mesi è partita una campagna dal nome significativo: “Milano Movida, Milano mi vida”.
L’obiettivo è quello di riportare alla ribalta l’esigenza, che è di tutti, di poter vivere la città, farla propria, non vederla morire sotto le politiche repressive dell’Amministrazione Comunale e sotto le luci dello splendore consumistico, che a Milano ha trovato la sua patria.
Gli episodi di repressione, a Milano, sono molti e variegati, purtroppo.
Si parte dallo sgombero del Cox18, si passa attraverso le transenne sulla collinetta del Mom, la chiusura di alcuni locali “storici”, per finire con le camionette della celere in Piazza Leonardo per l’ultimo botellon estivo. Recentemente il Comune ha messo all’asta nello stesso lotto gli immobili dove hanno sede il Torchiera, il Cox18, il Ponte della Ghisolfa, la Fai e l’Arci Bellezza.
Il tema degli spazi diventa un tema sì politico, ma che travalica ogni schieramento, ogni parte, perché drammaticamente coinvolge tutti, o almeno tutti coloro che non si accontentano della socializzazione che si fa merce, pagata con un biglietto da 25 euro e selezione all’ingresso. La campagna, come prevedibile, ha trovato tra i suoi primi oppositori proprio le autorità cittadine, che preferiscono screditare gli organizzatori come “un gruppo di attivisti dei centri sociali”, tentando così di circoscrivere le rivendicazione a una minoranza organizzata, piuttosto che realmente affrontare le richieste che vengono poste e provare a proporre delle soluzioni.
Questa campagna probabilmente non risolverà il problema, ma ha almeno il merito di aver puntato un riflettore sul tema, e l’aspirazione a voler coinvolgere tutti i giovani di questa città.
La reale efficacia della campagna probabilmente non sta solo nel numero di persone che si riusciranno a coinvolgere, ma nella capacità di risvegliare una città e una generazione, che sembrano ormai sempre più assuefatte e rassegnate.

UNA PROSPETTIVA, UN FUTURO, UNA PRESA PER IL CULO

Per quanto si possa detestare l'attuale condizione delle accademie italiane, valutandole come una sfera di problematiche liquidate dalla più comune considerazione "tanto sono artisti", bisognerebbe spolverare i vecchi ammuffiti gessi, ai quali viene assegnata una potenzialità culturale ed espressiva devastante, anacronistica e becera, ma che racchiudono le speranze, purtroppo, di molti studenti.

1999, Bologna process, do you know?
Quando tra studenti si vocifera processo di Bologna e 1999 il riferimento più diretto va alla catastrofe 3+2 e a tutte le conseguenze che ne derivano. Ma mentre tutti gli studenti europei fanno questa associazione, per gli studenti delle accademie italiane la questione è diversa, il processo di Bologna non ha solo rappresentato una modifica della struttura, bensì una grandissima illusione. Nel nostro caso si chiama riforma a costo zero e legge n°508. Il 3+2 ha dato la possibilità all'Accademia di Belle Arti di Brera di offrirsi come "illustre accademia pilota", terreno di sperimentazione. Il progetto ha consentito l'apertura di corsi importanti, ma ha creato una voragine precaria completamente instabile dove gli studenti ogni anno si devono confrontare con l'incertezza del proseguimento del loro percorso di studio. Una condizione che all'interno di certe istituzioni, oggi come oggi, è diventata la consuetudine. Chi ha diretto l’Accademia fino ad ora non ha perso tempo per sfruttare la situazione, e far diventare questo terreno incerto, barcollante e poco controllato, un campo di sperimentazione per il parentato. "Dividetene e abbiatene tutti" sembrava dicessero, ma è il significato di “tutti” che ancora sfugge. Sono le stesse persone che dividono e si dividono e che appena possono alzano la bandiera al fianco degli studenti per richiedere a gran voce il riconoscimento della nostra classe di laurea. Infatti la l. 508/1999 permetteva l'equiparazione del titolo di studio rilasciato dalle accademie ad un titolo universitario, ma la sua attuazione è stata in pieno stile made in Italy: a metà e incompleta. Attualmente siamo in possesso di un diploma accademico equipollente ad una laurea generica senza specializzazione. Solo da poco tempo, dopo 10 anni, cinque disegni di legge vengono discussi al senato per il completamento della riforma AFAM.

