sabato 15 maggio 2010
Contro il disagio giovanile: una voce comune
Sulla condizione giovanile sono stati versati mari d'inchiostro, intere generazioni di sociologi, psicologi, preti (non mancano mai) e giornalisti d'ogni ordine e grado, nel corso degli anni, hanno dato vita allo psicodramma corale del “disagio giovanile”: una sorta di entità astratta in cui si mescolano problemi reali ed immaginari e che detiene il poco invidiabile potere di dissolvere cause reali di problemi concreti nella mistica dei turbamenti (post) adolescenziali.
Ad onor del vero l'immagine che emerge dalle interviste ricalca molti tratti essenziali di rappresentazioni ben più quotate quali quella dello IARD, sostanzialmente i giovani vengono immaginati e quindi si immaginano come una massa amorfa senza particolare solidarietà generazionale, azzerata culturalmente sui valori della famiglia e dell'edonismo personalistico e che prova a tirare a campare in un eterno “presente liquido” la cui mitologia, fruibile in tutte le stagioni, diventa particolarmente utile per tagliar corto, liquidando una seria ricerca delle cause dell'immobilità generazionale nel bel paese. In effetti quello che colpisce dalle interviste non é tanto quanto l'immaginario dei giovani sia stato colonizzato dai discorsi fatti (da altri) su di loro, quello è relativamente normale, visto che gli unici “autorizzati” ad esprimersi sui turbamenti esistenziali della gioventù del bel paese hanno da tempo superato gli “anta”; quello che merita di essere osservato è l'impossibilità di individuare una causa: esiste una percezione di un disagio reale, diffuso, che indubbiamente si attesta su una linea generazionale (oltre che ovviamente di genere, di classe, di eredità etnica) ma tutti i discorsi su questo “male oscuro” non riescono ad individuarne le cause politiche e strutturali. Facciamo un esempio concreto; tutti i ragionamenti sulla precarietà, sulla dipendenza dal nucleo familiare trascurano un fatto fondamentale ovvero il fatto che si sta discutendo della condizione giovanile in un paese che, allo stato attuale, non ha alcuna politica di welfare per i giovani e questo è completamente ignorato dai giovani stessi, debitamente addestrati a considerare normale una situazione profondamente anormale. In Italia l'istruzione costa cara, non si può dire lo stesso di Germania e Francia, in Italia non esiste una politica per il sostegno alle giovani coppie o all'impiego femminile che in Spagna o nei Paesi Scandinavi è una realtà affermata da tempo, per intenderci e restare nel concreto consideriamo che i paesi Ocse spendono mediamente il 2.3% del Pil per servizi alle famiglie, la Francia spende circa il 3.8%, il Regno Unito circa il 3,6% Germania circa il 3%, l' Italia arriva a stento all'1.4%. Per rincarare la dose serve scartabellare un po’ di dati sulla disoccupazione: la disoccupazione giovanile in Italia si attesta sul 27% circa (dati Istat 2010), in pratica un lavoratore su quattro, fra i 15 ed i 24 anni è disoccupato, il tasso di disoccupazione giovanile è triplo rispetto a quello globale (circa 8-9%) e a fronte di tutto questo lo stato italiano spende lo 0,5/0,6 % (sempre in punti Pil) per sostenere chi perde un lavoro, diversamente dal la Francia che, pur avendo un tasso di disoccupazione simile, spende il 1,7% mentre i paesi scandinavi superano il 2%.
Tutto questo diventa ancora più grottesco se consideriamo che, se si parla di pensioni, le cifre sono ben altre infatti, dopo l'Austria, l'Italia è il paese che più spende in welfare per i pensionati (11%).
Di questo stato di cose non v'è alcuna consapevolezza, si dibatte di “questioni giovanili” in termini esclusivamente morali quando il problema ha contorni assolutamente materiali e reali: i giovani sono i meno tutelati dallo stato sociale, se ottengono qualcosa è solo attraverso il tramite della famiglia, essi sono anche i più colpiti dal fenomeno del precariato, infatti nel 2008 c'erano circa tre milioni di precari, che nel 60% dei casi avevano meno di 35 anni. A fronte di tutto questo, parlare di questioni culturali e del solito stereotipo dell'italiano mammone è pura disinformazione in cui, ahimè, i giovani cascano con tutte le scarpe. Non che manchi la volontà di cambiare qualcosa, forse manca un reale progetto, ma il problema più grave rimane il fatto che esprimersi in termini di “merito”, di “cervelli in fuga”, di “inerzia” o “voglia di sbattersi”, di “professionalità” o di riformette inciuciste significa voler partecipare -e magari “vincere”- presso un tavolo da gioco ignorando il fatto che le regole siano profondamente truccate ed è proprio questa ingenuità che non deve essere più perpetuata, soprattutto perché questo equivoco è chiarissimo ai centri di potere e viene spesso utilizzato ad arte per creare legittimità attorno a progetti politici allucinanti.
La riforma dell'università? Ma va ovviamente nel miglior interesse dei giovani, poco importa se consiste solo in tagli perché sono tagli fatti per il sacro “merito”. Le riduzioni delle pensioni o il prolungamento dell'età pensionabile ? Ma anche queste cose sono per i giovani, poco importa anche qui se nel paradossale stato attuale il welfare per i genitori rappresenta una importante fonte di reddito per i loro discendenti: quanti studenti fuori sede sono mantenuti da mammà che (se va bene) gode di un impiego a tempo indeterminato ? O dalla pensione di papà ? Quanti lavoratori precari, magari ultratrentenni, necessitano della tutela genitoriale per accendere un mutuo immobiliare ?
Ma questo squallido cinismo non è esclusiva del liberismo targato Pdl dato che anche la cosiddetta opposizione ci mette del suo: non è forse nell'interesse dei giovani che si sventola il “contratto unico” neanche fosse la sindone il giorno dell'ostensione? Anche qui poco importa che sia una riedizione all'italiana del CPE francese e che la sua genesi provenga dallo stesso brodo di cultura “progressista” che ci ha regalato meraviglie come il pacchetto Treu; l'importante è che sia per i giovani.
E, per la cronaca, pure il pacchetto Treu o la legge 30 erano “per i giovani”: la flessibilità non avrebbe forse dovuto favorirli? Negli scenari utopici rivendutici in quel del 1997 i giovani avrebbero finalmente potuto armonizzare vita, studio e lavoro grazie all’ingresso della flessibilità la quale ci veniva rivenduta come una conquista generazionale: basta con la noia del lavoro stabile, sarebbe stato possibile saltabeccare da una “esperienza” ad un’altra, in un mondo fatato di prosperità, completamente avulso dal reale. E che dire delle giovani donne magicamente libere, grazie alla flessibilità, di conciliare maternità e lavoro ?
Ironia a parte, tutto questo sproloquio vorrebbe servire a rilevare quanto il concetto di “disagio generazionale” rappresenti uno strumento per l'alienazione reale dei giovani, comodamente disponibile a qualsiasi centro di potere, un raffinato artificio che con la stessa mossa priva i giovani di voce e parla a loro nome, millantando di farlo per il loro stesso bene, come se fossero animali in via di estinzione. E' in nome dei giovani quindi o, più concretamente, sulla pelle dei giovani che si possono giocare le lotte di potere fra le varie cordate del liberismo tricolore, ciascuna intenta a mobilitare i poveri giovani affranti e derelitti per far passare l'ennesimo pacchetto legge o l'ennesima riforma peggiorativa dell'esistente. Al di là di tutta la “fuffa” finora delineata, la realtà è quella di un sistema che, con felice intuizione, Banfield definisce “familistico amorale”, in cui le mobilitazioni di solidarietà universali e le “meravigliose sorti e progressive” del riformismo liberista nascondono il solito trucco patriarcale di negare diritti in pubblico ai figli degli altri, per poi poterli munificamente concedere in privato alla propria prole. Se il mercato del lavoro è bloccato, in realtà non c'è nessun problema, c'è sempre quell'amico di Papà (forse); se non si riesce ad aprire un mutuo ci sono due generazioni di pensioni pronte a fare da garanzia (forse), in questo modo ciò che dovrebbe essere un diritto da rivendicare viene magicamente trasformato in un privilegio da mendicare e si finisce vilipesi e sfruttati non una ma due volte. C'è da dire che, a voler essere acidamente franchi, i giovani accettano di buon grado la pratica della mendicità dei diritti; non tanto per qualche difetto caratteriale o antropologico, non tanto per quell'oscena banalità che vuole ogni generazione più “molle” di quella che la ha preceduta, quanto per il fatto che i processi di precarizzazione degli individui e del corpo sociale sono stati, in primo luogo, altrettanti progetti di distruzione di tutti quegli artefatti sociali o culturali che potevano essere utile per pensarsi come corpo collettivo autonomo ed indipendente.
Il quadro non è certo roseo ma per uscire dal pantano è necessario definire i tratti della crisi, molti dei quali hanno a che fare con le difficoltà di questa generazione a parlare come una voce unica e anziché ostaggio dei giochi di potere.
Decisamente non compete a questo articolo individuare una via di fuga o un percorso corretto per uscire dall'impasse generazionale ma un'osservazione è necessaria: qualunque percorso rivendicativo, qualunque modo di ribaltare il tavolo truccato dovrà essere frutto di una riflessione autonoma di chi in precedenza è stato ridotto al silenzio. L'uscita da una posizione di subalternità quasi feudale avverrà solo se si riuscirà a comprendere che il proprio benessere ed il proprio futuro individuale dipendono dalla capacità di avanzare rivendicazioni pubbliche e collettive, dalla capacità di difendere e creare nuovi diritti comuni.
Ad onor del vero l'immagine che emerge dalle interviste ricalca molti tratti essenziali di rappresentazioni ben più quotate quali quella dello IARD, sostanzialmente i giovani vengono immaginati e quindi si immaginano come una massa amorfa senza particolare solidarietà generazionale, azzerata culturalmente sui valori della famiglia e dell'edonismo personalistico e che prova a tirare a campare in un eterno “presente liquido” la cui mitologia, fruibile in tutte le stagioni, diventa particolarmente utile per tagliar corto, liquidando una seria ricerca delle cause dell'immobilità generazionale nel bel paese. In effetti quello che colpisce dalle interviste non é tanto quanto l'immaginario dei giovani sia stato colonizzato dai discorsi fatti (da altri) su di loro, quello è relativamente normale, visto che gli unici “autorizzati” ad esprimersi sui turbamenti esistenziali della gioventù del bel paese hanno da tempo superato gli “anta”; quello che merita di essere osservato è l'impossibilità di individuare una causa: esiste una percezione di un disagio reale, diffuso, che indubbiamente si attesta su una linea generazionale (oltre che ovviamente di genere, di classe, di eredità etnica) ma tutti i discorsi su questo “male oscuro” non riescono ad individuarne le cause politiche e strutturali. Facciamo un esempio concreto; tutti i ragionamenti sulla precarietà, sulla dipendenza dal nucleo familiare trascurano un fatto fondamentale ovvero il fatto che si sta discutendo della condizione giovanile in un paese che, allo stato attuale, non ha alcuna politica di welfare per i giovani e questo è completamente ignorato dai giovani stessi, debitamente addestrati a considerare normale una situazione profondamente anormale. In Italia l'istruzione costa cara, non si può dire lo stesso di Germania e Francia, in Italia non esiste una politica per il sostegno alle giovani coppie o all'impiego femminile che in Spagna o nei Paesi Scandinavi è una realtà affermata da tempo, per intenderci e restare nel concreto consideriamo che i paesi Ocse spendono mediamente il 2.3% del Pil per servizi alle famiglie, la Francia spende circa il 3.8%, il Regno Unito circa il 3,6% Germania circa il 3%, l' Italia arriva a stento all'1.4%. Per rincarare la dose serve scartabellare un po’ di dati sulla disoccupazione: la disoccupazione giovanile in Italia si attesta sul 27% circa (dati Istat 2010), in pratica un lavoratore su quattro, fra i 15 ed i 24 anni è disoccupato, il tasso di disoccupazione giovanile è triplo rispetto a quello globale (circa 8-9%) e a fronte di tutto questo lo stato italiano spende lo 0,5/0,6 % (sempre in punti Pil) per sostenere chi perde un lavoro, diversamente dal la Francia che, pur avendo un tasso di disoccupazione simile, spende il 1,7% mentre i paesi scandinavi superano il 2%.
Tutto questo diventa ancora più grottesco se consideriamo che, se si parla di pensioni, le cifre sono ben altre infatti, dopo l'Austria, l'Italia è il paese che più spende in welfare per i pensionati (11%).
