Per abortire clandestinamente oggi non si usano più i ferri da calza ed il prezzemolo ha lasciato il posto ad un metodo molto più efficace, quasi invisibile: si chiama Cytotec ed è un gastroprotettore utile per la terapia delle ulcere gastroduodenali.
Può essere acquistato dietro ricetta medica alla modica cifra di 14 euro in farmacia e, se fosse un problema, il mercato nero può facilmente sopperire alla mancanza di prescrizione.
Le fasce "deboli", quelle più soggette all'uso del Cytotec, sono “casualmente” le meno tutelate dalla Legge 194: le straniere e le minorenni, soprattutto all’interno di quei contesti dove l’educazione sessuale scarseggia.
Se assunto nelle dosi indicate il farmaco non implica conseguenze diverse da un aborto spontaneo, per questo è difficile quantificarne l'uso.
Data la lenta assimilazione si assiste spesso a casi di sovradosaggio che implicano seri effetti collaterali, non ultimo, la morte.
L'uso del Cytotec è fortemente sconsigliato per l' interruzione di gravidanza: la stessa azienda produttrice elenca fra gli effetti collaterali la morte materna e fetale, l'iperstimolazione uterina, la rottura o perforazione
dell'utero, emboli da fluido amniotico, emorragie severe, ritenzione placentare.
L'aumento dell'uso di questo farmaco come interruttore di gravidanza, nell'ultimo periodo, non stupisce:
i numerosi attacchi alla 194, l'imbarazzante numero di medici obiettori e le fantozziane trafile burocratiche, sono già motivazioni più che sufficienti, ma se a questi dati si aggiunge il terrore suscitato dal Pacchetto Sicurezza e la convinzione, fomentata a lungo dai media, che i medici possano denunciare i migranti clandestini, si ottiene un quadro completo della situazione.
Il problema è particolarmente ostico e complesso, si tratta in realtà di due settori che non godono oggi di buona salute: il primo è l'autodeterminazione della donna, la possibilità di conoscere ed avere a disposizione tutti i mezzi per potere essere padrona del proprio corpo, il secondo riguarda i diritti umani delle donne straniere. Da una parte una società patriarcale, sempre più invadente, che vede la maternità come funzione ultima e naturale della donna in quanto angelo del focolare e l'uomo, ovviamente eterosessuale, potente capo della famiglia. Tutto ciò che non si conforma a questo modello viene quindi definito "deviante", qualcosa di malato che deve essere estirpato (qualcuno ha riassunto tale ottusa posizione utilizzando il termine "contro natura").
Dall'altra parte siamo di fronte ad una fascia di popolazione che viene tagliata completamente fuori dai diritti umani. Sulle spalle dei clandestini si sta costruendo un mercato vergognoso, in cui anche i diritti
fondamentali, come quello alla salute, devono essere acquistati in soldoni sonanti, un mercato in cui l'unica legge è dettata dal potente.
Le continue dichiarazioni razziste dei nostri governanti riempiono le prime pagine, mentre altre notizie
vengono accennate appena: una transessuale che si toglie la vita la vigilia di Natale nel CIE di Corelli; una prostituta a Bari che muore di tubercolosi, troppo terrorizzata dalla possibile denuncia per andare in ospedale, le donne che muoiono ogni anno di Cytotec perché a loro è preclusa la possibilità di abortire in ospedale.
Chi pensa che la 194 sia solo una legge che difende l'aborto è fuori strada: essa è nata per tutelare la salute e la consapevolezza della donna.
L’efficacia con cui viene applicata, parimenti, indica il livello di attenzione del nostro paese alle pari opportunità ed il fatto che ci siano tuttora molte persone che non riescono a beneficiarne implica che c’è ancora molto da fare.
mercoledì 17 marzo 2010
Biocarburanti? Sì, ma con cautela
Biocarburanti? Sì, ma con cautela
"L'uso di oli vegetali per il carburante dei motori può sembrare insignificante oggi, ma tali oli possono diventare, nel corso del tempo, importanti quanto i derivati dal petrolio e dal carbone dei nostri giorni" - Rudolf Diesel, 1912.
Solo ora, dopo 70 anni di dominazione dei combustibili fossili, si ritorna a parlare di biocarburanti, i combustibili gassosi o liquidi ricavati da materiale vegetale, e quindi da fonti rinnovabili, che, al contrario del GPL o del GNC, sono perfettamente compatibili con gli attuali sistemi di utilizzo (dall’autotrazione al riscaldamento) e miscelabili con i normali carburanti ad oggi maggiormente utilizzati.
Due sono le principali tipologie: il biodiesel e il bioetanolo. Il primo deriva da oli vegetali, il secondo dalla fermentazione di colture zuccherine. I loro effetti benefici sull’ambiente si misurano in una riduzione dei gas serra dal 40% al 100% per quanto riguarda il bioetanolo rispetto alla benzina; e fino al 70% per quanto riguarda il biodiesel rispetto al diesel. Non contribuirebbero, quindi, all’incremento dell’effetto serra, in quanto rilasciano nell’aria solo la quantità di anidride carbonica utilizzata dalla pianta durante la sua crescita, e diminuirebbero notevolmente l’emissione di monossido di carbonio e di idrocarburi incombusti.
La loro produzione, ancora molto bassa (in testa Stati Uniti e Brasile), sale ogni anno anche grazie a politiche di incentivi attuate da molti Paesi. Un importante fattore che potrebbe contribuire al successo di questi combustibili è, infatti, la volontà politica dell’Europa e degli USA di rendersi il più possibile indipendenti dal petrolio del Medio Oriente e dal gas naturale russo. Fu questa la ragione che spinse l’allora presidente americano Bush ad attuare una politica di forti incentivi (7 miliardi di dollari l’anno) volta all’incremento della produzione di etanolo da granoturco (136 miliardi di litri nel 2022). Aree sempre più vaste, una volta destinate alla produzione alimentare, sono state quindi destinate alla produzione di mais. Ma è proprio questo il "crimine contro l'umanità" di cui parlò, nel 2007, Jean Ziegler, inviato speciale dell’ONU per il diritto al cibo. Il boom dell’etanolo ha infatti notevolmente contribuito all’impennata dei prezzi agricoli. Per ovviare a queste problematiche iniziano a prendere piede i cosiddetti biocarburanti di seconda generazione, ricavati da materiale lignocellulosico, la parte “no food” della pianta. Il processo di conversione è però molto complesso e costoso, cosa che potrebbe vanificare i benefici ottenuti.