Una prospettiva, un futuro, una presa per il culo.
Ma le illusioni non finiscono qua, questo è solo il racconto della sfiga più accessibile, gli articolati e complessi castelli di carta sono ben più radicati, acqua e vento non li scalfiscono, le loro fondamenta sono in tutti noi, in una opinione obbrobriosamente condivisa: l'artista è il punto d'arrivo, l'accademia la strada da percorrere, il quadro ed il pennello le armi per interpretare la realtà, la contemplazione lo strumento divino dato all'artista possessore di visioni altre che grazie alla sua mano apre porte verso la verità.
Niente di più falso e fuorviante, la sottile linea che divide il patetico dall'irrecuperabile è spesso ben vestita. Ben truccata e tentatrice propone fama e ricchezza. Gli studenti delle accademie carichi di nobili intenti intraprendono il loro percorso di studi certi di affrontare tematiche immortali, intoccabili, apollinee, accessibili solo grazie ad una meticolosa conoscenza dei misteri dell’espressione umana. Studiano così forme, concetti, processi, offrono lavoro in cambio di considerazioni, si danno in pasto alle opinioni incastrandosi così nel mercato finanziario più invisibile ed immateriale. Il tutto è ben mascherato dall’etichetta, marchio prestigioso, e condito da una retorica che vende un’illusione agli studenti che sognano ad occhi aperti di un prestigio senza sostanza.

IN DIREZIONE OSTINATA E CONTRARIA

Troppe volte si sentono i media o le autorità attaccare gli artisti di strada riempiendosi la bocca di parole come “graffitari” (se va bene) o “imbratta-muri”, “vandali” senza però sapere in realtà di cosa stanno parlando... Questa rubrica si propone di introdurvi al complesso mondo dei graffiti e più in generale dell’arte di strada, focalizzando la vostra attenzione su questi esteti oltremodo bistrattati e sulla loro produzione artistica. Preciso subito che la street art non ha nulla da spartire con le scritte della Lega, anche se non ci si è mai spiegato come mai quelle non siano mai oggetto di critiche né di sanzioni!

Il difficile rapporto con la società e le istituzioni
Il titolo della rubrica, racchiude già in sé molte componenti di questa arte, che oltre ad un mero lavoro di pittura, ha come retroterra una mentalità di rottura con la società. Evitando di generalizzare, questi artisti sono molto lontani dai soliti schemi e dalla logica del profitto, un po' come K. Haring che, munito di un gessetto, era capace di dipingere un cartellone pubblicitario per strada, mentre le sue opere valevano migliaia di dollari.
L’arte di strada è molto particolare anche per la sua eterogeneità, che impedisce di delimitarne i confini in maniera univoca, tant’è vero che nessun gruppo di artisti ha dato vita ad un manifesto della Street Art. Questo fatto si ricollega al voler uscire dagli schemi di una società come la nostra che, ormai, ti dice come compiere ogni singola azione della tua vita, oltre che come pensare, portando quindi all'abbrutimento totale del concetto di originalità. I murales puntano invece proprio a colpire per la loro stravaganza, che può anche essere dettata dall’estrema semplicità della linea. Alcuni artisti infatti creano disegni quasi infantili, ma che in realtà celano dietro di sé uno studio accurato ed un’abilità non dissimile da quella che veniva nascosta dai corti versi di Ungaretti. Altri invece puntano a risvegliare gli animi creando volutamente reazioni, talvolta anche con disegni di non facile comprensione. Ma soprattutto non si pongono mai limiti, né nel creare né riguardo dove creare, quasi ogni superficie diventa una tela i cui limiti di spazio sono dati solo dalla mente dell’ “imbratta-muri”.
Tutti questi motivi rendono di difficile comprensione agli occhi dei profani l’operato di questi pittori, causando quindi seri problemi anche nel rapportarsi con le autorità. D’altra parte le istituzioni, invece di capire i meccanismi e le idee che permeano quest’arte, ne fanno un bel fascio e gli danno fuoco in blocco. Ancora una volta quindi assistiamo alla repressione indiscriminata che si sostituisce ad un eventuale dialogo. Ma l’estro degli artisti è, come al solito, ostinato e contrario a farsi incatenare, è infatti solo grazie alla loro perseveranza se negli anni recenti si sono inaugurate mostre come “Street Art, Sweet Art” tenutasi a Milano nella primavera del 2007. Occasioni quindi per far nascere un effettivo scambio di idee, ma ancora troppo sporadiche perché qualcosa cambi.
La linea politica tenuta dall’Amministrazione Moratti lo ha ampiamente dimostrato, basandosi sulla tolleranza zero invece che sul dialogo (a parte l’eccezione costituita da Sgarbi, il cui vero intento è forse più cavalcare un’onda che difendere realmente delle opere). Un esempio di questa repressione è costituito dalla rovinosa campagna "I lav Milano". Rovinosa perché l’obiettivo di coinvolgere i cittadini nella pulizia di Milano è fallito, mentre la spesa per pagare le ditte appaltatrici delle operazioni di pulizia dei palazzi ha superato la colossale cifra di 25 milioni di euro, senza riuscire peraltro nell’intento. Sorgono quindi delle domande. Perché curare sempre l’aspetto e l’immagine invece della sostanza? Perché non cercare di risolvere i problemi in maniera costruttiva, ma reprimere soltanto? E soprattutto in una città come Milano in cui gli spazi aperti a tutti sono pochi e i mezzi pubblici sempre più inefficienti perché non usare quei soldi per il loro potenziamento con beneficio di tutti?