Di questo stato di cose non v'è alcuna consapevolezza, si dibatte di “questioni giovanili” in termini esclusivamente morali quando il problema ha contorni assolutamente materiali e reali: i giovani sono i meno tutelati dallo stato sociale, se ottengono qualcosa è solo attraverso il tramite della famiglia, essi sono anche i più colpiti dal fenomeno del precariato, infatti nel 2008 c'erano circa tre milioni di precari, che nel 60% dei casi avevano meno di 35 anni. A fronte di tutto questo, parlare di questioni culturali e del solito stereotipo dell'italiano mammone è pura disinformazione in cui, ahimè, i giovani cascano con tutte le scarpe. Non che manchi la volontà di cambiare qualcosa, forse manca un reale progetto, ma il problema più grave rimane il fatto che esprimersi in termini di “merito”, di “cervelli in fuga”, di “inerzia” o “voglia di sbattersi”, di “professionalità” o di riformette inciuciste significa voler partecipare -e magari “vincere”- presso un tavolo da gioco ignorando il fatto che le regole siano profondamente truccate ed è proprio questa ingenuità che non deve essere più perpetuata, soprattutto perché questo equivoco è chiarissimo ai centri di potere e viene spesso utilizzato ad arte per creare legittimità attorno a progetti politici allucinanti.
La riforma dell'università? Ma va ovviamente nel miglior interesse dei giovani, poco importa se consiste solo in tagli perché sono tagli fatti per il sacro “merito”. Le riduzioni delle pensioni o il prolungamento dell'età pensionabile ? Ma anche queste cose sono per i giovani, poco importa anche qui se nel paradossale stato attuale il welfare per i genitori rappresenta una importante fonte di reddito per i loro discendenti: quanti studenti fuori sede sono mantenuti da mammà che (se va bene) gode di un impiego a tempo indeterminato ? O dalla pensione di papà ? Quanti lavoratori precari, magari ultratrentenni, necessitano della tutela genitoriale per accendere un mutuo immobiliare ?
Ma questo squallido cinismo non è esclusiva del liberismo targato Pdl dato che anche la cosiddetta opposizione ci mette del suo: non è forse nell'interesse dei giovani che si sventola il “contratto unico” neanche fosse la sindone il giorno dell'ostensione? Anche qui poco importa che sia una riedizione all'italiana del CPE francese e che la sua genesi provenga dallo stesso brodo di cultura “progressista” che ci ha regalato meraviglie come il pacchetto Treu; l'importante è che sia per i giovani.
E, per la cronaca, pure il pacchetto Treu o la legge 30 erano “per i giovani”: la flessibilità non avrebbe forse dovuto favorirli? Negli scenari utopici rivendutici in quel del 1997 i giovani avrebbero finalmente potuto armonizzare vita, studio e lavoro grazie all’ingresso della flessibilità la quale ci veniva rivenduta come una conquista generazionale: basta con la noia del lavoro stabile, sarebbe stato possibile saltabeccare da una “esperienza” ad un’altra, in un mondo fatato di prosperità, completamente avulso dal reale. E che dire delle giovani donne magicamente libere, grazie alla flessibilità, di conciliare maternità e lavoro ?
Ironia a parte, tutto questo sproloquio vorrebbe servire a rilevare quanto il concetto di “disagio generazionale” rappresenti uno strumento per l'alienazione reale dei giovani, comodamente disponibile a qualsiasi centro di potere, un raffinato artificio che con la stessa mossa priva i giovani di voce e parla a loro nome, millantando di farlo per il loro stesso bene, come se fossero animali in via di estinzione. E' in nome dei giovani quindi o, più concretamente, sulla pelle dei giovani che si possono giocare le lotte di potere fra le varie cordate del liberismo tricolore, ciascuna intenta a mobilitare i poveri giovani affranti e derelitti per far passare l'ennesimo pacchetto legge o l'ennesima riforma peggiorativa dell'esistente. Al di là di tutta la “fuffa” finora delineata, la realtà è quella di un sistema che, con felice intuizione, Banfield definisce “familistico amorale”, in cui le mobilitazioni di solidarietà universali e le “meravigliose sorti e progressive” del riformismo liberista nascondono il solito trucco patriarcale di negare diritti in pubblico ai figli degli altri, per poi poterli munificamente concedere in privato alla propria prole. Se il mercato del lavoro è bloccato, in realtà non c'è nessun problema, c'è sempre quell'amico di Papà (forse); se non si riesce ad aprire un mutuo ci sono due generazioni di pensioni pronte a fare da garanzia (forse), in questo modo ciò che dovrebbe essere un diritto da rivendicare viene magicamente trasformato in un privilegio da mendicare e si finisce vilipesi e sfruttati non una ma due volte. C'è da dire che, a voler essere acidamente franchi, i giovani accettano di buon grado la pratica della mendicità dei diritti; non tanto per qualche difetto caratteriale o antropologico, non tanto per quell'oscena banalità che vuole ogni generazione più “molle” di quella che la ha preceduta, quanto per il fatto che i processi di precarizzazione degli individui e del corpo sociale sono stati, in primo luogo, altrettanti progetti di distruzione di tutti quegli artefatti sociali o culturali che potevano essere utile per pensarsi come corpo collettivo autonomo ed indipendente.
Il quadro non è certo roseo ma per uscire dal pantano è necessario definire i tratti della crisi, molti dei quali hanno a che fare con le difficoltà di questa generazione a parlare come una voce unica e anziché ostaggio dei giochi di potere.
Decisamente non compete a questo articolo individuare una via di fuga o un percorso corretto per uscire dall'impasse generazionale ma un'osservazione è necessaria: qualunque percorso rivendicativo, qualunque modo di ribaltare il tavolo truccato dovrà essere frutto di una riflessione autonoma di chi in precedenza è stato ridotto al silenzio. L'uscita da una posizione di subalternità quasi feudale avverrà solo se si riuscirà a comprendere che il proprio benessere ed il proprio futuro individuale dipendono dalla capacità di avanzare rivendicazioni pubbliche e collettive, dalla capacità di difendere e creare nuovi diritti comuni.
L’editoriale: Una questione giovanile?
“Sfigati” che fanno lavori precari, svogliati, bamboccioni, consumatori passivi di divertimenti notturni, ma anche speranza di rinnovamento e preziosi cervelli che, non avendo spazio in Italia, fuggono all’estero, ecco alcuni dei frammenti che compongono l’immagine di questa generazione. Quanto c’è di vero in questo? Sono banali stereotipi o semplici verità? Un tratto che accomuna queste rappresentazioni è l’idea di una generazione senza futuro, che il futuro non vuole prenderselo. Sentiamo che c’è qualcosa di vero. Chi ha vent’anni oggi fa parte di una generazione che, dopo quarant'anni in cui la piena occupazione era obiettivo politico e il lavoro garantiva l’accesso al welfare state, anche se ha un impiego non ha la sicurezza di mantenerlo e con esso tutti i diritti che vi erano associati. Si tratta anche della prima generazione che accede alla società con un ragguardevole peso sulle spalle: il ricatto dei prestiti e dei mutui, il debito delle finanze pubbliche e di quelle private, a cui si aggiunge il conto salato dell’ultima crisi. In Italia tutto questo è aggravato da un mobilità sociale pressoché inesistente: i vecchi non lasciano il cadreghino, e quando muoiono è già prenotato da amici, parenti e “leccaculo”.
L’emergenza di una questione generazionale è sotto gli occhi di tutti. Sembra in parte riconducibile a delle precise scelte politiche volte a governare le modificazioni dei processi produttivi: la soppressione della scala mobile nel luglio 1992, la revisione degli assetti contrattuali del 1993, l’introduzione del lavoro interinale e dei contratti atipici con la l. 196/1997 (pacchetto Treu) e la loro revisione con la l. 30/2003 (legge Biagi) e da ultimo l’accordo separato del 2009; tutto questo ha portato ad un mercato del lavoro frammentato, in cui i giovani pagano il prezzo peggiore.
Il mercato del lavoro
Il primo problema che un giovane incontra al suo ingresso nel mondo del lavoro consiste nell’ottenimento di un contratto e quindi di un livello minimo di garanzie. A questo si aggiungono le tante possibili (e tra loro molto diversificate) tipologie di accordo con il quale viene assunto.
Questo ingresso avviene però di default con contratti che riassumono, con sfaccettature differenti, il concetto di precarietà. La suddetta non è necessariamente un male per un ragazzo sedicenne che necessita di una parziale indipendenza economica e non avrebbe le possibilità per assicurare una costante presenza all’interno di un luogo di lavoro. Ma, in generale, per il mondo dei giovani la precarietà si traduce in una impossibile progettazione del futuro e della vita sia su basi sia su tempi solidi.
Il rischio, che ormai si è purtroppo quasi tramutato in realtà, è quello della frammentazione del mercato del lavoro in due macroaree, con da una parte i lavoratori in possesso di contratti di lavoro a tempo indeterminato che cercano di difendere la loro categoria e hanno strumenti per preservarla dai rischi del mercato e dall’altra i loro figli, senza tutele o garanzie.
Nei box sottostanti sono riassunti i rischi e le tutele a cui vanno incontro i giovani per semplificare loro il quadro normativo, nel momento della scelta di tipologia contrattuale da stipulare.
Oltre a ribadire l'esistente può essere interessante elencare alcune proposte di riforma del mercato del lavoro fra le più famose.
La prima proposta potrebbe essere quella di una restrizione delle quote di personale precario sulla percentuale totale della forza lavoro, scritte e normate nei CCNL (contratti collettivi nazionali di lavoro), rispetto a quelle attualmente vigenti.
Per essere efficace questa proposta dovrebbe ragionare non solo sulle quote di personale, ma anche sulla quantità di contratti precari annualmente stipulati, allo scopo di riuscire a vincolarli alla trasformazione in contratti a tempo indeterminato.
Un’ altra ipotesi di riforma potrebbe essere l’individuazione di limiti e/o regole di stabilità occupazionale per le esternalizzazioni di rami d’azienda, facendo sì che non vi sia un peggioramento delle tipologie contrattuali dei nuovi “assunti”.
Per quel che concerne il passaggio dal mondo dei senza garanzie a quello dei garantiti, una delle proposte che ha ricevuto più visibilità é quella di Boeri il quale ipotizza un percorso che, partendo dall'ingresso in azienda (con un contratto a tempo determinato) porti gradualmente (con scatti ascendenti semestrali) all'equiparazione sia contrattuale che di diritti con i lavoratori a tempo indeterminato. L' idea che ispira questa proposta è quella di affiancare la salvaguardia dei diritti dei “già inseriti” ad un percorso di reali acquisizioni da parte dei “nuovi entrati”.
Ad onor del vero quest'ultima proposta rimane ancora controversa e dibattuta; è di pochi giorni fa un’intervista rilasciata al Manifesto da parte del sociologo Luciano Gallino che equipara il contratto unico al CPE francese e sostiene che potrebbe ulteriormente aggravare le cose, “spalancando una porta d'oro alla flessibilità”.
Mobilitazione e apatia…
Trovare una risposta univoca alla domanda: “Chi sono i giovani d'oggi?” presuppone l'analisi di una serie pressoché infinita di scenari.
Il nostro Ministro per la Pubblica Amministrazione e l'Innovazione, Renato Brunetta, dall'alto della propria statura morale, ha più volte tuonato affascinanti iperboli a proposito, definendoci, senza mezze misure, “guerriglieri” e “bamboccioni” (Padoa-Schioppa docet).
Bambocci perché, incapaci di mantenerci economicamente durante gli studi superiori, in quest'Italia satura di generalismo ed invocante una classe lavoratrice specializzata da inserire nei propri quadri, ci si trova a dipendere per forza dal borsellino di mamma e papà.
Ma contemporaneamente anche disonorati guerriglieri: l'espressione del dissenso durante L'Onda è stata intollerabile, una sorta di anti-prosopopea socratica, insomma, un netto, ingrato e disgustoso sputo nel piatto gentilmente concessoci.
Guardando oltremare, poi, nel Nuovo Continente, troviamo Thomas Friedman, opinion-leader americano e vincitore di tre Premi Pulitzer, che, in un editoriale del New York Times ha etichettato i giovani come una massa informe di apatia e disinteresse, “too quiet, too online, for its own good, and for the country's own good”, incapaci di indignazione e coscienza sociale.
“O tempora, o mores!”, insomma, come cornice generica all'opinione maggiormente condivisa.
Ma torniamo a noi, con un esempio concreto. La crisi dell'Istruzione Italiana, con i suoi angoscianti dati, è diventata quasi una routine surreale, un normale argomento di discussione, un tremendo cliché: eppure le piazze, riempitesi per un semestre, si sono presto svuotate e tuttora restano silenziose, nonostante il problema sia rimasto, reale, a governare le vite degli studenti.
Dati alla mano: il Fondo Unico d'Ateneo, diviso in CU (Contributi Universitari) e FD (Fondo Potenziamento Didattica) è calato del 50% rispetto al 2007.
Se i giovani sono i protagonisti è altrettanto vero che è sulle loro spalle che si sta marciando a colpi di decreto-legge, ma tutto questo non sembra turbare nessuno; si pensa : “cosa potrà mai cambiare? Il sessantotto c'è già stato”, continuando a lamentarsi immobili, sorseggiando caffè davanti alle macchinette delle facoltà.
Se esiste una colpa generazionale allora questa è quella della rassegnazione, una sorta di timore anti-darwiniano verso il tentativo, il miglioramento, la sfida, che poi non è nient'altro che un modo per essere vecchi e stanchi ancor prima di cominciare.
… Contro nuove possibilità.