Ma quanto effettivamente questi biocombustibili gioverebbero all’ambiente in termini di riduzione di gas serra, e in particolare di CO2? Una previsione completa dei costi sia economici sia energetici (e quindi anche in termini di emissioni di gas serra) deve infatti prendere in considerazione, oltre all’impatto dell’etanolo al momento dell’utilizzo, anche gli effetti della produzione su larga scala della biomassa: dall’uso massiccio di fertilizzanti alla conversione di nuovi vasti appezzamenti di terra in terreni agricoli. La rimozione di foreste o praterie causerebbe il rilascio, per combustione o decomposizione, del carbonio fissato durante la loro crescita, per di più se l’area convertita aveva alti valori di fissazione del carbonio, le emissioni di CO2 dovute alla conversione dei terreni possono essere notevoli. Altri effetti di un’intensa agricoltura sono un aumento dell’erosione del suolo, il suo impoverimento, l’inquinamento delle acque e un declino della biodiversità.
Oggi sta prendendo piede sempre più velocemente una nuova generazione di biocarburanti: quelli derivati da microalghe. Queste potrebbero rappresentare un’interessante alternativa alle specie terrestri, grazie alla produttività notevolmente maggiore e al fatto che non sottrarrebbero terreni e acqua alle normali coltivazioni, evitando quindi una pericolosa competizione con la produzione di cibo per uomini e animali da allevamento.
"L'uso di oli vegetali per il carburante dei motori può sembrare insignificante oggi, ma tali oli possono diventare, nel corso del tempo, importanti quanto i derivati dal petrolio e dal carbone dei nostri giorni" - Rudolf Diesel, 1912.
Solo ora, dopo 70 anni di dominazione dei combustibili fossili, si ritorna a parlare di biocarburanti, i combustibili gassosi o liquidi ricavati da materiale vegetale, e quindi da fonti rinnovabili, che, al contrario del GPL o del GNC, sono perfettamente compatibili con gli attuali sistemi di utilizzo (dall’autotrazione al riscaldamento) e miscelabili con i normali carburanti ad oggi maggiormente utilizzati.
Due sono le principali tipologie: il biodiesel e il bioetanolo. Il primo deriva da oli vegetali, il secondo dalla fermentazione di colture zuccherine. I loro effetti benefici sull’ambiente si misurano in una riduzione dei gas serra dal 40% al 100% per quanto riguarda il bioetanolo rispetto alla benzina; e fino al 70% per quanto riguarda il biodiesel rispetto al diesel. Non contribuirebbero, quindi, all’incremento dell’effetto serra, in quanto rilasciano nell’aria solo la quantità di anidride carbonica utilizzata dalla pianta durante la sua crescita, e diminuirebbero notevolmente l’emissione di monossido di carbonio e di idrocarburi incombusti.
La loro produzione, ancora molto bassa (in testa Stati Uniti e Brasile), sale ogni anno anche grazie a politiche di incentivi attuate da molti Paesi. Un importante fattore che potrebbe contribuire al successo di questi combustibili è, infatti, la volontà politica dell’Europa e degli USA di rendersi il più possibile indipendenti dal petrolio del Medio Oriente e dal gas naturale russo. Fu questa la ragione che spinse l’allora presidente americano Bush ad attuare una politica di forti incentivi (7 miliardi di dollari l’anno) volta all’incremento della produzione di etanolo da granoturco (136 miliardi di litri nel 2022). Aree sempre più vaste, una volta destinate alla produzione alimentare, sono state quindi destinate alla produzione di mais. Ma è proprio questo il "crimine contro l'umanità" di cui parlò, nel 2007, Jean Ziegler, inviato speciale dell’ONU per il diritto al cibo. Il boom dell’etanolo ha infatti notevolmente contribuito all’impennata dei prezzi agricoli. Per ovviare a queste problematiche iniziano a prendere piede i cosiddetti biocarburanti di seconda generazione, ricavati da materiale lignocellulosico, la parte “no food” della pianta. Il processo di conversione è però molto complesso e costoso, cosa che potrebbe vanificare i benefici ottenuti.
Ma quanto effettivamente questi biocombustibili gioverebbero all’ambiente in termini di riduzione di gas serra, e in particolare di CO2? Una previsione completa dei costi sia economici sia energetici (e quindi anche in termini di emissioni di gas serra) deve infatti prendere in considerazione, oltre all’impatto dell’etanolo al momento dell’utilizzo, anche gli effetti della produzione su larga scala della biomassa: dall’uso massiccio di fertilizzanti alla conversione di nuovi vasti appezzamenti di terra in terreni agricoli. La rimozione di foreste o praterie causerebbe il rilascio, per combustione o decomposizione, del carbonio fissato durante la loro crescita, per di più se l’area convertita aveva alti valori di fissazione del carbonio, le emissioni di CO2 dovute alla conversione dei terreni possono essere notevoli. Altri effetti di un’intensa agricoltura sono un aumento dell’erosione del suolo, il suo impoverimento, l’inquinamento delle acque e un declino della biodiversità.
Oggi sta prendendo piede sempre più velocemente una nuova generazione di biocarburanti: quelli derivati da microalghe. Queste potrebbero rappresentare un’interessante alternativa alle specie terrestri, grazie alla produttività notevolmente maggiore e al fatto che non sottrarrebbero terreni e acqua alle normali coltivazioni, evitando quindi una pericolosa competizione con la produzione di cibo per uomini e animali da allevamento.