UNA LETTURA ECOLOGICA DELL'ECONOMIA

Nell' avvicinarmi a una materia complessa come quella dell' ecologia mi sembra doveroso rubare un po' di spazio per spiegare quale è il punto di vista da cui il tema verrà affrontato. La vastità degli argomenti e degli approcci che si possono raccogliere sotto l'ombrello dell'ecologia richiede infatti una precisazione. Interesse di questa rubrica è principalmente approfondire i molti livelli della relazione tra l'ecosistema terra nel suo intero e le società umane che ne fanno parte. E' sicuramente fondamentale studiare queste società attraverso le strutture economiche su cui si basano, ma non bisogna neanche dimenticarsi di considerare il complesso sistema di valori e lo stile di vita che le caratterizzano.

Superare l'economia convenzionale
Già la considerazione che il sistema economico non sia un mondo astratto e a se stante, ma piuttosto un sottoinsieme del più ampio sistema ecologico non è banale come può sembrare. Ancora oggi l'economia continua ad essere insegnata e concepita dalla grande maggioranza di docenti ed esperti come un materia disciplinata esclusivamente dalle sue leggi dell'utilità marginale e delle preferenze individuali, non tenendo minimamente in considerazioni le leggi fisiche della trasformazione della materia e i limiti dello sviluppo.
Il nodo teorico più importante per dare una lettura alternativa qui è l'entropia, concetto preso in prestito dalle scienze naturali e più in particolare dalla termodinamica, quella parte della fisica che studia gli scambi energetici all'interno di sistemi chiusi. I principi guida dell'entropia ci dicono infatti che se da un lato nulla si crea e nulla si distrugge ma tutto si trasforma, dall'altro ogni trasformazione ha un costo di energia che non può più essere recuperata.
Introducendo questi principi nell'analisi economica i risultati sono immediatamente chiari: la produzione diventa un processo di trasformazione della natura da parte dell'uomo, al termine del quale una parte della materia-energia disponibile sul pianeta è irrimediabilmente persa. La storia dell'uomo, insomma, non può più essere letta come un continuo e inarrestabile progresso verso livelli sempre maggiori di benessere e prosperità materiale.
In questo senso la crisi ambientale và letta prima di tutto come risultato delle contraddizioni interne di un sistema economico occidentale che considera solo i benefici della produzione di ricchezza, ignorandone completamente i costi.

Gli altri costi dello sviluppo
E' indubbio, poi, che la scelta delle società industrializzate di puntare sull'accumulazione economica abbia in effetti prodotto una grande ricchezza materiale, un maggiore accesso a beni di consumo e un generale avanzamento tecnologico e scientifico. Non bisogna tuttavia dimenticare anche gli altri costi di questi avanzamenti. Costi in questo caso socio-economici, pagati non solo dalle classi lavoratrici e degli strati considerati meno produttivi della società, ma soprattutto delle popolazioni e dei paesi di altre parti del globo, le cui vastissime risorse vengono impiegate per soddisfare le nostre esigenze economiche e politiche.
La questione ambientale si sovrappone qui con altre tematiche affini, accomunate tutte dagli effetti che un sistema di pensiero basato sulla credenza in uno sviluppo illimitato ha sulle scelte individuali, sociali e politiche.