Nel 1991 Robert Reich, ministro del lavoro durante l’amministrazione Clinton, pubblica The Work of Nations, un contributo interessante nell’analisi del lavoro immateriale nell’epoca postfordista. Reich definisce il lavoro immateriale come la capacità di “manipolazione dei simboli”. Da allora gli studi economici sulla natura e le potenzialità del lavoro immateriale sono aumentati in modo esponenziale. Uno degli elementi che risulta ancora controverso è la sua valutazione in termini di profitti per le aziende. Queste vedono un ritorno economico dei loro investimenti solo sulla base dei consumi all’interno dei contesti socio-culturali in cui operano. La consapevolezza che questo tipo di sistema economico non si basa esclusivamente sulla formazione culturale dei propri lavoratori ha spinto le aziende ad investire sempre di più nella cultura e nella creazione di immaginario, basta guardare alla presenza pressante delle aziende all’interno della Università e delle Accademie. Gli studenti sono mantenuti in uno stato di formazione perenne che si protrae per anni, nell’attesa di essere inseriti in un mercato del lavoro che, comunque, non riuscirebbe ad assorbire una richiesta lavorativa così alta; questo permette di avere un largo bacino di consumatori e produttori (definiti da Toffler “prosumer”) di conoscenza e del sapere che, effettivamente, garantiscono la sopravvivenza delle aziende. In uno scenario come questo però si dimentica un’importante effetto collaterale: se le aziende riescono ad avere un ritorno economico nel breve periodo, nel medio e nel lungo periodo questo modo di fare porterà all' inaridimento del contesto socioculturale in cui le stesse imprese si inscrivono. Un esempio lampante è il progressivo allontanamento dello Stato dall’investimento nella ricerca e nella sperimentazione, a favore degli interessi formativi delle aziende. C’è tuttavia un enorme difetto nell’analisi di Reich: considerare il lavoro immateriale solo come “manipolazione dei simboli” esclude una serie di componenti fondamentali e determinanti anche sul piano della resistenza ad un sistema che ci vorrebbe tutti prosumer della conoscenza. Il lavoro immateriale è anche e soprattutto un complesso sistema comunicativo-relazionale basato sui desideri di singoli individui che però sono membri di una collettività. Partire dai desideri per arrivare a recuperare le relazioni tra i singoli è un elemento fondamentale e questo può avvenire attraverso l’utilizzo della conoscenza e dei processi comunicativi di cui tutti deteniamo i mezzi di produzione. In un sistema così debole perché basato esclusivamente sulla astrazione ed elaborazione dei simboli è possibile recuperare tutta la materialità della produzione attraverso strumenti la cui proprietà è nostra. Nel XIX secolo i luddisti si organizzarono nella creazione di un immaginario che arrivasse alla distruzione della macchine. Nel 2010 lo stesso spirito luddista può essere recuperato all’interno dei processi di comunicazione, utilizzando gli stessi strumenti che portano guadagno e profitto per le aziende per garantirci sapere libero e conoscenza svincolata dal potere.
In conclusione
In questo Speciale abbozzeremo una ricostruzione della figura sociale del “giovane”. Ci sembra opportuno premettere che l’idea di uno stato intermedio fra l’infanzia e l’età adulta si è sviluppata relativamente tardi, durante il periodo dei “30 gloriosi” (‘50-‘70), ed è tuttora un concetto in mutamento ed espansione. Basti solo considerare che, a differenza di come avveniva pochi decenni fa, oggi si è giovani anche a quarant’anni. Potremmo scrivere enciclopedie cercando di ricostruire il più fedelmente possibile la condizione oggettiva di questa generazione. Ma forse non ne vale neanche la pena. Sappiamo fin troppo bene che se alla condizione oggettiva non corrisponde la percezione soggettiva di tale condizione, allora ben pochi cambiamenti sono possibili. Abbiamo quindi scelto di dare parola ai “giovani”, di lasciare che si raccontino, che dicano chi sono, cosa fanno, cosa vorrebbero cambiare, quali sono le loro aspettative … insomma, esiste una comune percezione soggettiva tra persone che niente hanno a che fare tra di loro per capitale culturale, sociale e economico? Esiste una “questione generazionale”? La si può delineare a partire dai racconti e dalle esperienze di chi la vive? E’ sempre più urgente e necessario iniziare a tracciare le prime pennellate di questo affresco. E’ arrivata l’ora di cominciare ad autonarrarci. Perché la nostra è anche una scommessa politica. Che si gioca a partire dai desideri e dai bisogni di noi giovani, e non dalle provocazioni dei neoliberisti di destra e di sinistra che, dopo aver ipotecato il futuro della nostra generazione, vogliono attaccare ulteriormente i redditi e il welfare state vaneggiando di meritocrazia.
L’emergenza di una questione generazionale è sotto gli occhi di tutti. Sembra in parte riconducibile a delle precise scelte politiche volte a governare le modificazioni dei processi produttivi: la soppressione della scala mobile nel luglio 1992, la revisione degli assetti contrattuali del 1993, l’introduzione del lavoro interinale e dei contratti atipici con la l. 196/1997 (pacchetto Treu) e la loro revisione con la l. 30/2003 (legge Biagi) e da ultimo l’accordo separato del 2009; tutto questo ha portato ad un mercato del lavoro frammentato, in cui i giovani pagano il prezzo peggiore.
Il mercato del lavoro
Il primo problema che un giovane incontra al suo ingresso nel mondo del lavoro consiste nell’ottenimento di un contratto e quindi di un livello minimo di garanzie. A questo si aggiungono le tante possibili (e tra loro molto diversificate) tipologie di accordo con il quale viene assunto.
Questo ingresso avviene però di default con contratti che riassumono, con sfaccettature differenti, il concetto di precarietà. La suddetta non è necessariamente un male per un ragazzo sedicenne che necessita di una parziale indipendenza economica e non avrebbe le possibilità per assicurare una costante presenza all’interno di un luogo di lavoro. Ma, in generale, per il mondo dei giovani la precarietà si traduce in una impossibile progettazione del futuro e della vita sia su basi sia su tempi solidi.
Il rischio, che ormai si è purtroppo quasi tramutato in realtà, è quello della frammentazione del mercato del lavoro in due macroaree, con da una parte i lavoratori in possesso di contratti di lavoro a tempo indeterminato che cercano di difendere la loro categoria e hanno strumenti per preservarla dai rischi del mercato e dall’altra i loro figli, senza tutele o garanzie.
Nei box sottostanti sono riassunti i rischi e le tutele a cui vanno incontro i giovani per semplificare loro il quadro normativo, nel momento della scelta di tipologia contrattuale da stipulare.
Oltre a ribadire l'esistente può essere interessante elencare alcune proposte di riforma del mercato del lavoro fra le più famose.
La prima proposta potrebbe essere quella di una restrizione delle quote di personale precario sulla percentuale totale della forza lavoro, scritte e normate nei CCNL (contratti collettivi nazionali di lavoro), rispetto a quelle attualmente vigenti.
Per essere efficace questa proposta dovrebbe ragionare non solo sulle quote di personale, ma anche sulla quantità di contratti precari annualmente stipulati, allo scopo di riuscire a vincolarli alla trasformazione in contratti a tempo indeterminato.
Un’ altra ipotesi di riforma potrebbe essere l’individuazione di limiti e/o regole di stabilità occupazionale per le esternalizzazioni di rami d’azienda, facendo sì che non vi sia un peggioramento delle tipologie contrattuali dei nuovi “assunti”.
Per quel che concerne il passaggio dal mondo dei senza garanzie a quello dei garantiti, una delle proposte che ha ricevuto più visibilità é quella di Boeri il quale ipotizza un percorso che, partendo dall'ingresso in azienda (con un contratto a tempo determinato) porti gradualmente (con scatti ascendenti semestrali) all'equiparazione sia contrattuale che di diritti con i lavoratori a tempo indeterminato. L' idea che ispira questa proposta è quella di affiancare la salvaguardia dei diritti dei “già inseriti” ad un percorso di reali acquisizioni da parte dei “nuovi entrati”.
Ad onor del vero quest'ultima proposta rimane ancora controversa e dibattuta; è di pochi giorni fa un’intervista rilasciata al Manifesto da parte del sociologo Luciano Gallino che equipara il contratto unico al CPE francese e sostiene che potrebbe ulteriormente aggravare le cose, “spalancando una porta d'oro alla flessibilità”.
Mobilitazione e apatia…
Trovare una risposta univoca alla domanda: “Chi sono i giovani d'oggi?” presuppone l'analisi di una serie pressoché infinita di scenari.
Il nostro Ministro per la Pubblica Amministrazione e l'Innovazione, Renato Brunetta, dall'alto della propria statura morale, ha più volte tuonato affascinanti iperboli a proposito, definendoci, senza mezze misure, “guerriglieri” e “bamboccioni” (Padoa-Schioppa docet).
Bambocci perché, incapaci di mantenerci economicamente durante gli studi superiori, in quest'Italia satura di generalismo ed invocante una classe lavoratrice specializzata da inserire nei propri quadri, ci si trova a dipendere per forza dal borsellino di mamma e papà.
Ma contemporaneamente anche disonorati guerriglieri: l'espressione del dissenso durante L'Onda è stata intollerabile, una sorta di anti-prosopopea socratica, insomma, un netto, ingrato e disgustoso sputo nel piatto gentilmente concessoci.
Guardando oltremare, poi, nel Nuovo Continente, troviamo Thomas Friedman, opinion-leader americano e vincitore di tre Premi Pulitzer, che, in un editoriale del New York Times ha etichettato i giovani come una massa informe di apatia e disinteresse, “too quiet, too online, for its own good, and for the country's own good”, incapaci di indignazione e coscienza sociale.
“O tempora, o mores!”, insomma, come cornice generica all'opinione maggiormente condivisa.
Ma torniamo a noi, con un esempio concreto. La crisi dell'Istruzione Italiana, con i suoi angoscianti dati, è diventata quasi una routine surreale, un normale argomento di discussione, un tremendo cliché: eppure le piazze, riempitesi per un semestre, si sono presto svuotate e tuttora restano silenziose, nonostante il problema sia rimasto, reale, a governare le vite degli studenti.
Dati alla mano: il Fondo Unico d'Ateneo, diviso in CU (Contributi Universitari) e FD (Fondo Potenziamento Didattica) è calato del 50% rispetto al 2007.
Se i giovani sono i protagonisti è altrettanto vero che è sulle loro spalle che si sta marciando a colpi di decreto-legge, ma tutto questo non sembra turbare nessuno; si pensa : “cosa potrà mai cambiare? Il sessantotto c'è già stato”, continuando a lamentarsi immobili, sorseggiando caffè davanti alle macchinette delle facoltà.
Se esiste una colpa generazionale allora questa è quella della rassegnazione, una sorta di timore anti-darwiniano verso il tentativo, il miglioramento, la sfida, che poi non è nient'altro che un modo per essere vecchi e stanchi ancor prima di cominciare.
… Contro nuove possibilità.
Nel 1991 Robert Reich, ministro del lavoro durante l’amministrazione Clinton, pubblica The Work of Nations, un contributo interessante nell’analisi del lavoro immateriale nell’epoca postfordista. Reich definisce il lavoro immateriale come la capacità di “manipolazione dei simboli”. Da allora gli studi economici sulla natura e le potenzialità del lavoro immateriale sono aumentati in modo esponenziale. Uno degli elementi che risulta ancora controverso è la sua valutazione in termini di profitti per le aziende. Queste vedono un ritorno economico dei loro investimenti solo sulla base dei consumi all’interno dei contesti socio-culturali in cui operano. La consapevolezza che questo tipo di sistema economico non si basa esclusivamente sulla formazione culturale dei propri lavoratori ha spinto le aziende ad investire sempre di più nella cultura e nella creazione di immaginario, basta guardare alla presenza pressante delle aziende all’interno della Università e delle Accademie. Gli studenti sono mantenuti in uno stato di formazione perenne che si protrae per anni, nell’attesa di essere inseriti in un mercato del lavoro che, comunque, non riuscirebbe ad assorbire una richiesta lavorativa così alta; questo permette di avere un largo bacino di consumatori e produttori (definiti da Toffler “prosumer”) di conoscenza e del sapere che, effettivamente, garantiscono la sopravvivenza delle aziende. In uno scenario come questo però si dimentica un’importante effetto collaterale: se le aziende riescono ad avere un ritorno economico nel breve periodo, nel medio e nel lungo periodo questo modo di fare porterà all' inaridimento del contesto socioculturale in cui le stesse imprese si inscrivono. Un esempio lampante è il progressivo allontanamento dello Stato dall’investimento nella ricerca e nella sperimentazione, a favore degli interessi formativi delle aziende. C’è tuttavia un enorme difetto nell’analisi di Reich: considerare il lavoro immateriale solo come “manipolazione dei simboli” esclude una serie di componenti fondamentali e determinanti anche sul piano della resistenza ad un sistema che ci vorrebbe tutti prosumer della conoscenza. Il lavoro immateriale è anche e soprattutto un complesso sistema comunicativo-relazionale basato sui desideri di singoli individui che però sono membri di una collettività. Partire dai desideri per arrivare a recuperare le relazioni tra i singoli è un elemento fondamentale e questo può avvenire attraverso l’utilizzo della conoscenza e dei processi comunicativi di cui tutti deteniamo i mezzi di produzione. In un sistema così debole perché basato esclusivamente sulla astrazione ed elaborazione dei simboli è possibile recuperare tutta la materialità della produzione attraverso strumenti la cui proprietà è nostra. Nel XIX secolo i luddisti si organizzarono nella creazione di un immaginario che arrivasse alla distruzione della macchine. Nel 2010 lo stesso spirito luddista può essere recuperato all’interno dei processi di comunicazione, utilizzando gli stessi strumenti che portano guadagno e profitto per le aziende per garantirci sapere libero e conoscenza svincolata dal potere.