Editoriale: il capitalismo verde
Per rendersi conto del livello della crisi economica ed ecologica non c'è nulla di meglio che osservare il numero di parole spese per glorificare soluzioni che, nel migliore dei casi, rimangono puramente retoriche e, nel peggiore, fungono da presupposti per un ulteriore aggravamento della situazione. Il fallimento del summit danese di COP 15 (e dei summit precedenti) è sotto gli occhi di tutti, talmente palese che non vale nemmeno la pena di spenderci più di due parole. E allora perché ovunque intorno a noi si moltiplica la retorica del capitalismo verde? Mercato delle emissioni, biocarburanti, addirittura il nucleare "amico dell'ambiente", fiumi di inchiostro ed ore di conversazione celebrano il capitalismo ecocompatibile, ed ecco allora moltiplicarsi autobus a biodiesel, linee di montaggio a ridotto impatto ambientale, condizionatori "ecosostenibili", mele “biosolidali”.
La soluzione ad un problema che si ammette essere complesso appare semplice, il discorso che la sostiene è tranquillizzante: “comprate prodotti "verdi", non preoccupatevi del problema, la mano invisibile del mercato curerà anche la febbre del pianeta, del resto non ha avuto successo in passato?” Diseguaglianza, sottosviluppo e povertà sono concetti oramai consegnati al passato. Ironia a parte, può essere utile indagare le ragioni di questa infatuazione bucolica del mercato. Il capitalismo rappresenta un modo di produzione "rivoluzionario", strutturalmente senza fine, in cui lo scambio denaro-merce produce un surplus di denaro che deve essere necessariamente reinvestito per garantire la tenuta del sistema; il reinvestimento è possibile solo se la "sfera del mercato" si amplia, solo se, in poche parole, il mercato riesce a creare nuovi bisogni o a soddisfare necessità che precedentemente trovavano risposta in altri ambiti di produzione.
Ma questa crescita illimitata, necessaria al funzionamento dell’apparato economico, si scontra in primo luogo con i limiti fisici di un sistema-terra dalle risorse limitate e in via di esaurimento. Ciò crea una fortissima contraddizione tra la sfera ambientale e quella dell’economia. Il sistema-terra, infatti, è governato dalle leggi fisiche di conservazione e trasformazione della materia-energia. L’uomo, in sostanza, non è in grado di creare né di distruggere, ma può soltanto trasformare la materia e l’energia. Ognuna di queste trasformazioni comporta, però, anche dei costi: al termine di ogni processo, infatti, una certa quota di energia viene dispersa in modo irrecuperabile. Tutto questo, perciò, risulta incompatibile con il concetto stesso di sviluppo illimitato, proprio perché ciò non è in grado di far fronte ai vincoli fisici dati dal contesto ambientale. L’unica soluzione possibile al problema ambientale parrebbe quindi quella di una forte limitazione dei consumi. Questa, però, risulta incompatibile con un sistema economico basato sul reinvestimento del surplus. Proprio per tale motivo,il problema in questione viene totalmente ignorato, continuando a spingere sull’acceleratore della crescita per far sopravvivere l’intero sistema. Qualora non trovi questo "spazio vitale" il capitalismo entra, infatti, in crisi.
Per quanto la retorica neoliberista tenti di rivenderci il mito del mercato che bada a se stesso, nella realtà storica lo Stato si è sempre occupato di garantire l’ampliamento della sfera del mercato oppure di inserire dei correttivi per impedirne il collasso. Lo Stato assicura la possibilità del reinvestimento del surplus mediante la costruzione di infrastrutture, programmi di riarmo, favorendo l’espansione urbana e geografica del capitalismo, "esportando la democrazia" e conquistando nuovi territori da annettere al "mondo libero"; qualora tutto questo sia impossibile non rimane altro che intervenire direttamente per scongiurare il collasso, ad esempio stampando carta moneta per salvare le banche insolventi. Quando si tratta di sostenere le rendite da capitale tutto diventa possibile, e tutto può venire sacrificato per correggere le disfunzioni di un sistema economico in grado garantire sviluppo economico e benessere diffuso. Quanto c'entra tutto questo con il "capitalismo verde"? Molto, perché se consideriamo che fino ad oggi la priorità del sistema politico internazionale, nelle sue varie articolazioni, è stata quella di garantire la "tenuta" del mercato, allora possiamo vedere al di là della retorica ed iniziare a chiederci quanto questa "riconversione spirituale" del liberoscambismo sia da imputarsi alla crisi ecologica o quanto, più realisticamente, sia da imputarsi alla necessità di creare un nuovo programma infrastrutturale ed una nuova serie di necessità a cui il mercato fornirà equa soddisfazione; in altre parole, la priorità non è il taglio delle emissioni (che in ogni caso continua a non avvenire) ma la garanzia di poter reinvestire il surplus presso nuovi lidi. “Se realmente si tagliano le emissioni, che importanza può avere se qualcuno riesce a ricavarne profitto?” Potrà sembrare che noi si butti via il bambino con l’acqua sporca, eppure, anche ammettendo che si riesca a tagliare le emissioni, (cosa tutt’altro che scontata visti i risultati di COP 15 ) i problemi permangono e stanno proprio nel profitto. Per chiarire utilizziamo un esempio considerando un singolo prodotto: una saponetta ad "emissioni zero"; detta saponetta ovviamente costerà leggermente di più per coprire le spese di ripiantumazione, ammettiamo anche che i produttori siano sinceri e che l’intera popolazione mondiale, presa da crisi di coscienza, decida di acquistare la saponetta miracolosa (già ora siamo abbondantemente nella fantapolitica) e che tale prodotto miracoloso abbia saturato completamente il mercato azzerando le emissioni connaturate alla propria produzione… e poi?La saturazione del mercato ci riporterebbe al punto di crisi, surplus da investire e necessità di spazi per poterlo fare, il surplus ricavato dal sapone dei miracoli dovrebbe essere reinvestito, potrebbe essere reinvestito in altre attività ad impatto zero certo, ma se dovessero aprirsi nuovi spazi? Spazi che garantiscono un ritorno economico superiore a quello che si può ricavare dalla sostenibilità ecologica?