Per concludere, lo scopo di questa breve introduzione è di iniziare a tracciare un percorso che spero verrà continuato nei prossimi numeri. Se è sicuramente vero che la tematica ambientale torna sempre più spesso alla ribalta nei media e persino nei dibattiti politici, il difetto dell'analisi che viene fatta è di fermarsi sempre a un livello superficiale e distorto, in cui il magico antidoto della tecnologia funge da deus ex machina che farà tornare tutto come prima.
Non mancano, và detto, neanche le voci di dissenso, che, a partire dagli anni '70, hanno cominciato, sia dal lato accademico che da quello propriamente di azione sociale, a dibattere e a muoversi su queste tematiche. E' questa, in sintesi, la direzione che mi piacerebbe prendesse questa rubrica.

GIU’ LE MANI DALLA INNSE!

L’immaginario associato alla Innse è quello di 5 operai barricati su una gru nel caldo agosto milanese. Meno conosciuti sono i 16 mesi di lotta che hanno preceduto questo gesto, e la situazione in cui è maturato: la rottura di un assedio poliziesco per impedire lo smantellamento della fabbrica. Se la conclusione della vicenda è nota, per capire la situazione bisogna partire da un po’ più indietro.
Negli anni ‘70 nel polo industriale milanese di via Rubattino lavoravano migliaia di operai della Innocenti. Tra i prodotti la Mini e la Lambretta. Progressive chiusure e licenziamenti hanno portato alla situazione attuale: un solo capannone (la Innse – Presse) ancora attivo, per un totale di 49 tra operai e impiegati, su un’area detenuta dalla società immobiliare Aedes, la quale ha ottenuto dal Comune la conversione da industriale a residenziale e commerciale. Negli ultimi 3 anni il proprietario della Innse è stato il torinese Silvano Genta, che la rilevò dall’amministrazione straordinaria con l’impegno di rilanciarla. Impegno non rispettato: dopo due anni (31 maggio 2008) dichiara improvvisamente la cessata attività e spedisce ai dipendenti la lettera di apertura della procedura di mobilità (anticamera del licenziamento). La risposta degli operai, immediata, è l’occupazione del capannone. Per tre mesi riescono a continuare a gestire autonomamente la produzione, fino a che, a metà settembre, la magistratura ordina lo sgombero e il sequestro dell’area. Comincia un estenuante braccio di ferro tra il proprietario che vuole smontare e vendere i macchinari e gli operai che vogliono tutelare i posti di lavoro e il patrimonio dell'officina: si tratta di macchine enormi e di precisione, è impensabile spostare in blocco l’impianto produttivo. Si stabilisce quindi un presidio permanente in una ex-portineria di fianco all’ingresso dell’officina. È qui che a fine dicembre nasce il gruppo degli “studenti per la Innse”, che nei mesi successivi organizzerà iniziative dentro e fuori dalle università. È qui che insieme ad altre realtà sociali si crea una rete di solidarietà che nei mesi successivi sarà in grado di mobilitare la società civile. Non sempre comunicare è facile. Si scontrano e si incontrano due linguaggi diversi: quello di chi ha appena vissuto l’autunno caldo dell’Onda studentesca e si è abituato alla vivacità conflittuale dei chiostri universitari, e quello di chi è reduce da un autunno al freddo del presidio e preferisce il pragmatismo della solidarietà di classe. Le difficoltà vengono però facilmente superate, se non nel linguaggio, nella pratica della resistenza: saranno centinaia le persone che a gennaio e febbraio, in due occasioni, si schiereranno davanti ai cancelli per impedire l’ingresso dei camion di Genta, fino a scontrarsi con la polizia. Fatti dopo cui si moltiplicheranno le iniziative di solidarietà e l’attenzione dei media, evitando per mesi nuovi interventi delle forze dell’ordine e lasciando intravedere la possibilità di una risoluzione positiva.
La situazione resta immutata fino a domenica 2 agosto, quando la polizia sgombera il presidio e permette l'ingresso nell'officina a una squadra di manovali addetti allo smontaggio. Nonostante la sorpresa, in poco tempo tutta la Milano solidale rimasta in città si raduna davanti all’ingresso principale in un presidio permanente, per dieci giorni la strada viene chiusa al traffico e tutta l’area militarizzata con centinaia di agenti in tenuta antisommossa. Dopo tre giorni senza trattative, quattro operai e un delegato sindacale eludono la sorveglianza, entrano nell’officina ed occupano un carroponte, obbligando a fermare i lavori. Questo gesto, grazie all’eco dei media e alla dimostrazione che l’officina è tutt’altro che in mano alle forze dell’ordine, risulta determinante per capovolgere la situazione. In soli 8 giorni si trova una soluzione, sancita da un accordo che sarà confermato definitivamente ai primi di ottobre. Forse che fino a quel momento a mancare sia stata la volontà “politica” di salvare la fabbrica, nonostante avesse un mercato anche in tempo di crisi?
Il risultato ottenuto dagli operai è straordinario, reso possibile dalla compattezza e determinazione degli operai, e dallo scontro frontale con il proprietario e chi gli garantisce di imporre la sua volontà. È questo che alla Innse tengono a sottolineare: anche se la loro vittoria significa tornare in officina sotto un nuovo “padrone”, hanno dimostrato che è possibile non subirne passivamente la volontà. Ci sono voluti 16 mesi, tutti vissuti con determinazione: forse è questo che è mancato a tante altre lotte, sgonfiatesi a causa della mancanza di risultati sul breve periodo. Ha giocato un ruolo importante anche la presa di posizione unitaria della società civile e la solidarietà attiva di studenti, centri sociali e associazioni. Come a dire: non è vero che un tessuto sociale non esiste, non è vero che si deve perdere sempre. Con la speranza che sia d’esempio per il futuro.