In conclusione
In questo Speciale abbozzeremo una ricostruzione della figura sociale del “giovane”. Ci sembra opportuno premettere che l’idea di uno stato intermedio fra l’infanzia e l’età adulta si è sviluppata relativamente tardi, durante il periodo dei “30 gloriosi” (‘50-‘70), ed è tuttora un concetto in mutamento ed espansione. Basti solo considerare che, a differenza di come avveniva pochi decenni fa, oggi si è giovani anche a quarant’anni. Potremmo scrivere enciclopedie cercando di ricostruire il più fedelmente possibile la condizione oggettiva di questa generazione. Ma forse non ne vale neanche la pena. Sappiamo fin troppo bene che se alla condizione oggettiva non corrisponde la percezione soggettiva di tale condizione, allora ben pochi cambiamenti sono possibili. Abbiamo quindi scelto di dare parola ai “giovani”, di lasciare che si raccontino, che dicano chi sono, cosa fanno, cosa vorrebbero cambiare, quali sono le loro aspettative … insomma, esiste una comune percezione soggettiva tra persone che niente hanno a che fare tra di loro per capitale culturale, sociale e economico? Esiste una “questione generazionale”? La si può delineare a partire dai racconti e dalle esperienze di chi la vive? E’ sempre più urgente e necessario iniziare a tracciare le prime pennellate di questo affresco. E’ arrivata l’ora di cominciare ad autonarrarci. Perché la nostra è anche una scommessa politica. Che si gioca a partire dai desideri e dai bisogni di noi giovani, e non dalle provocazioni dei neoliberisti di destra e di sinistra che, dopo aver ipotecato il futuro della nostra generazione, vogliono attaccare ulteriormente i redditi e il welfare state vaneggiando di meritocrazia.
Etichette:
Editoriale,
Giovani,
Lavoro,
Merito
Racconti di viaggio: this is my heart
Tornata dal viaggio in Palestina provo a scrivere qualche riga su questa esperienza. Il foglio è bianco e vorrei riempirlo di indignazione, di rabbia, di condanna ai nostri governi europei, agli Usa. Alla fine decido che ciò che serve è un discorso chiaro, un’analisi storico-politica che tenti di offrire la giusta interpretazione dei fatti a chi legge, che dia l’opportunità di capire come stanno realmente le cose. Perché io le ho viste, devono credermi.
Poi realizzo che di gente che ha la verità in tasca ce n’è tanta (e pure mille volte più convincente di me), e che il massimo che posso fare è trovare un filo logico al groviglio di pensieri che ho portato con me al ritorno da un’esperienza così forte. Il punto è che tutto questo groviglio è ASSURDO e solo provare a parlare della nuda e cruda realtà ha un senso.
Allora chiudo gli occhi e vedo Bil’in, un villaggio palestinese che vive di pastorizia e degli ulivi che crescono sulle sue colline. Queste, però, sono squarciate dal muro (che per ora è ancora allo stato di corridoio di recinzioni e filo spinato). Da cinque anni, ogni venerdì, la gente di Bil’in e di altri villaggi, accompagnata da alcuni internazionali, si reca davanti al muro e protesta, in modo assolutamente pacifico, armata ‘solo’ della determinazione che da 62 anni accompagna il popolo palestinese nella sua instancabile lotta per la libertà. Il diffondersi della protesta non violenta disturba molto Israele, disturba più di un ragazzo che decide di farsi saltare in aria, convinto che sia sempre meglio vivere il paradiso che ha nella sua testa, e per cui si farà scoppiare, piuttosto che vivere in questo inferno, e che gli resta solo questa scelta per lottare contro l’occupazione. Negli ultimi mesi i soldati israeliani hanno condotto in prigione molti appartenenti e attivisti ai movimenti non violenti che si stanno espandendo, pur con mille difficoltà, in tutta la Cisgiordania e Gaza. In fondo, i kamikaze purtroppo fanno comodo a Israele: come legittimare, altrimenti, la sua lotta per la sicurezza e la sua politica di occupazione militare?
Eyad Burat, leader del movimento di Bil’in, ci accoglie in casa sua, con la generosa ospitalità che ho riscontrato in ogni palestinese che ho conosciuto. Ci presenta così la sua piccola figlia di cinque o sei anni che è tutta intenta a sistemarsi una kefia a mo’di vestito: “this is my heart”. Poi ci mostra un video di una delle manifestazioni del venerdì in cui lo vedo in corteo con in braccio la bambina: aveva portato con sé il suo cuore in quella lotta non violenta per la sua terra rubata. Qualche settimana prima del nostro arrivo, ci racconta, il suo caro amico Bassen era stato ucciso da un proiettile a gas lacrimogeno lanciato dai soldati israeliani al di là della recinzione. Una delle migliaia di vittime di questa politica di oppressione. Usciamo di casa e percorriamo il tragitto consueto delle manifestazioni, dirigendoci verso il muro. Mi fermo dopo pochi passi, non riesco a proseguire. Il mio istinto del ‘vedere fotografare documentare’ mi ha abbandonata, sopraffatto da un unico pensiero: ‘se vedo qualcos’altro scoppio’. Si è fatta sera ed è ora di tornare sul pullman. Eyad percorre con noi qualche metro e poi ci saluta dicendo “ci rivedremo quando la Palestina sarà libera!”. E’ troppo, scoppio in un pianto silenzioso. Lui, che vive ogni giorno questo inferno, ci crede davvero: allora perché sto piangendo?
Dal finestrino saluto con lo sguardo i bambini di Bil’in che mi sorridono o mi guardano incuriositi. Mi ricordano i bambini con cui ho parlato a Nablus, di fronte una casa ricostruita di recente che qualche anno fa era stata letteralmente rasa al suolo da bulldozzer israeliani. Dentro c’era un’intera famiglia di undici persone, l’undicesima era ancora nella pancia della mamma. E tutta questa devastazione perché? Perché vivevano dove non potevano vivere, perché erano ciò che non potevano essere, palestinesi. Mi ricordano anche i bambini di At-Twani, un villaggio di pastori che ha visto sorgere nella collina di fronte un avamposto israeliano (che è il primo passo per la costruzione di un vero e proprio insediamento). Ogni giorno andando e tornando da scuola i bambini e gli stessi internazionali che li accompagnano per proteggerli rischiano di venire picchiati con catene e bastoni dai coloni dell’avamposto. Mi ricordano le due bambine che passeggiavano a Hebron, città palestinese, mano nella mano per le vie del Suq, il mercato. Solo una rete protettiva incastrata tra le case impediva all’immondizia lanciata dai coloni insediati nei piani alti delle abitazioni di cader loro in testa.
Il 5 gennaio rientriamo in Israele, diretti all’aeroporto di Tel Aviv. La vita qui sembra aver ripreso a correre sui binari giusti. Niente più checkpoint, con le loro infinite ore di attesa per raggiungere la scuola, l’università, il lavoro; niente più cumuli di terra o blocchi di pietra improvvisati da un giorno all’altro che impediscono di tornare a dormire la sera a casa propria; niente più tornelli per andare a pregare in moschea; niente più militari che ti possono fermare in qualsiasi momento per chiederti cosa stai facendo, insultarti, controllarti i documenti con lentezza esasperante; niente più mancanza d’acqua potabile perché l’insediamento di fronte a casa tua ne ha il controllo e t’impedisce di fruirne; niente più arresti nel pieno della notte di uomini, donne, bambini, non importa; niente più timore che mi tolgano la casa in cui vivo e di finire in un campo profughi…
Era tutto solo un brutto sogno?
Poi realizzo che di gente che ha la verità in tasca ce n’è tanta (e pure mille volte più convincente di me), e che il massimo che posso fare è trovare un filo logico al groviglio di pensieri che ho portato con me al ritorno da un’esperienza così forte. Il punto è che tutto questo groviglio è ASSURDO e solo provare a parlare della nuda e cruda realtà ha un senso.
Allora chiudo gli occhi e vedo Bil’in, un villaggio palestinese che vive di pastorizia e degli ulivi che crescono sulle sue colline. Queste, però, sono squarciate dal muro (che per ora è ancora allo stato di corridoio di recinzioni e filo spinato). Da cinque anni, ogni venerdì, la gente di Bil’in e di altri villaggi, accompagnata da alcuni internazionali, si reca davanti al muro e protesta, in modo assolutamente pacifico, armata ‘solo’ della determinazione che da 62 anni accompagna il popolo palestinese nella sua instancabile lotta per la libertà. Il diffondersi della protesta non violenta disturba molto Israele, disturba più di un ragazzo che decide di farsi saltare in aria, convinto che sia sempre meglio vivere il paradiso che ha nella sua testa, e per cui si farà scoppiare, piuttosto che vivere in questo inferno, e che gli resta solo questa scelta per lottare contro l’occupazione. Negli ultimi mesi i soldati israeliani hanno condotto in prigione molti appartenenti e attivisti ai movimenti non violenti che si stanno espandendo, pur con mille difficoltà, in tutta la Cisgiordania e Gaza. In fondo, i kamikaze purtroppo fanno comodo a Israele: come legittimare, altrimenti, la sua lotta per la sicurezza e la sua politica di occupazione militare?
Eyad Burat, leader del movimento di Bil’in, ci accoglie in casa sua, con la generosa ospitalità che ho riscontrato in ogni palestinese che ho conosciuto. Ci presenta così la sua piccola figlia di cinque o sei anni che è tutta intenta a sistemarsi una kefia a mo’di vestito: “this is my heart”. Poi ci mostra un video di una delle manifestazioni del venerdì in cui lo vedo in corteo con in braccio la bambina: aveva portato con sé il suo cuore in quella lotta non violenta per la sua terra rubata. Qualche settimana prima del nostro arrivo, ci racconta, il suo caro amico Bassen era stato ucciso da un proiettile a gas lacrimogeno lanciato dai soldati israeliani al di là della recinzione. Una delle migliaia di vittime di questa politica di oppressione. Usciamo di casa e percorriamo il tragitto consueto delle manifestazioni, dirigendoci verso il muro. Mi fermo dopo pochi passi, non riesco a proseguire. Il mio istinto del ‘vedere fotografare documentare’ mi ha abbandonata, sopraffatto da un unico pensiero: ‘se vedo qualcos’altro scoppio’. Si è fatta sera ed è ora di tornare sul pullman. Eyad percorre con noi qualche metro e poi ci saluta dicendo “ci rivedremo quando la Palestina sarà libera!”. E’ troppo, scoppio in un pianto silenzioso. Lui, che vive ogni giorno questo inferno, ci crede davvero: allora perché sto piangendo?
Dal finestrino saluto con lo sguardo i bambini di Bil’in che mi sorridono o mi guardano incuriositi. Mi ricordano i bambini con cui ho parlato a Nablus, di fronte una casa ricostruita di recente che qualche anno fa era stata letteralmente rasa al suolo da bulldozzer israeliani. Dentro c’era un’intera famiglia di undici persone, l’undicesima era ancora nella pancia della mamma. E tutta questa devastazione perché? Perché vivevano dove non potevano vivere, perché erano ciò che non potevano essere, palestinesi. Mi ricordano anche i bambini di At-Twani, un villaggio di pastori che ha visto sorgere nella collina di fronte un avamposto israeliano (che è il primo passo per la costruzione di un vero e proprio insediamento). Ogni giorno andando e tornando da scuola i bambini e gli stessi internazionali che li accompagnano per proteggerli rischiano di venire picchiati con catene e bastoni dai coloni dell’avamposto. Mi ricordano le due bambine che passeggiavano a Hebron, città palestinese, mano nella mano per le vie del Suq, il mercato. Solo una rete protettiva incastrata tra le case impediva all’immondizia lanciata dai coloni insediati nei piani alti delle abitazioni di cader loro in testa.
Il 5 gennaio rientriamo in Israele, diretti all’aeroporto di Tel Aviv. La vita qui sembra aver ripreso a correre sui binari giusti. Niente più checkpoint, con le loro infinite ore di attesa per raggiungere la scuola, l’università, il lavoro; niente più cumuli di terra o blocchi di pietra improvvisati da un giorno all’altro che impediscono di tornare a dormire la sera a casa propria; niente più tornelli per andare a pregare in moschea; niente più militari che ti possono fermare in qualsiasi momento per chiederti cosa stai facendo, insultarti, controllarti i documenti con lentezza esasperante; niente più mancanza d’acqua potabile perché l’insediamento di fronte a casa tua ne ha il controllo e t’impedisce di fruirne; niente più arresti nel pieno della notte di uomini, donne, bambini, non importa; niente più timore che mi tolgano la casa in cui vivo e di finire in un campo profughi…
Era tutto solo un brutto sogno?