Se domani si scoprisse un modello di business che assicura profitti stratosferici riversando mercurio nei fiumi o sparando arsenico nelle nubi, è veramente così realistico pensare che buona parte dei surplus ottenuti commerciando prodotti "amici dell'ambiente" non sarebbe reinvestito in queste attività ?Qui è dove muoiono tutte le buone intenzioni.
Il mercato non possiede gli anticorpi necessari contro questo tipo di speculazione, quando ci si riduce a sperare nel "buon cuore" delle multinazionali e dei centri finanziari, o nella capacità di autoregolazione del mercato, le prospettive per un futuro sostenibile non sono alla frutta ma hanno abbondantemente superato l'ammazzacaffè.
Perché, invece, non confidare in un secondo New Deal verde, un welfare state climatico? Magari simile a quello tanto glorificato da Obama, una soluzione eccellente per salvare capra e cavoli: le multinazionali guadagnano un po’ meno e lo stato garantisce la buona fede ecologista delle stesse. Eppure anche qui si rischia di peccare di ingenuità.
Abbiamo già visto come lo Stato e le politiche di espansione del mercato rappresentino un tassello fondamentale del sistema e garantiscano lo spazio di manovra basilare per assicurare il reinvestimento del surplus, quindi perché fidarsi?
Anche lo stesso paragone con lo welfare state è completamente fuori luogo dato che lo stato sociale rappresentò un tentativo di mediazione fra le istanze capitalistiche e quelle potenzialmente rivoluzionarie del movimento operaio. Anche ammesso e non concesso che la mediazione sia una strada percorribile, quali istanze si dovrebbero mediare oggi? Di quali soggetti?La realtà è che non esiste alcun tavolo di dialogo né, oggettivamente, se ne avverte il bisogno.
Alcuni se ne stanno chiusi dentro un palazzo concentrati non sulle emissioni ma su come riuscire a estrarre profitto dalla crisi, altri stanno fuori dal palazzo reclamando giustizia e trovando solo manganelli. Nel migliore dei casi le decisioni che emergono dalle conferenze programmatiche (quando e se emergono) presuppongono una gestione autoritaria della crisi. Presuppongono la cooptazione di parole d’ordine ed associazioni ambientaliste per costruire una nuova verginità ideologica alla solita macchina che consuma risorse e sfrutta il lavoro per produrre profitti la cui redistribuzione riposa ormai sulla sola filantropia “dei ricchi”. Quanto detto ci spinge a pensare che le varie crisi di cui sentiamo parlare sempre più spesso (ecologica, finanziaria, produttiva, climatica e biologica) siano in realtà da ricondurre alla crisi del modello di produzione contemporaneo.
Questa ipotesi indica la natura politica del problema che ci troviamo di fronte. Al di là di quanto sostengono i profeti del neoliberismo, nelle sue versioni di destra e di sinistra, una soluzione efficace non può essere consegnata alla capacità di autoregolazione del mercato, all'intervento statale per correggere alcune disfunzioni o per sostenere i consumi attraverso politiche ridistributive. La soluzione deve essere politica, in quanto il problema è politico . Non si possono produrre soluzioni efficaci che lascino immutato il sistema economico, si può e si deve invece pensare e continuare a pensare alla soluzione del riscaldamento globale e dell’esaurimento delle risorse come ad un qualcosa di profondamente legato al problema della concentrazione di potere e reddito, ed al deficit di partecipazione che questi implicano, nonché di una visione economica noncurante dei vincoli fisici dati dal contesto ambientale.
La soluzione ad un problema che si ammette essere complesso appare semplice, il discorso che la sostiene è tranquillizzante: “comprate prodotti "verdi", non preoccupatevi del problema, la mano invisibile del mercato curerà anche la febbre del pianeta, del resto non ha avuto successo in passato?” Diseguaglianza, sottosviluppo e povertà sono concetti oramai consegnati al passato. Ironia a parte, può essere utile indagare le ragioni di questa infatuazione bucolica del mercato. Il capitalismo rappresenta un modo di produzione "rivoluzionario", strutturalmente senza fine, in cui lo scambio denaro-merce produce un surplus di denaro che deve essere necessariamente reinvestito per garantire la tenuta del sistema; il reinvestimento è possibile solo se la "sfera del mercato" si amplia, solo se, in poche parole, il mercato riesce a creare nuovi bisogni o a soddisfare necessità che precedentemente trovavano risposta in altri ambiti di produzione.
Ma questa crescita illimitata, necessaria al funzionamento dell’apparato economico, si scontra in primo luogo con i limiti fisici di un sistema-terra dalle risorse limitate e in via di esaurimento. Ciò crea una fortissima contraddizione tra la sfera ambientale e quella dell’economia. Il sistema-terra, infatti, è governato dalle leggi fisiche di conservazione e trasformazione della materia-energia. L’uomo, in sostanza, non è in grado di creare né di distruggere, ma può soltanto trasformare la materia e l’energia. Ognuna di queste trasformazioni comporta, però, anche dei costi: al termine di ogni processo, infatti, una certa quota di energia viene dispersa in modo irrecuperabile. Tutto questo, perciò, risulta incompatibile con il concetto stesso di sviluppo illimitato, proprio perché ciò non è in grado di far fronte ai vincoli fisici dati dal contesto ambientale. L’unica soluzione possibile al problema ambientale parrebbe quindi quella di una forte limitazione dei consumi. Questa, però, risulta incompatibile con un sistema economico basato sul reinvestimento del surplus. Proprio per tale motivo,il problema in questione viene totalmente ignorato, continuando a spingere sull’acceleratore della crescita per far sopravvivere l’intero sistema. Qualora non trovi questo "spazio vitale" il capitalismo entra, infatti, in crisi.