Le Tasse aumenteranno ?

La l.133/2008 ha previsto per il 2010 un taglio del FFO di € 190 milioni che la finanziaria per il 2010 ha mantenuto. Si prevedono
tempi duri per gli atenei: nella relazione al bilancio di previsione per il 2009, il CdA della Statale di Milano ha giá annunciato
che dal 2010 l’ateneo non sará in grado di chiudere il bilancio in pareggio.
Per il 2010, il taglio al FFO confermato dalla finanziaria per il 2010 ammonta a € 673 milioni: € 190 milioni previsti dalla l.133/2008, altri € 483 milioni per copire l’esenzione dell’ICI (ex l. 93/2008, art. art. 5, c. 1 e 7). Per la Statale questo significherà -21% di fondi (60 mil. €) rispetto al 2009. Secondo
indiscrezioni, il bilancio del 2010 sará in rosso di 33 mil. €, che diventeranno 38 nel 2011.
Come trovare i soldi necessari? “La scelta è del ministro dell’ Economia: o rinuncia ai suoi tagli, o ha il coraggio di proporre un innalzamento delle rette pagate dalle famiglie”, scriveva Giavazzi lo scorso 25 luglio sul Corriere. Non vedono alternative
Decleva, Ballio e Fontanesi, rettori di Statale, Politecnico e Bicocca che giá a febbraio affermavano di essere pronti a aumentare le tasse universitarie. Quello dei rettori era probabilmente
un tentativo, miseramente
fallito, di auspicare una revisione dei tagli. A rincarare la dose ci ha pensato Checchi, preside della facoltá di scienze politiche della Statale in un articolo
dal titolo molto eloquente: “Piú tasse per gli studenti” (lavoce.info).
Sarebbe una brutta sorpesa per gli studenti milanesi che pagano giá le rette piú care d’Italia.
Stando alla legge non c’é motivo di preoccuparsi, anzi: il “Regolamento
recante disciplina in materia di Contributi Universitari”
(DPR 306/1997) stabilisce che “ la contribuzione studentesca
non può eccedere il 20% dell’importo del finanziamento ordinario annuale dello Stato”. Riducendosi il FFO, diminuirebbe
anche la contribuzione studentesca!
Il dubbio rimane: le università pubbliche rispettano e soprattutto
rispetteranno il limite fissato dalla legge? Tasse a parte, rimangono interrogativi ancora più inquietanti: come pagare gli stipendi dei prossimi mesi? Come continuare a fornire servizi già scadenti? Aprendo mutui con le banche offrendo in garanzia gli immobili? Due immobili di proprietà della Statale sarebbero già in vendita, di un terzo il contratto d’affitto potrebbe essere presto disdetto.