Essere poesia a Milano #2
Siamo ufficialmente la generazione del fallimento: abbiamo tradito le aspettative di tutti. I nostri genitori ci hanno consegnato il Sessantotto nelle mani e noi l’abbiamo fatto precipitare sul pavimento. Con il dito puntato, ora ci accusano di aver ucciso i loro sogni. Dicono che siamo superficiali, immobili, spudoratamente ignoranti, viziati, amorali, apatici. La coscienza sociale è morta, c'è La Crisi, adesso invece di Togliatti ecco Bersani e si è così bruscamente passati dal coraggio dell'estremismo alla statica mediocrità, causa ed effetto dell'ormai tipica atmosfera nonsense che si respira tra le pagine dei quotidiani. Ed è tutta colpa nostra, delle nostre mani ferme. Noi siamo, generalmente, la gioventù-bue cui bisogna impedire di bere a suon di decreti legge. Nel 1960 Moravia pubblicava “La Noia”, adesso c’è Federico Moccia ad alleggerirci gli animi, prodotto diretto di innegabili richieste di mercato. Abbiamo ucciso anche la Poesia, con i nostri SMS avocalici, le kappa usate a sproposito e la nostra, già citata, impermeabilità. Abbiamo accoltellato Majakovskij, girando altrove lo sguardo mentre si dissanguava in un angolo. Ci accusano di aver perduto “la meraviglia”, nel senso socratico del termine. Tuttavia, personalmente, trovo che questi atti d'accusa siano riduttivi, e addirittura errati. Noi giovani non siamo colpevoli, siamo soltanto rassegnati, con il capo chino sotto le spalle pesanti. Stiamo stracciando i nostri talenti perché con l'Arte non si mangia e poi “chi vuoi che mi pubblichi, sono figlio di nessuno” (cit.). Stiamo morendo, schiacciati dalla tipica mentalità italiana fatta di raccomandazioni, trucchi, becero clientelismo e abbiamo così poche alternative verso cui girare lo sguardo! “Carpe diem” è diventato imperativo categorico: il passato è così strenuamente difeso da coloro che l’hanno costruito da non permettere nessuno spiraglio ed il futuro è talmente incerto da essere, in ultima analisi, assolutamente non valutabile. Dateci il respiro, quindi, voi che tutto d'un fiato avete viaggiato in aereo, trapiantato un cuore, camminato sulla luna e scalato l'Everest! Siate poi rapidi nella vostra concessione, perché “è questo il modo in cui finisce il mondo / Non già con uno schianto ma con un lamento.” (Eliot, “The Hollow Men”)
Ed ora, voltando pagina per ritornare, forse, ad innamorarci dei papaveri, questa è l'opera di Vittorio. Si intitola, semplicemente, “Mia 33” ed è stata scritta, con violenza poco primaverile, proprio il ventuno di Marzo. Colpisce perché immediata: i versi pungono, vergati con la decisione tipica del rifiuto, dell'umana insofferenza all'umano che urla, sola, nel bel mezzo di una stanza colma di persone.
Netturbini
Universali
Raccoglitori
di spazzatura
analitica
su fogli sprecati
Vergare
righi
di illusioni
di grandezza
in olezzo
di santità
e aspirazione
d'eternità
Torniamo
a scappare
da bionde barbie
dai pantaloni leopardati
dalla vista corta.
Questa rubrica appartiene a chi ci scrive, perciò inviate le vostre opere a: tappetoletterario@libero.it
Ed ora, voltando pagina per ritornare, forse, ad innamorarci dei papaveri, questa è l'opera di Vittorio. Si intitola, semplicemente, “Mia 33” ed è stata scritta, con violenza poco primaverile, proprio il ventuno di Marzo. Colpisce perché immediata: i versi pungono, vergati con la decisione tipica del rifiuto, dell'umana insofferenza all'umano che urla, sola, nel bel mezzo di una stanza colma di persone.
Netturbini
Universali
Raccoglitori
di spazzatura
analitica
su fogli sprecati
Vergare
righi
di illusioni
di grandezza
in olezzo
di santità
e aspirazione
d'eternità
Torniamo
a scappare
da bionde barbie
dai pantaloni leopardati
dalla vista corta.
Questa rubrica appartiene a chi ci scrive, perciò inviate le vostre opere a: tappetoletterario@libero.it
Criminalità organizzata: dalla lupara al mercato globale
Negli ultimi cinquant’anni la criminalità organizzata ha subito una radicale trasformazione, scardinando i vecchi luoghi comuni e le analisi arretrate con cui fino ad oggi si è affrontato il fenomeno; ha saputo costruire un sistema di relazioni capaci di unificare le attività criminali tradizionali e i centri dell’economia legale e del potere politico nelle aree in cui si è radicata.
Dopo aver preso piede nei territori d'origine, in tempi e con modalità (violenza brutale, omertà, estorsioni) ormai note, “le mafie” hanno saputo adattarsi ai mutati scenari, nazionali e internazionali, politici ed economici, sfruttando, ad esempio, il libero mercato e i meccanismi economici della globalizzazione neoliberista a noi contemporanea.
L'idea che le organizzazioni di stampo mafioso allignino là dove c'è miseria e povertà è un'idea antica e altrettanto falsa. Il mafioso vuole due cose: il potere innanzitutto e conseguentemente la ricchezza. E quindi non tratta con i miserabili, tratta con i potenti.
Dalla fine degli anni Cinquanta, sempre più esponenti delle organizzazioni malavitose si stabiliscono, spesso forzosamente, nei centri urbani del nord Italia.
La città che si rivelerà più accogliente sarà proprio Milano, capitale del boom economico e culla della finanza italiota. Qui arriveranno Joe Adonis, mafioso estradato dagli Stati Uniti, che farà fortuna grazie allo sfruttamento dell'industria del divertimento (night club, gioco d'azzardo, prostituzione) e Luciano Liggio, latitante di Cosa Nostra, più avvezzo ai sequestri di persona.
In seguito i confini del Bel Paese non saranno sufficienti a contenere le spinte “espansionistiche” delle organizzazioni criminali: dagli anni Settanta, infatti, la rete dei traffici inizierà a varcare i confini della penisola, sia per il bisogno di fuggire da un controllo legislativo sempre più stringente (quando applicato), sia per la necessità di estendere gli affari in nuovi mercati, dove le loro competenze sono sempre più richieste.
Partendo dalle comunità italiane d’immigrati sparse in molte zone del pianeta, rastrellando attività commerciali e imprenditoriali già presenti, le holding criminali hanno espanso in questi anni la loro azione e il loro controllo, trasformandosi in strutture imprenditoriali che, parallelamente alle attività “tradizionali” (estorsioni, narcotraffico, commercio di armi), hanno accresciuto la capacità non solo di convivere con le istituzioni e lo Stato, ma anche di utilizzare gli strumenti legali dell'economia di mercato per dettare regole e leggi.
Le organizzazioni criminali italiane hanno così superato prima i confini del Mezzogiorno italiano, che un tempo rappresentava la loro roccaforte, poi quelli dell'intera penisola. Ora i capitali legali e illegali nascono e si muovono in tutte le direzioni e vengono accumulati in molti Paesi.
L'innovazione di questa “nuova” criminalità sta, in primo luogo, nell'avere assunto una struttura “complessa” (piramidale, come Cosa Nostra e la cupola, o rizomatica, come le 'ndrine calabresi o i clan campani), in grado di funzionare nonostante la perdita di pezzi importanti dell'ingranaggio; in secondo luogo, nell'aver reso possibile una accumulazione di capitale tale da aver creato un vero e proprio modello alternativo di produzione di merci e ricchezza, ormai parallelo a quello capitalistico tradizionale; infine, nella capacità di adattamento e di influenza decisionale che le organizzazioni criminali dimostrano quotidianamente di avere in qualunque constesto si trovino.
Non è più pensabile ritenere la criminalità un fenomeno marginale e ininfluente, a livello storiografico come politico. È necessario comprendere la rilevanza e l'incisività che il fenomeno riveste sulla scena mondiale.
Dopo aver preso piede nei territori d'origine, in tempi e con modalità (violenza brutale, omertà, estorsioni) ormai note, “le mafie” hanno saputo adattarsi ai mutati scenari, nazionali e internazionali, politici ed economici, sfruttando, ad esempio, il libero mercato e i meccanismi economici della globalizzazione neoliberista a noi contemporanea.
L'idea che le organizzazioni di stampo mafioso allignino là dove c'è miseria e povertà è un'idea antica e altrettanto falsa. Il mafioso vuole due cose: il potere innanzitutto e conseguentemente la ricchezza. E quindi non tratta con i miserabili, tratta con i potenti.
Dalla fine degli anni Cinquanta, sempre più esponenti delle organizzazioni malavitose si stabiliscono, spesso forzosamente, nei centri urbani del nord Italia.
La città che si rivelerà più accogliente sarà proprio Milano, capitale del boom economico e culla della finanza italiota. Qui arriveranno Joe Adonis, mafioso estradato dagli Stati Uniti, che farà fortuna grazie allo sfruttamento dell'industria del divertimento (night club, gioco d'azzardo, prostituzione) e Luciano Liggio, latitante di Cosa Nostra, più avvezzo ai sequestri di persona.
In seguito i confini del Bel Paese non saranno sufficienti a contenere le spinte “espansionistiche” delle organizzazioni criminali: dagli anni Settanta, infatti, la rete dei traffici inizierà a varcare i confini della penisola, sia per il bisogno di fuggire da un controllo legislativo sempre più stringente (quando applicato), sia per la necessità di estendere gli affari in nuovi mercati, dove le loro competenze sono sempre più richieste.
Partendo dalle comunità italiane d’immigrati sparse in molte zone del pianeta, rastrellando attività commerciali e imprenditoriali già presenti, le holding criminali hanno espanso in questi anni la loro azione e il loro controllo, trasformandosi in strutture imprenditoriali che, parallelamente alle attività “tradizionali” (estorsioni, narcotraffico, commercio di armi), hanno accresciuto la capacità non solo di convivere con le istituzioni e lo Stato, ma anche di utilizzare gli strumenti legali dell'economia di mercato per dettare regole e leggi.
Le organizzazioni criminali italiane hanno così superato prima i confini del Mezzogiorno italiano, che un tempo rappresentava la loro roccaforte, poi quelli dell'intera penisola. Ora i capitali legali e illegali nascono e si muovono in tutte le direzioni e vengono accumulati in molti Paesi.
L'innovazione di questa “nuova” criminalità sta, in primo luogo, nell'avere assunto una struttura “complessa” (piramidale, come Cosa Nostra e la cupola, o rizomatica, come le 'ndrine calabresi o i clan campani), in grado di funzionare nonostante la perdita di pezzi importanti dell'ingranaggio; in secondo luogo, nell'aver reso possibile una accumulazione di capitale tale da aver creato un vero e proprio modello alternativo di produzione di merci e ricchezza, ormai parallelo a quello capitalistico tradizionale; infine, nella capacità di adattamento e di influenza decisionale che le organizzazioni criminali dimostrano quotidianamente di avere in qualunque constesto si trovino.
Non è più pensabile ritenere la criminalità un fenomeno marginale e ininfluente, a livello storiografico come politico. È necessario comprendere la rilevanza e l'incisività che il fenomeno riveste sulla scena mondiale.
Rubrica Ecologica
Nel proseguire l’analisi della relazione tra l’ecosistema terra e le società umane, iniziata negli scorsi numeri, ci sembra ora doveroso soffermarci sulla questione dei trend demografici, della loro sostenibilità e delle loro conseguenze.
La questione delle problematiche legate alla crescita della popolazione è già sollevata nel celebre saggio di Thomas Malthus “An Essay on the Principle of Population” del 1798. La tesi di fondo sostenuta da Malthus, e ripresa poi molti anni dopo da Paul Ehrlich nel libro “The Population Bomb” (1968), è che la crescita della produttività agricola non sarà in futuro in grado di tenere il passo con la crescita della popolazione. Nel primo caso, infatti, si tratterebbe di una progressione lineare, mentre nel secondo di una curva di crescita esponenziale.
E’ interessante osservare come le previsioni dei due autori si siano solo in minima parte realizzate: Malthus non aveva tenuto conto della scoperta dei combustibili fossili, motore della rivoluzione industriale, come Ehrlich non poteva prevedere l’enorme crescita della produttività agricola avvenuta con la Green Revolution.
Le lezioni da imparare sono molteplici: gli indici di popolazione sono in fondo solo una delle variabili in gioco, dal valore di per sè scarsamente esplicativo se non sono visti in relazione alla dimensione politica, economica e all’innovazione tecnologica. Sono inoltre dati, quelli relativi per esempio ai tassi di natalità, poco utili in forma aggregata, ma estremamente interessanti se esaminati e comparati a livello regionale.
Questi dati ci mostrano oggi che la maggior parte della crescita della popolazione avviene nei cosiddetti “paesi in via di sviluppo”, mentre l’incidenza demografica del mondo sviluppato crolla progressivamente. Si assiste, in questi paesi ricchi, ad un progressivo invecchiamento della popolazione, fenomeno che colpisce in particolare modo Corea del Sud e Giappone, ma anche Europa e Stati Uniti. Il 2010 sarà inoltre il primo anno nella storia in cui la maggior parte della popolazione mondiale vive in città invece che in campagna. Anche l’urbanizzazione cresce in particolare nei paesi asiatici, africani e sud-americani, con lo sviluppo di enormi agglomerati urbani.