Per quanto la retorica neoliberista tenti di rivenderci il mito del mercato che bada a se stesso, nella realtà storica lo Stato si è sempre occupato di garantire l’ampliamento della sfera del mercato oppure di inserire dei correttivi per impedirne il collasso. Lo Stato assicura la possibilità del reinvestimento del surplus mediante la costruzione di infrastrutture, programmi di riarmo, favorendo l’espansione urbana e geografica del capitalismo, "esportando la democrazia" e conquistando nuovi territori da annettere al "mondo libero"; qualora tutto questo sia impossibile non rimane altro che intervenire direttamente per scongiurare il collasso, ad esempio stampando carta moneta per salvare le banche insolventi. Quando si tratta di sostenere le rendite da capitale tutto diventa possibile, e tutto può venire sacrificato per correggere le disfunzioni di un sistema economico in grado garantire sviluppo economico e benessere diffuso. Quanto c'entra tutto questo con il "capitalismo verde"? Molto, perché se consideriamo che fino ad oggi la priorità del sistema politico internazionale, nelle sue varie articolazioni, è stata quella di garantire la "tenuta" del mercato, allora possiamo vedere al di là della retorica ed iniziare a chiederci quanto questa "riconversione spirituale" del liberoscambismo sia da imputarsi alla crisi ecologica o quanto, più realisticamente, sia da imputarsi alla necessità di creare un nuovo programma infrastrutturale ed una nuova serie di necessità a cui il mercato fornirà equa soddisfazione; in altre parole, la priorità non è il taglio delle emissioni (che in ogni caso continua a non avvenire) ma la garanzia di poter reinvestire il surplus presso nuovi lidi. “Se realmente si tagliano le emissioni, che importanza può avere se qualcuno riesce a ricavarne profitto?” Potrà sembrare che noi si butti via il bambino con l’acqua sporca, eppure, anche ammettendo che si riesca a tagliare le emissioni, (cosa tutt’altro che scontata visti i risultati di COP 15 ) i problemi permangono e stanno proprio nel profitto. Per chiarire utilizziamo un esempio considerando un singolo prodotto: una saponetta ad "emissioni zero"; detta saponetta ovviamente costerà leggermente di più per coprire le spese di ripiantumazione, ammettiamo anche che i produttori siano sinceri e che l’intera popolazione mondiale, presa da crisi di coscienza, decida di acquistare la saponetta miracolosa (già ora siamo abbondantemente nella fantapolitica) e che tale prodotto miracoloso abbia saturato completamente il mercato azzerando le emissioni connaturate alla propria produzione… e poi?La saturazione del mercato ci riporterebbe al punto di crisi, surplus da investire e necessità di spazi per poterlo fare, il surplus ricavato dal sapone dei miracoli dovrebbe essere reinvestito, potrebbe essere reinvestito in altre attività ad impatto zero certo, ma se dovessero aprirsi nuovi spazi? Spazi che garantiscono un ritorno economico superiore a quello che si può ricavare dalla sostenibilità ecologica?
Se domani si scoprisse un modello di business che assicura profitti stratosferici riversando mercurio nei fiumi o sparando arsenico nelle nubi, è veramente così realistico pensare che buona parte dei surplus ottenuti commerciando prodotti "amici dell'ambiente" non sarebbe reinvestito in queste attività ?Qui è dove muoiono tutte le buone intenzioni.
Il mercato non possiede gli anticorpi necessari contro questo tipo di speculazione, quando ci si riduce a sperare nel "buon cuore" delle multinazionali e dei centri finanziari, o nella capacità di autoregolazione del mercato, le prospettive per un futuro sostenibile non sono alla frutta ma hanno abbondantemente superato l'ammazzacaffè.
Perché, invece, non confidare in un secondo New Deal verde, un welfare state climatico? Magari simile a quello tanto glorificato da Obama, una soluzione eccellente per salvare capra e cavoli: le multinazionali guadagnano un po’ meno e lo stato garantisce la buona fede ecologista delle stesse. Eppure anche qui si rischia di peccare di ingenuità.
Abbiamo già visto come lo Stato e le politiche di espansione del mercato rappresentino un tassello fondamentale del sistema e garantiscano lo spazio di manovra basilare per assicurare il reinvestimento del surplus, quindi perché fidarsi?
Anche lo stesso paragone con lo welfare state è completamente fuori luogo dato che lo stato sociale rappresentò un tentativo di mediazione fra le istanze capitalistiche e quelle potenzialmente rivoluzionarie del movimento operaio. Anche ammesso e non concesso che la mediazione sia una strada percorribile, quali istanze si dovrebbero mediare oggi? Di quali soggetti?La realtà è che non esiste alcun tavolo di dialogo né, oggettivamente, se ne avverte il bisogno.
Alcuni se ne stanno chiusi dentro un palazzo concentrati non sulle emissioni ma su come riuscire a estrarre profitto dalla crisi, altri stanno fuori dal palazzo reclamando giustizia e trovando solo manganelli. Nel migliore dei casi le decisioni che emergono dalle conferenze programmatiche (quando e se emergono) presuppongono una gestione autoritaria della crisi. Presuppongono la cooptazione di parole d’ordine ed associazioni ambientaliste per costruire una nuova verginità ideologica alla solita macchina che consuma risorse e sfrutta il lavoro per produrre profitti la cui redistribuzione riposa ormai sulla sola filantropia “dei ricchi”. Quanto detto ci spinge a pensare che le varie crisi di cui sentiamo parlare sempre più spesso (ecologica, finanziaria, produttiva, climatica e biologica) siano in realtà da ricondurre alla crisi del modello di produzione contemporaneo.
Questa ipotesi indica la natura politica del problema che ci troviamo di fronte. Al di là di quanto sostengono i profeti del neoliberismo, nelle sue versioni di destra e di sinistra, una soluzione efficace non può essere consegnata alla capacità di autoregolazione del mercato, all'intervento statale per correggere alcune disfunzioni o per sostenere i consumi attraverso politiche ridistributive. La soluzione deve essere politica, in quanto il problema è politico . Non si possono produrre soluzioni efficaci che lascino immutato il sistema economico, si può e si deve invece pensare e continuare a pensare alla soluzione del riscaldamento globale e dell’esaurimento delle risorse come ad un qualcosa di profondamente legato al problema della concentrazione di potere e reddito, ed al deficit di partecipazione che questi implicano, nonché di una visione economica noncurante dei vincoli fisici dati dal contesto ambientale.
Etichette:
ambiente,
capitalismo verde,
Editoriale
La storia di Zingonia, il ghetto che muore di sete.
La storia di Zingonia, il ghetto che muore di sete.
C’era una volta Renzo Zingone, noto ed influente banchiere romano che un bel giorno, cavalcando un sogno di evidente megalomania, decise di costruire una città che portasse il suo nome: Zingonia.
Zingonia nacque proprio così, nel 1964, come progetto di pianificazione urbanistica privata e ridente archetipo di “città moderna”: sorta nello strategico crocevia logistico tra Bergamo-Milano-Brescia, sarebbe dovuta diventare un efficiente connubio tra “produzione, residenza e socialità”, con nuove strutture residenziali edificate ad hoc, unità produttive nell’estremo sud dell’area ed infrastrutture per lo sport ed il tempo libero collocate come cuscinetto tra le prime due; un enorme complesso, insomma, destinato ad accogliere 50000 abitanti e circa 1000 unità produttive.
I notevoli capitali necessari per la costruzione della sopracitata città modello derivavano tutti dalle molteplici attività economiche del suo fondatore: in quanto presidente del Gruppo Zeta, poteva infatti disporre liberamente dei quattrini derivanti dalla Zingone Strutture (ZS), Zingone Iniziative Fondiarie (ZIF) e dalla Banca Generale di Credito, nate e cresciute durante gli anni ’50 e ’60.
Il sogno di una città autonoma e razionale, tuttavia, morì nella metà degli anni Settanta, quando il signor Zingone si tolse improvvisamente di scena per continuare le sue attività imprenditoriali in Costa Rica e Guatemala, investendo i massicci capitali del Gruppo Zeta nell’ agribusinnes e nell’allevamento, accaparrandosi successivamente il monopolio del riso in Costa Rica e Nicaragua (dove ne acquisì l’impresa demaniale) e creando la Corporaciòn Megasuper, seconda catena di supermercati in Costa Rica. (Una piccola nota di colore: la signora Donatella Pasquali Zingone, vedova di Zingone, moglie in seconde nozze del senatore Lamberto Dini e presidentessa del Gruppo Zeta dal 1981, nel 2007 è stata condannata a Roma a due anni e quattro mesi di reclusione per bancarotta fraudolenta mediante falso in bilancio a conclusione del processo sulla vicenda del Gruppo Zeta).
Zingonia è stata lasciata da sola, quindi e nella più completa schizofrenia amministrativa, dal momento che, in assenza di un governo unitario, si è ritrovata ad essere frazione di cinque comuni diversi (Boltiere, Ciserano, Osio Sotto, Verdello e Verdellino), impegnati nel disinteresse più totale piuttosto che nell’assunzione delle responsabilità verso questa zona abbandonata a se stessa.
Attualmente, la popolazione totale dell'area di Zingonia è di circa 1778 abitanti, di cui 1328 (il 74,7%) migranti e sono rimasti soltanto la cadente fontana con l’obelisco spaziale ed il fatiscente Grand Hotel a testimonianza di fasti mai realizzati né vissuti. Zingonia non è un paese e nemmeno una città: è semplicemente “un’area”, nemmeno segnata sulle cartine stradali. Ci sono i tre enormi complessi condominiali “Athena”, gialli e cadenti, che dal momento della loro costruzione non hanno MAI subito un intervento di manutenzione: l’intonaco va sbriciolandosi in strada, cadono le tegole dai tetti e nessuno se ne cura. Gli abitanti di Zingonia vivono in un duplice ghetto: quello dei comuni limitrofi, che vedono quest’”area” come un cancro, pericoloso ed indesiderabile e quello della malavita organizzata la quale, approfittando della generale indifferenza, opera indisturbata nell’ormai solido racket di spaccio e prostituzione. La polizia staziona tronfia e inutile davanti alla fontana: poco più in là, nella “Piazza Affari”, dimorano pusher e magnaccia ma lì spesso e volentieri le questioni si risolvono a pistolettate nelle gambe ed ecco il motivo per cui i nostri tutori dell’ordine se ne tengono ben lontani.
Intorno ai condomini Athena, si sollevano al cielo decine di capannoni e non è un segreto per nessuno: lì dentro c’è lavoro per tutti, in nero ovviamente, perché tanto si sa, con il nuovo DdL Sicurezza che sancisce la clandestinità come “reato grave”, il non avere permesso di soggiorno rende automaticamente “invisibili” e perciò i padroni possono permettersi di speculare a cuor contento sopra le schiene dei migranti. Un pezzo di pane guadagnato senza diritti: ecco cosa rende gli appartamenti Athena così appetibili. Le agenzie immobiliari, gli amministratori ed i padroncini che, di regola, dovrebbero regolare gli affitti, sanno rendersi opportunamente invisibili: le strutture non ricevono manutenzione da anni, sono clamorosamente fatiscenti EPPURE gli affitti sono salatissimi e nessuno fa domande né si preoccupa se, nella stessa stanza, dimorano più di dieci persone.