Se, come abbiamo visto, è meglio astenersi dal pronunciare apocalittiche e solenni previsioni di lungo periodo, i ragionamenti di Malthus e Ehrlich non sono tuttavia da rigettare in toto e ci portano ad alcune semplici conclusioni: la prima di queste è che un mondo in cui tutti gli esseri umani godano dell’attuale stile di vita occidentale è fisicamente insostenibile. La capacità ecologica della terra è infatti insufficiente a soddisfare una popolazione mondiale con un consumo pro capite di risorse come quello dell’europeo o dell’americano medio.
La seconda conclusione che emerge è che la legittima pretesa e il perseguimento di una maggiore ricchezza materiale da parte di questa crescente, oltre che assolutamente maggioritaria, parte della popolazione mondiale è in diretta contrapposizione con la ferma intenzione da parte degli stati ricchi di mantenere, ed anzi accrescere, l’attuale livello di sviluppo economico e di conseguenza il consumo di risorse. Ci troviamo, insomma, in un gioco a somma zero in cui i benefici per un attore devono essere per forza bilanciati dalle perdite per un altro.
Le implicazioni sul piano geopolitico, se accettiamo questi presupposti, sono nella direzione di una significativa destabilizzazione dello scenario internazionale, uno scenario in cui all’arcaica divisione tra paesi sviluppati e in via di sviluppo si sovrappone quella tra paesi industrializzati in rapido invecchiamento (USA, Europa, Giappone), paesi in rapida crescita con una popolazione bilanciata (Cina, Brasile, India, Vietnam) e paesi estremamente giovani con governi ed economie deboli. Con un ulteriore aggravante: l’attuale contesto internazionale fa della competizione economica tra Stati uno dei suoi elementi principali. Tale presupposto renderà molto complicato trovare delle soluzioni in grado di porre la questione della limitazione dei consumi al centro del dibattito pubblico, in quanto le economie in crescita rivendicheranno il diritto di sfruttare i vantaggi ottenuti dalla recente industrializzazione, mentre le economie già consolidate difficilmente rinunceranno ai propri standard di consumo e ai vantaggi accumulati sugli altri paesi.
Un’obiezione verrà, a questo punto, inevitabilmente sollevata: come per Malthus ed Ehrlich, anche questa volta le previsioni si dimostreranno errate grazie allo sviluppo tecnologico e alla crescente efficienza dell’economia, che assicureranno benessere e ricchezza a tutti? E’ questo un tema che ci riserviamo di trattare nel prossimo numero.
La questione delle problematiche legate alla crescita della popolazione è già sollevata nel celebre saggio di Thomas Malthus “An Essay on the Principle of Population” del 1798. La tesi di fondo sostenuta da Malthus, e ripresa poi molti anni dopo da Paul Ehrlich nel libro “The Population Bomb” (1968), è che la crescita della produttività agricola non sarà in futuro in grado di tenere il passo con la crescita della popolazione. Nel primo caso, infatti, si tratterebbe di una progressione lineare, mentre nel secondo di una curva di crescita esponenziale.
E’ interessante osservare come le previsioni dei due autori si siano solo in minima parte realizzate: Malthus non aveva tenuto conto della scoperta dei combustibili fossili, motore della rivoluzione industriale, come Ehrlich non poteva prevedere l’enorme crescita della produttività agricola avvenuta con la Green Revolution.
Le lezioni da imparare sono molteplici: gli indici di popolazione sono in fondo solo una delle variabili in gioco, dal valore di per sè scarsamente esplicativo se non sono visti in relazione alla dimensione politica, economica e all’innovazione tecnologica. Sono inoltre dati, quelli relativi per esempio ai tassi di natalità, poco utili in forma aggregata, ma estremamente interessanti se esaminati e comparati a livello regionale.
Questi dati ci mostrano oggi che la maggior parte della crescita della popolazione avviene nei cosiddetti “paesi in via di sviluppo”, mentre l’incidenza demografica del mondo sviluppato crolla progressivamente. Si assiste, in questi paesi ricchi, ad un progressivo invecchiamento della popolazione, fenomeno che colpisce in particolare modo Corea del Sud e Giappone, ma anche Europa e Stati Uniti. Il 2010 sarà inoltre il primo anno nella storia in cui la maggior parte della popolazione mondiale vive in città invece che in campagna. Anche l’urbanizzazione cresce in particolare nei paesi asiatici, africani e sud-americani, con lo sviluppo di enormi agglomerati urbani.
Se, come abbiamo visto, è meglio astenersi dal pronunciare apocalittiche e solenni previsioni di lungo periodo, i ragionamenti di Malthus e Ehrlich non sono tuttavia da rigettare in toto e ci portano ad alcune semplici conclusioni: la prima di queste è che un mondo in cui tutti gli esseri umani godano dell’attuale stile di vita occidentale è fisicamente insostenibile. La capacità ecologica della terra è infatti insufficiente a soddisfare una popolazione mondiale con un consumo pro capite di risorse come quello dell’europeo o dell’americano medio.
La seconda conclusione che emerge è che la legittima pretesa e il perseguimento di una maggiore ricchezza materiale da parte di questa crescente, oltre che assolutamente maggioritaria, parte della popolazione mondiale è in diretta contrapposizione con la ferma intenzione da parte degli stati ricchi di mantenere, ed anzi accrescere, l’attuale livello di sviluppo economico e di conseguenza il consumo di risorse. Ci troviamo, insomma, in un gioco a somma zero in cui i benefici per un attore devono essere per forza bilanciati dalle perdite per un altro.
Le implicazioni sul piano geopolitico, se accettiamo questi presupposti, sono nella direzione di una significativa destabilizzazione dello scenario internazionale, uno scenario in cui all’arcaica divisione tra paesi sviluppati e in via di sviluppo si sovrappone quella tra paesi industrializzati in rapido invecchiamento (USA, Europa, Giappone), paesi in rapida crescita con una popolazione bilanciata (Cina, Brasile, India, Vietnam) e paesi estremamente giovani con governi ed economie deboli. Con un ulteriore aggravante: l’attuale contesto internazionale fa della competizione economica tra Stati uno dei suoi elementi principali. Tale presupposto renderà molto complicato trovare delle soluzioni in grado di porre la questione della limitazione dei consumi al centro del dibattito pubblico, in quanto le economie in crescita rivendicheranno il diritto di sfruttare i vantaggi ottenuti dalla recente industrializzazione, mentre le economie già consolidate difficilmente rinunceranno ai propri standard di consumo e ai vantaggi accumulati sugli altri paesi.
Un’obiezione verrà, a questo punto, inevitabilmente sollevata: come per Malthus ed Ehrlich, anche questa volta le previsioni si dimostreranno errate grazie allo sviluppo tecnologico e alla crescente efficienza dell’economia, che assicureranno benessere e ricchezza a tutti? E’ questo un tema che ci riserviamo di trattare nel prossimo numero.
Una nuova guerra fredda, il Medioriente in fiamme
Eserciti in allerta, navi americane dotate di sofisticati lanciatori antimissili nelle acque territoriali, presto un sistema integrato di missili “Patriot” lungo la costa degli Stati del GCC (Gulf Cooperation Council): non è una partita a Risiko e nemmeno la trama di un film, è lo scenario del Golfo Persico.
Mentre tutto l’occidente si allarma per la pericolosità di uno Stato sciita che porta lentamente avanti un programma nucleare, minacciando, a detta dei media, sia lo Stato di Israele che l’Europa, altre Nazioni, quelle posizionate lungo le coste del Golfo, che hanno tutte le ragioni di preoccuparsi, si stanno preparando al peggio già da molti anni, incrementando le spese militari e gli accordi con gli Stati Uniti.
Torniamo momentaneamente indietro alla morte di Maometto (nel 632) quando, per la successione, nascono le divisoni tra Sciiti e Sunniti. Le lotte precipitano nel sangue fino alla sconfitta dei sostenitori di Aly (cugino di Maometto), ed il popolo Sciita viene costretto ad emigrare in tutto il Medioriente, dove per secoli verrà sfruttato, represso e maltrattato. Nel 1979 i Fedayyin ed i Mujaheddin si uniscono all’esiliato Ayatollah Kohmeini che, fomentando una rivoluzione Islamica, riesce ad abbattere il regno dello Scià di Persia creando una repubblica basata sulla “Shari'a”, la legge di Dio.
Il programma di Kohmeini non si limitava all’Iran ma mirava ad esportare la rivoluzione in tutti quegli Stati monarchici governati da sunniti che per più di mille anni hanno sottomesso e represso le minoranze sciite al loro interno. L’Ayatollah voleva distruggere il sunnismo in tutta la regione ma gli Stati Uniti, con le monarchie Arabe, riuscirono a contenere la rivoluzione al solo territorio iraniano.
Dal 2003 un terremoto ha però scosso i Regni della penisola quando in Iraq il regime Sunnita per eccellenza viene abbattuto in nome della “democrazia”. Questa però non sempre porta alla pace: le richieste della nuova maggioranza sciita, repressa per anni, esplodono infatti in scontri violenti con la nuova minoranza sunnita, un vero e proprio “assist” all’Iran che, grazie ad ingenti finanziamenti, può contare su nuove maggioranze sciite anche in Libano, dove dal 2006 il partito di Hezbollah ha acquisito molto potere. È un asse tripartito, una Mezzaluna Sciita guidata da Teheran che illegalmente porta avanti una vera e propria guerra di religione, finanziando anche le rivolte tra Yemen e Arabia Saudita: qui la situazione è molto simile agli scontri paralleli tra USA e URSS durante la guerra fredda, ora però Ahmadinejad e chi con lui stanno solo testando le capacità dei loro finanziamenti alla ribellione, mentre in futuro lo scontro regionale è assicurato.
Pur essendo limitato da numerose sanzioni economiche, l’Iran riesce a muovere il proprio denaro grazie al sostegno di Dubai: sembrerà strano ma gli Emirati pur essendo Arabi preferiscono i soldi al rispetto dei valori sunniti ed è proprio questo che ha causato l’insolvenza della “Dubai World”. Secondo un operatore del settore economico di Dubai questa crisi è stata creata ad hoc da Gran Bretagna, Usa e Arabia Saudita per “tirare le orecchie” alla “Capitale del lusso”: ora Dubai è salva ma molto più controllata grazie all’intervento dell’Emiro di Abu Dhabi (di famiglia molto più religiosa e attenta alle politiche antisciite). È in corso quindi una vera e propria manovra di accerchiamento del nemico Iraniano: gli accordi di Dicembre del Gulf Cooperation Council incrementano ancora gli investimenti militari di collaborazione, gli Stati Uniti vengono autorizzati all’ingresso nel Golfo con le loro navi da guerra, a Febbraio, dopo un incontro con un rappresentante statunitense, il GCC ha comunicato l’installazione di uno scudo missilistico lungo tutta la costa dei sei Stati parte. L’Iran è deciso ad appropriarsi del trono di guida nel sistema egemonico regionale attraverso la destabilizzazione interna delle monarchie Arabe ed il finanziamento delle rivolte sciite, allo stesso modo gli Arabi sono intenzionati ad evitare con ogni mezzo possibile l’acquisto di ulteriore potere da parte della repubblica islamica: il prossimo teatro di conflitto sarà nuovamente il Golfo Persico.
Mentre tutto l’occidente si allarma per la pericolosità di uno Stato sciita che porta lentamente avanti un programma nucleare, minacciando, a detta dei media, sia lo Stato di Israele che l’Europa, altre Nazioni, quelle posizionate lungo le coste del Golfo, che hanno tutte le ragioni di preoccuparsi, si stanno preparando al peggio già da molti anni, incrementando le spese militari e gli accordi con gli Stati Uniti.
Torniamo momentaneamente indietro alla morte di Maometto (nel 632) quando, per la successione, nascono le divisoni tra Sciiti e Sunniti. Le lotte precipitano nel sangue fino alla sconfitta dei sostenitori di Aly (cugino di Maometto), ed il popolo Sciita viene costretto ad emigrare in tutto il Medioriente, dove per secoli verrà sfruttato, represso e maltrattato. Nel 1979 i Fedayyin ed i Mujaheddin si uniscono all’esiliato Ayatollah Kohmeini che, fomentando una rivoluzione Islamica, riesce ad abbattere il regno dello Scià di Persia creando una repubblica basata sulla “Shari'a”, la legge di Dio.
Il programma di Kohmeini non si limitava all’Iran ma mirava ad esportare la rivoluzione in tutti quegli Stati monarchici governati da sunniti che per più di mille anni hanno sottomesso e represso le minoranze sciite al loro interno. L’Ayatollah voleva distruggere il sunnismo in tutta la regione ma gli Stati Uniti, con le monarchie Arabe, riuscirono a contenere la rivoluzione al solo territorio iraniano.