Zingonia, nel 2008, è stata anche appannaggio della campagna elettorale leghista: uno sfortunato corteo verde, nato “per ripulire Zingonia prima che infetti i paesi vicini” è stato pacificamente bloccato dagli stessi migranti, irritati, probabilmente, dallo sconcertante utilizzo del loro disagio nell’ottica di un’insensata speculazione politica. Questo fatto, tuttavia, ebbe notevoli ripercussioni mediatiche: su Zingonia si espressero addirittura da Montecitorio e tutto ciò che ottenne questa “indignazione d’alto bordo” furono una serie di tremende retate nei comprensori (più di cento i carabinieri impegnati volta per volta, provenienti dai comandi di Bergamo, Zogno, Treviglio e Milano) che null’altro conclusero se non la reclusione di qualche irregolare (ricordiamoci la Bossi-Fini…) nei Centri di Permanenza Temporanea di Milano e Gorizia. Gli spacciatori e i malavitosi, lo dicono gli stessi abitanti, non sono così sprovveduti da abitare in quei palazzi, così fatiscenti e ciclicamente nell’occhio del ciclone mediatico: se ne tengono ben lontani, dribblando opportunamente le periodiche retate.
Si era parlato, sapete, dopo tutto questo assurdo clamore, della possibilità, per Zingonia, di entrare in un “Contratto di Quartiere”, stipulato tra la Regione Lombardia, gli assessorati dei comuni limitrofi e fortemente caldeggiato dall’ultraleghista presidente della Provincia bergamasca, Pietro Pirovano. Si parlava di “fondi trovati tra le pieghe del bilancio”, di “necessaria riqualificazione” e “nuove strutture”. Peccato però che il progetto sia stato giudicato in sintesi “troppo complesso”: forse perché, oltre alla demolizione di immobili, prevedeva anche la costruzione di centri d’integrazione, di strutture popolari con affitti calmierati e di accompagnamento all’affitto per quegli inquilini rimasti senza casa in seguito alle riqualificazioni. Per salvare faccia ed apparenza, quindi, la Regione Lombardia ha ben pensato di inserire Zingonia nei progetti FAS (Fondo Aree Sottosviluppate), snellendo gli obiettivi: i comprensori Athena saranno rasi al suolo, verranno ampliate le aree commerciali e nessun accenno a futuri propositi di edilizia popolare: gli alloggi ad affitto calmierato non saranno edificabili “poiché si assisterebbe ad una perpetuazione del problema”. Ma la vera perpetuazione del problema è un’altra, ben nascosta sotto l’ennesima facciata dei buoni propositi: LA SPECULAZIONE. Vi dice nulla il nome di Grossi, braccio della Compagnia delle Opere nonché costola economica di Comunione e Liberazione? Ecco, parte del futuro cemento che annegherà quest' ”area”, sarebbe dovuto arrivare proprio dalle sue betoniere, se solo non l'avessero arrestato negli ultimi mesi del 2009 per frode fiscale ed appropriazione indebita. Che strano.
Nessun accenno, ovviamente, agli abitanti, racchiusi senza distinzione sotto lo stemma di “problema” e alla meglio ritenuti come branco indifferenziato di spacciatori e criminali. Nessuno si è scandalizzato, infatti, dopo aver letto sui giornali che il giorno 3 dicembre 2009 è stato effettuato il taglio dell’acqua per morosità ai complessi Athena 2 e 3 (l’1 si è salvato grazie ad una fortuita colletta tra i condomini), dove tra l’altro si vive senza riscaldamento da anni. Nessuno si è preoccupato del fatto che, in realtà, molti condomini fossero effettivamente in regola con i pagamenti ed i debiti derivassero dalle morosità pregresse degli inquilini precedenti. Nessuno ha fatto caso alle svariate famiglie appena arrivate, disorientate e confuse e senza acqua nel rubinetto. Nessuno si è interessato ai destini dei bambini residenti, senza acqua calda: due tubi, posizionati all’esterno del complesso in pieno inverno e la tranquillità del dovere compiuto (“non avevano pagato le bollette”), hanno tranquillizzato numerose, troppe coscienze.
La reazione degli abitanti, comunque, non si è fatta attendere: un folto gruppo di persone ha occupato la strada statale Francesca, al grido di “Acqua e diritti per tutti!”, bloccando il traffico nell’ora di punta ed obbligando il sindaco del Comune di Ciserano a programmare un incontro tra i rappresentanti dei condomini senz’acqua ed i portavoce della BAS, società che fornisce l’acqua, facente parte del gruppo A2A. Il rimborso complessivo richiesto dalla società è altissimo ed ammonta a 400000 euro. Dopo giorni di estenuanti trattative, si è giunti ad un accordo: ciascun comprensorio dovrà versare subito una quota parte di 2500 euro e poi ciascun condomino si vedrà arrivare a casa, oltre alla bolletta consueta, un bollettino per il versamento della rata per il rientro del debito (circa 125 euro al mese in più per appartamento oltre al normale pagamento per il consumo dell’acqua). Tutta questa trafila, tremendamente burocratica, è comunque ancora dagli esiti incerti: se gli inquilini prossimamente non rispetteranno il “Piano di Rientro”, resteranno un’altra volta all’asciutto, l’attenzione è al massimo livello.
C’era una volta Linda Davis, ventitré anni. “C’era una volta”, perché adesso non c’è più: è morta il 22 dicembre 2009 in uno degli sbriciolati appartamenti del complesso Athena, intossicata dal monossido di carbonio prodotto dal braciere che utilizzava per scaldarsi in quelle stanze gelate, senza riscaldamento per i debiti accumulati negli anni.