Dal 2003 un terremoto ha però scosso i Regni della penisola quando in Iraq il regime Sunnita per eccellenza viene abbattuto in nome della “democrazia”. Questa però non sempre porta alla pace: le richieste della nuova maggioranza sciita, repressa per anni, esplodono infatti in scontri violenti con la nuova minoranza sunnita, un vero e proprio “assist” all’Iran che, grazie ad ingenti finanziamenti, può contare su nuove maggioranze sciite anche in Libano, dove dal 2006 il partito di Hezbollah ha acquisito molto potere. È un asse tripartito, una Mezzaluna Sciita guidata da Teheran che illegalmente porta avanti una vera e propria guerra di religione, finanziando anche le rivolte tra Yemen e Arabia Saudita: qui la situazione è molto simile agli scontri paralleli tra USA e URSS durante la guerra fredda, ora però Ahmadinejad e chi con lui stanno solo testando le capacità dei loro finanziamenti alla ribellione, mentre in futuro lo scontro regionale è assicurato.
Pur essendo limitato da numerose sanzioni economiche, l’Iran riesce a muovere il proprio denaro grazie al sostegno di Dubai: sembrerà strano ma gli Emirati pur essendo Arabi preferiscono i soldi al rispetto dei valori sunniti ed è proprio questo che ha causato l’insolvenza della “Dubai World”. Secondo un operatore del settore economico di Dubai questa crisi è stata creata ad hoc da Gran Bretagna, Usa e Arabia Saudita per “tirare le orecchie” alla “Capitale del lusso”: ora Dubai è salva ma molto più controllata grazie all’intervento dell’Emiro di Abu Dhabi (di famiglia molto più religiosa e attenta alle politiche antisciite). È in corso quindi una vera e propria manovra di accerchiamento del nemico Iraniano: gli accordi di Dicembre del Gulf Cooperation Council incrementano ancora gli investimenti militari di collaborazione, gli Stati Uniti vengono autorizzati all’ingresso nel Golfo con le loro navi da guerra, a Febbraio, dopo un incontro con un rappresentante statunitense, il GCC ha comunicato l’installazione di uno scudo missilistico lungo tutta la costa dei sei Stati parte. L’Iran è deciso ad appropriarsi del trono di guida nel sistema egemonico regionale attraverso la destabilizzazione interna delle monarchie Arabe ed il finanziamento delle rivolte sciite, allo stesso modo gli Arabi sono intenzionati ad evitare con ogni mezzo possibile l’acquisto di ulteriore potere da parte della repubblica islamica: il prossimo teatro di conflitto sarà nuovamente il Golfo Persico.
Etichette:
geopolitica,
guerra,
Medio Oriente,
Osservatorio sul mondo
Vienna e dopo Vienna
L'11 e il 14 marzo, a Vienna, si è tentato di mettere in scena una protesta europea contro il Processo di Bologna. Di questa protesta -il Bologna Burns- si possono leggere diversi reportage precisi e dettagliati (www.uniriot.org; bolognaburns.org), con questo articolo si spera invece di portare in luce alcune tematiche che, vivendo il contro-vertice in prima persona, mi sono sembrate interessanti.
Linguaggio: Già il fatto che si debbano svolgere assemblee e seminari in inglese (purtroppo non tutti) obbliga ad una riflessione politica importante sulla traduzione. Tradurre le proprie tematiche, le proprie proposte e i propri slogan non equivale ad un'operazione tecnica, ma significa sapere il contesto in cui temi e slogan vengono esplicitati, la situazione che si sta vivendo, le condizioni di vita. Significa conoscere le forme di vita che il linguaggio porta con sé.
Il Bologna Burns fa esplodere la questione della traduzione che, nel nostro tentativo di costruire network e reti orizzontali, non può essere delegata. La prospettiva che ci si apre è tradurre ogni nostra iniziativa locale (l'attacco locale è già offensiva globale contro il Bologna Process, contro il suo dispiegamento, e ciò è stato affermato più volte) e ogni seminario di autoformazione/Self-education nella dimensione globale. Tra l'altro questa prospettiva è già presupposta dal lavoro di ricerca che non può non essere globale.
Movimento: a) A Vienna l'apertura del famoso spazio europeo della protesta e del conflitto è avvenuto in una dimensione di massa e non di delegati. Con la nostra presenza massiccia come Network Uniriot, con i molti studenti dalla Germania e dai Balcani, si è creata una dinamica collettiva di partecipazione e di confronto. Probabilmente fare un paragone con la EuroMayDay può essere interessante. b) Vedere il movimento nel senso letterale di mobilità è fondamentale. Seppure con la sua difficoltà, possiamo farlo: le lotte per un nuovo welfare e contro il razzismo sono la lotta per la mobilità e quindi la lotta per costruire l'autoriforma/self-reform dell'università a livello globale. Ogni borsa di studio per la mobilità internazionale è un'opportunità per tessere relazioni e, quindi, costruire spazi diretti di comunicazione trans-nazionale.
Pratiche: a) Le pratiche/practices nella piazza. Si è scesi in piazza per bloccare le strade, gli incroci, la viabilità di Vienna. Quindi, ancora una volta, i blocchi, come in Francia, come in Italia, come in tutta Europa. L'orizzontalità è stata ricercata in tutti i modi ed in tutte le situazioni, dai seminari alla gestione della piazza, con risultati a volte confusi e altre volte molto interessanti.
b) Pratiche discorsive. Quello di cui si è parlato e il modo in cui se ne è parlato sono stati interessanti poiché la crisi, economica ed ecologica, è stata affrontata diverse volte insieme alla questione della precarietà con la presenza degli Squatting Teacher che hanno partecipato alla protesta.
Inoltre è stata ribadita la dimensione non solo europea della partita, con riferimento alla California, all'Iran, alla pervasività del Bologna Process oltre l'Europa.
Strumenti: L'utilizzo di strumenti di comunicazione nella rete è uno dei punti di forza della protesta viennese. Vienna è stata una buona palestra nell'utilizzo di social network e nella comunicazione multimediale. Le analogie con l'Iran e la California sono evidenti, tra YouTube e Twitter, dove esistono canali internazionali di studenti che protestano. Ci siamo posti così questioni sia interessanti che strane: - Cosa è un Bar Camp? - Come si utilizza Twitter? -Come si fa una diretta sui social network con sms? - Come si fa un documento wiki? - E la diretta streaming?
Non siamo tornati da Vienna con una rete europea, ma sono state create nuove e importanti relazioni. Solo all'interno di una dimensione di massa si potrà definire se riusciremo ad acquisire una forza europea e globale nelle lotte delle università e dei territori.
Linguaggio: Già il fatto che si debbano svolgere assemblee e seminari in inglese (purtroppo non tutti) obbliga ad una riflessione politica importante sulla traduzione. Tradurre le proprie tematiche, le proprie proposte e i propri slogan non equivale ad un'operazione tecnica, ma significa sapere il contesto in cui temi e slogan vengono esplicitati, la situazione che si sta vivendo, le condizioni di vita. Significa conoscere le forme di vita che il linguaggio porta con sé.
Il Bologna Burns fa esplodere la questione della traduzione che, nel nostro tentativo di costruire network e reti orizzontali, non può essere delegata. La prospettiva che ci si apre è tradurre ogni nostra iniziativa locale (l'attacco locale è già offensiva globale contro il Bologna Process, contro il suo dispiegamento, e ciò è stato affermato più volte) e ogni seminario di autoformazione/Self-education nella dimensione globale. Tra l'altro questa prospettiva è già presupposta dal lavoro di ricerca che non può non essere globale.
Movimento: a) A Vienna l'apertura del famoso spazio europeo della protesta e del conflitto è avvenuto in una dimensione di massa e non di delegati. Con la nostra presenza massiccia come Network Uniriot, con i molti studenti dalla Germania e dai Balcani, si è creata una dinamica collettiva di partecipazione e di confronto. Probabilmente fare un paragone con la EuroMayDay può essere interessante. b) Vedere il movimento nel senso letterale di mobilità è fondamentale. Seppure con la sua difficoltà, possiamo farlo: le lotte per un nuovo welfare e contro il razzismo sono la lotta per la mobilità e quindi la lotta per costruire l'autoriforma/self-reform dell'università a livello globale. Ogni borsa di studio per la mobilità internazionale è un'opportunità per tessere relazioni e, quindi, costruire spazi diretti di comunicazione trans-nazionale.
Pratiche: a) Le pratiche/practices nella piazza. Si è scesi in piazza per bloccare le strade, gli incroci, la viabilità di Vienna. Quindi, ancora una volta, i blocchi, come in Francia, come in Italia, come in tutta Europa. L'orizzontalità è stata ricercata in tutti i modi ed in tutte le situazioni, dai seminari alla gestione della piazza, con risultati a volte confusi e altre volte molto interessanti.
b) Pratiche discorsive. Quello di cui si è parlato e il modo in cui se ne è parlato sono stati interessanti poiché la crisi, economica ed ecologica, è stata affrontata diverse volte insieme alla questione della precarietà con la presenza degli Squatting Teacher che hanno partecipato alla protesta.
Inoltre è stata ribadita la dimensione non solo europea della partita, con riferimento alla California, all'Iran, alla pervasività del Bologna Process oltre l'Europa.
Strumenti: L'utilizzo di strumenti di comunicazione nella rete è uno dei punti di forza della protesta viennese. Vienna è stata una buona palestra nell'utilizzo di social network e nella comunicazione multimediale. Le analogie con l'Iran e la California sono evidenti, tra YouTube e Twitter, dove esistono canali internazionali di studenti che protestano. Ci siamo posti così questioni sia interessanti che strane: - Cosa è un Bar Camp? - Come si utilizza Twitter? -Come si fa una diretta sui social network con sms? - Come si fa un documento wiki? - E la diretta streaming?
Non siamo tornati da Vienna con una rete europea, ma sono state create nuove e importanti relazioni. Solo all'interno di una dimensione di massa si potrà definire se riusciremo ad acquisire una forza europea e globale nelle lotte delle università e dei territori.
Etichette:
Bologna process,
osservatorio sull'università,
Università
Il Grande Silenzio
Ultimamente, in particolare al di fuori dell'italico stivale, sta imperversando un'aria pesantissima sul Vaticano. In Italia ovviamente la bufera è arrivata sotto forma di leggera brezza primaverile ma, la gravità delle accuse ha fatto sì che qualche cosa sfuggisse alle maglie del controllo e arrivasse anche qui. Da una parte le accuse di pedofilia ecclesiastica, dall'altra gli insabbiamenti avvenuti grazie all'intervento delle gerarchie.
Curioso che tante denunce pubbliche dal balcone papale non siano state seguite dalle uniche denunce che abbiano una qualche utilità pratica, quelle penali. Curioso anche perché, in quanto prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede lo stesso Ratzinger deve essere venuto a conoscenza di situazioni sufficientemente gravi da essere passibili di denuncia, eppure nulla, il vuoto, il grande silenzio. Anzi, gli unici documenti che rivelano stralci di corrispondenza dell'allor prefetto indicano tutt'altra linea di condotta: l'attesa vince sull'azione.
Pur di sviare l'attenzione dal reale svolgimento dei fatti e dalle responsabilità individuali e culturali, si è preferito inventare una cospirazione massonico-ebraica e paragonare la pedofilia all'omosessualità, dando prova di un radicamento sulle stesse posizioni dei precedenti secoli (tuttavia possiamo sperare che, come per Galileo, i Beatles e la lapidazione della donna infedele sulla pubblica piazza anche su questo fra qualche millennio la santa sede esprimerà posizioni lievemente più aperte).
Si è notato che molto spesso i preti accusati di pedofilia vengono generalmente trasferiti in parrocchie italiane, una frequenza che potrebbe sembrare qualcosa di più di una mera coincidenza. Forse un indizio può essere il fatto che lo stesso partito di destra che ieri voleva “sterilizzare” i pedofili oggi fa scudo attorno al pontefice sbandierando il fantasma della cospirazione massonica.
Il trucco è vecchio quanto collaudato, una volta accusati e nell'impossibilità di provare la propria innocenza basta svilire gli accusatori ed i testimoni e allora ecco arrivare la sacra arrampicata sui vetri; la colpa non è da attribuirsi all'omertà ecclesiastica o alla repressione sessuale richiesta dalla disciplina clericale, la colpa è dei costumi, del disfacimento morale, o magari del singolo sacerdote che prima di essere prete è omosessuale (sic) ma non si disperi perché la scienza vaticana provvederà a curarlo e non dal desiderio di stuprare bambini ma da presunte “inclinazioni omosessuali” che sarebbero la causa prima del pernicioso atteggiamento. La cosa sarebbe di un delizioso humour nero se non implicasse sofferenze psicologiche atroci per le vittime. C'è da notare poi come la criminale storiella che equipara pedofilia ed omosessualità dimentichi le bambine vittime di abusi clericali; del resto, perché questa farsa grottesca sia anche solo pensabile, si devono cancellare le bambine e costituire giocoforza una gerarchia delle vittime: “I bambini non li abbiamo toccati e chi lo ha fatto era un finocchio che per sbaglio è diventato prete. Le bambine ? Quali bambine? Noi non abbiamo visto nessuna bambina”. Anche questo atteggiamento non ha nulla di sorprendente ma è, invece, decisamente normale per una gerarchia sessista e patriarcale barattare una ridicola scusa con l'integrità psicofisica delle donne.
La crocifissione della vittima per render salvo il carnefice non è l'unica strategia di copertura; si può anche ricorrere alla delegittimazione del sistema giudiziario tesa, quest’ultima a dimostrare che non serve che la questione sia trattata da un tribunale laico dato che esiste già una giustizia vaticana che dispone di metodi efficacissimi di indagine e condanna. Metodi come il “crimen solicitationis”, un documento interno della Congregazione per la Dottrina della Fede che delinea la procedura di diritto canonico destinata a trattare i casi di abusi sessuali per i quali ovviamente viene prescritta la più assoluta segretezza durante tutte le fasi del dibattimento.
Anche qui la faccenda è tragicomica visto e considerato che si pretende il predominio d'un tribunale interno, privo di qualsiasi giurisdizione reale, sul giudizio di un tribunale civile; passa poi la voglia di ridere quando ci si rende conto che questa pretesa è perfettamente coerente con tutto ciò che in passato è stato concesso al ministato vaticano: prebende ed elargizioni, esenzioni fiscali e dai controlli per l'operato dello IOR, leggi sanitarie su misura ed effettivamente non ci sarebbe nulla di strano se un bel giorno gli si concedesse pure di auto-assolversi dai propri crimini.
Curioso che tante denunce pubbliche dal balcone papale non siano state seguite dalle uniche denunce che abbiano una qualche utilità pratica, quelle penali. Curioso anche perché, in quanto prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede lo stesso Ratzinger deve essere venuto a conoscenza di situazioni sufficientemente gravi da essere passibili di denuncia, eppure nulla, il vuoto, il grande silenzio. Anzi, gli unici documenti che rivelano stralci di corrispondenza dell'allor prefetto indicano tutt'altra linea di condotta: l'attesa vince sull'azione.
Pur di sviare l'attenzione dal reale svolgimento dei fatti e dalle responsabilità individuali e culturali, si è preferito inventare una cospirazione massonico-ebraica e paragonare la pedofilia all'omosessualità, dando prova di un radicamento sulle stesse posizioni dei precedenti secoli (tuttavia possiamo sperare che, come per Galileo, i Beatles e la lapidazione della donna infedele sulla pubblica piazza anche su questo fra qualche millennio la santa sede esprimerà posizioni lievemente più aperte).
Si è notato che molto spesso i preti accusati di pedofilia vengono generalmente trasferiti in parrocchie italiane, una frequenza che potrebbe sembrare qualcosa di più di una mera coincidenza. Forse un indizio può essere il fatto che lo stesso partito di destra che ieri voleva “sterilizzare” i pedofili oggi fa scudo attorno al pontefice sbandierando il fantasma della cospirazione massonica.
Il trucco è vecchio quanto collaudato, una volta accusati e nell'impossibilità di provare la propria innocenza basta svilire gli accusatori ed i testimoni e allora ecco arrivare la sacra arrampicata sui vetri; la colpa non è da attribuirsi all'omertà ecclesiastica o alla repressione sessuale richiesta dalla disciplina clericale, la colpa è dei costumi, del disfacimento morale, o magari del singolo sacerdote che prima di essere prete è omosessuale (sic) ma non si disperi perché la scienza vaticana provvederà a curarlo e non dal desiderio di stuprare bambini ma da presunte “inclinazioni omosessuali” che sarebbero la causa prima del pernicioso atteggiamento. La cosa sarebbe di un delizioso humour nero se non implicasse sofferenze psicologiche atroci per le vittime. C'è da notare poi come la criminale storiella che equipara pedofilia ed omosessualità dimentichi le bambine vittime di abusi clericali; del resto, perché questa farsa grottesca sia anche solo pensabile, si devono cancellare le bambine e costituire giocoforza una gerarchia delle vittime: “I bambini non li abbiamo toccati e chi lo ha fatto era un finocchio che per sbaglio è diventato prete. Le bambine ? Quali bambine? Noi non abbiamo visto nessuna bambina”. Anche questo atteggiamento non ha nulla di sorprendente ma è, invece, decisamente normale per una gerarchia sessista e patriarcale barattare una ridicola scusa con l'integrità psicofisica delle donne.
La crocifissione della vittima per render salvo il carnefice non è l'unica strategia di copertura; si può anche ricorrere alla delegittimazione del sistema giudiziario tesa, quest’ultima a dimostrare che non serve che la questione sia trattata da un tribunale laico dato che esiste già una giustizia vaticana che dispone di metodi efficacissimi di indagine e condanna. Metodi come il “crimen solicitationis”, un documento interno della Congregazione per la Dottrina della Fede che delinea la procedura di diritto canonico destinata a trattare i casi di abusi sessuali per i quali ovviamente viene prescritta la più assoluta segretezza durante tutte le fasi del dibattimento.
Anche qui la faccenda è tragicomica visto e considerato che si pretende il predominio d'un tribunale interno, privo di qualsiasi giurisdizione reale, sul giudizio di un tribunale civile; passa poi la voglia di ridere quando ci si rende conto che questa pretesa è perfettamente coerente con tutto ciò che in passato è stato concesso al ministato vaticano: prebende ed elargizioni, esenzioni fiscali e dai controlli per l'operato dello IOR, leggi sanitarie su misura ed effettivamente non ci sarebbe nulla di strano se un bel giorno gli si concedesse pure di auto-assolversi dai propri crimini.
In Direzione Ostinata e contraria #3
Troppo spesso i media e le autorità attaccano gli artisti di strada definendoli “graffitari” (se va bene) o “imbratta-muri”, “vandali” senza però sapere in realtà di cosa stanno parlando... Questa rubrica si propone di avvicinarvi al complesso mondo dei graffiti e più in generale dell’arte di strada, focalizzando la vostra attenzione su questi esteti oltremodo bistrattati e sulla loro produzione artistica. Come farlo meglio se non sentendo la voce di uno di loro? A questo proposito ho intervistato Ivan Tresoldi, membro fondatore di Art Kitchen.
Lasciando la parola a Ivan...
Quando nasce la tua vena poetica e cosa ti ha spinto a portarla in strada? Già dagli studi liceali ho preso a cuore la poesia e mi ha interessato molto per la caratteristica di attraversare tutti i popoli e tutte le culture. La decisione di portarla in strada nasce tra il 2000 e il 2003, indipendentemente dal viaggio in Chiapas in cui sono entrato in contatto con l’Accion Poetica di Armando Alanís Pulido seppure poi quest’ultima costituisca una parte della mia poetica. Il vero motore di questa scelta è stata la forte voglia di riscatto sociale, questo perché ho sempre notato una mancanza di poesia nella nostra società e ritengo questa mancanza il sintomo di un’anomia delle relazioni sociali. Inoltre la poesia è troppo relegata, mettendola in strada l’ho resa pubblica e alla portata di tutti. Un po’ come in Art Kitchen dove facciamo società prima che arte.
Ecco... parlami di AK! Art Kitchen viene fondata nel 2007 da un progetto mio e di Jacopo Perfetti, con il tempo il collettivo è cresciuto e ora è composto da 13 persone. Nell’associazione l’obiettivo è quello di autoprodursi, infatti lavoriamo su differenti piani: dalla scuola in Palestina a mostre a Milano alla comunicazione per la grande azienda, il tutto con dei livelli di contraddizione e aderenza ai nostri valori che differiscono in base ai singoli progetti.
Appunto, non ritieni che collaborare sia con associazioni quali Emergency o a contatto con la popolazione di Haiti, sia con multinazionali come Nestlé porti a contraddirsi? Non pensi che lo stesso valga anche per aziende come LaRinascente? Non per giustificarmi, ma noi abbiamo lavorato solo indirettamente con Nestlé. Chiusa la parentesi quello che tu dici è molto vero, il problema nasce dal fatto che in Italia sono le grandi aziende che sostengono la cultura, e questo vale in particolare per LaRinascente e Campari, che hanno al loro attivo una lunga lista di artisti come Dudovich e Depero. Appunto per questo motivo noi lavoriamo con loro, poi per quel che mi riguarda ciò che davvero conta è il saldo delle pratiche. In maniera provocatoria potrei quasi dire che mi andrebbe bene lavorare per Nestlé, infatti “rubargli” soldi per restituirli ad Haiti ritengo che porti a produrre ecologia nel mondo.
Quindi preferisci sacrificare la coerenza per quei risultati? Si, per me vale più la pratica del pensiero, infatti l’intransigenza purtroppo non è applicabile a due modelli: la comunicazione e il “profitto”. E nel momento in cui vogliamo fare mostre a ingresso gratuito, portare avanti progetti educativi e pagare le 13 persone di AK i soldi da qualche parte devo trovarli...
Il problema é imputabile alle istituzioni che ignorano e anzi osteggiano l’arte? Certamente, e questo lo si vede particolarmente qui a Milano.
Cosa ne pensi delle distinzioni che tentano di fare fra arte e scarabocchi? I distinguo sono problematici, infatti non puoi dire che sia vandalismo o arte in base all’estetica ma se ha o meno un significato o una relazione fra il pubblico e l’autore da cui fluisce quell’opera, quindi non esistono scarabocchi o arte ma esiste condivisione e rispetto ad un atto che tu poni nel pubblico. Inoltre il bambino che “spacca” di tag un quartiere va compreso nel suo agire e accompagnato, qui invece di educare si criminalizza e si reprime. Quindi ben venga la parte “illegale” dell’arte come atto di protesta, magari le cose cambieranno e a quel punto il sottopassaggio di Romolo pieno di scritte diventerà colorato da disegni degli stessi autori!
Lasciando la parola a Ivan...
Quando nasce la tua vena poetica e cosa ti ha spinto a portarla in strada? Già dagli studi liceali ho preso a cuore la poesia e mi ha interessato molto per la caratteristica di attraversare tutti i popoli e tutte le culture. La decisione di portarla in strada nasce tra il 2000 e il 2003, indipendentemente dal viaggio in Chiapas in cui sono entrato in contatto con l’Accion Poetica di Armando Alanís Pulido seppure poi quest’ultima costituisca una parte della mia poetica. Il vero motore di questa scelta è stata la forte voglia di riscatto sociale, questo perché ho sempre notato una mancanza di poesia nella nostra società e ritengo questa mancanza il sintomo di un’anomia delle relazioni sociali. Inoltre la poesia è troppo relegata, mettendola in strada l’ho resa pubblica e alla portata di tutti. Un po’ come in Art Kitchen dove facciamo società prima che arte.
Ecco... parlami di AK! Art Kitchen viene fondata nel 2007 da un progetto mio e di Jacopo Perfetti, con il tempo il collettivo è cresciuto e ora è composto da 13 persone. Nell’associazione l’obiettivo è quello di autoprodursi, infatti lavoriamo su differenti piani: dalla scuola in Palestina a mostre a Milano alla comunicazione per la grande azienda, il tutto con dei livelli di contraddizione e aderenza ai nostri valori che differiscono in base ai singoli progetti.
Appunto, non ritieni che collaborare sia con associazioni quali Emergency o a contatto con la popolazione di Haiti, sia con multinazionali come Nestlé porti a contraddirsi? Non pensi che lo stesso valga anche per aziende come LaRinascente? Non per giustificarmi, ma noi abbiamo lavorato solo indirettamente con Nestlé. Chiusa la parentesi quello che tu dici è molto vero, il problema nasce dal fatto che in Italia sono le grandi aziende che sostengono la cultura, e questo vale in particolare per LaRinascente e Campari, che hanno al loro attivo una lunga lista di artisti come Dudovich e Depero. Appunto per questo motivo noi lavoriamo con loro, poi per quel che mi riguarda ciò che davvero conta è il saldo delle pratiche. In maniera provocatoria potrei quasi dire che mi andrebbe bene lavorare per Nestlé, infatti “rubargli” soldi per restituirli ad Haiti ritengo che porti a produrre ecologia nel mondo.
Quindi preferisci sacrificare la coerenza per quei risultati? Si, per me vale più la pratica del pensiero, infatti l’intransigenza purtroppo non è applicabile a due modelli: la comunicazione e il “profitto”. E nel momento in cui vogliamo fare mostre a ingresso gratuito, portare avanti progetti educativi e pagare le 13 persone di AK i soldi da qualche parte devo trovarli...
Il problema é imputabile alle istituzioni che ignorano e anzi osteggiano l’arte? Certamente, e questo lo si vede particolarmente qui a Milano.
Cosa ne pensi delle distinzioni che tentano di fare fra arte e scarabocchi? I distinguo sono problematici, infatti non puoi dire che sia vandalismo o arte in base all’estetica ma se ha o meno un significato o una relazione fra il pubblico e l’autore da cui fluisce quell’opera, quindi non esistono scarabocchi o arte ma esiste condivisione e rispetto ad un atto che tu poni nel pubblico. Inoltre il bambino che “spacca” di tag un quartiere va compreso nel suo agire e accompagnato, qui invece di educare si criminalizza e si reprime. Quindi ben venga la parte “illegale” dell’arte come atto di protesta, magari le cose cambieranno e a quel punto il sottopassaggio di Romolo pieno di scritte diventerà colorato da disegni degli stessi autori!
Iscriviti a:
Post (Atom)