A2A, come un macigno durante una frana, è inesorabilmente passata sopra tutto: a Linda, alle difficili condizioni economiche delle famiglie di Zingonia, alla problematica situazione dell’area stessa, a coloro che, al grido di “ACQUA! ACQUA!”, invocavano i propri diritti seduti in mezzo ad una strada. Ed eccola qui, la vera faccia della privatizzazione dell’acqua, il vero disastroso marciume malamente nascosto dietro l’Articolo 15 del Decreto Ronchi: l’esclusione sociale. Verranno infatti attaccati gli ultimi, i più deboli, i più fragili, coloro che non potranno permetterselo, coloro che verranno addirittura colpevolizzati poiché poveri.
C’era una volta Renzo Zingone , c’era una volta Linda Davis e c’è, ancora, Zingonia, solcata da tutte quelle cicatrici che ricordano, irrimediabilmente spesso, ciò che di peggio caratteristico c’è in Italia: speculazione, assenza d’integrazione, mancanza di pianificazione, sviluppo industriale incontrollato. Sopra tutto ciò, come una soffocante coltre di nebbia, ecco a voi l’Indifferenza a far da padrona: il sentimento odioso del Cittadino Bene che non sa vedere oltre una bolletta non pagata.
L'Aggiornamento.
(ovvero di come in realtà il Natale non renda più buono nessuno).
Ci risiamo. Dopo la consueta pausa festiva, che oltre a riempire gli stomaci si preoccupa talvolta anche di pulire le coscienze, facendo opportunamente rimanere i problemi lontani dall'albero e dal vischio, la “Questione Zingonia” ha ricominciato, cocciuta, a bussare contro la porta.
25 Gennaio 2010: ad oggi, il comprensorio Athena 3 è, di nuovo, senz'acqua e presto la medesima sorte toccherà ad altri due condomini (Anna 1 ed Anna 2). Il programma di rientro del debito non ha funzionato e, se mi è concessa dell'amara ironia, permettetemi di esclamare un sarcastico “ma pensa!”.
Sono ben centoventicinque, infatti, gli euro di rata mensile che si era stabilito dovesse versare ciascuna famiglia abitante i sopracitati complessi: cifra sicuramente non irrisoria per la stragrande maggioranza degli abitanti di Zingonia, costretti alla miseria dal bassissimo reddito, dalla disoccupazione, dalla clandestinità e perlopiù vincolati al monoreddito famigliare.
Al termine dell'ultima riunione, tenutasi tra i cinque sindaci dell'area ed i rappresentanti di ALER, Regione e Provincia di Bergamo con lo scopo di avviare un tavolo congiunto di riqualificazione, Ettore Pirovano (presidente leghista della provincia, ndr) ha dichiarato entusiasta: “Zingonia è un ghetto e va abbattuto”.
Il castello di carte è crollato, miseramente, insieme a tutta quella laida rete d'ipocrisia imbastita unicamente per mantenere silenziosa l'opinione pubblica. Il fallimento dell'accordo di rientro era già noto a chi ha obbligato i condomini alla stipula del contratto, si sapeva benissimo che non sarebbe mai potuto essere rispettato e noi, con la nostra incredulità di fronte ad una cecità cosi palese, non siamo stati altro che ingenui.
Le bollette non pagate non sono state altro che un sapiente pretesto, i debiti insoluti unicamente un tentativo per tranquillizzare l'opinione pubblica. Il taglio dell'acqua agirà come un vero e proprio cuneo su Zingonia: le famiglie se ne andranno, gli edifici fatiscenti verranno abbattuti, l'area sarà annegata di cemento, si potrà edificare, ciascun metro quadrato verrà rivalutato tanto oro quanto pesa, dei pusher e delle puttane non resterà traccia ed il bergamasco medio approverà tutto ciò con solenni cenni del capo perché, d'altronde, non pagando le bollette se la sono proprio andata a cercare.
Siamo praticamente in piena campagna elettorale, non dimentichiamocelo: concetti come Ordine, Pulizia e Lotta al Degrado, in questi tempi di crisi ed incertezza, non sono altro che la miglior fabbrica di voti esistente (doloroso deja-vu, ndr).
L'acqua, da simbolo di vita è diventata ricatto, strumento di disuguaglianza sociale sul quale agire indiscriminatamente e Zingonia, dal canto suo, un laido contenitore di problemi da estirpare.
C’era una volta Renzo Zingone , c’era una volta Linda Davis e c’è, ancora, Zingonia, città fantasma abitata da “problemi” e non da “persone”, senz'acqua da mesi ma annegata nell'ipocrisia di una classe politica xenofoba e accentratrice, capacissima, come s'è già visto, di camminare sopra i diritti senza crearsi troppi scrupoli di coscienza.
C’era una volta Renzo Zingone, noto ed influente banchiere romano che un bel giorno, cavalcando un sogno di evidente megalomania, decise di costruire una città che portasse il suo nome: Zingonia.
Zingonia nacque proprio così, nel 1964, come progetto di pianificazione urbanistica privata e ridente archetipo di “città moderna”: sorta nello strategico crocevia logistico tra Bergamo-Milano-Brescia, sarebbe dovuta diventare un efficiente connubio tra “produzione, residenza e socialità”, con nuove strutture residenziali edificate ad hoc, unità produttive nell’estremo sud dell’area ed infrastrutture per lo sport ed il tempo libero collocate come cuscinetto tra le prime due; un enorme complesso, insomma, destinato ad accogliere 50000 abitanti e circa 1000 unità produttive.
I notevoli capitali necessari per la costruzione della sopracitata città modello derivavano tutti dalle molteplici attività economiche del suo fondatore: in quanto presidente del Gruppo Zeta, poteva infatti disporre liberamente dei quattrini derivanti dalla Zingone Strutture (ZS), Zingone Iniziative Fondiarie (ZIF) e dalla Banca Generale di Credito, nate e cresciute durante gli anni ’50 e ’60.
Il sogno di una città autonoma e razionale, tuttavia, morì nella metà degli anni Settanta, quando il signor Zingone si tolse improvvisamente di scena per continuare le sue attività imprenditoriali in Costa Rica e Guatemala, investendo i massicci capitali del Gruppo Zeta nell’ agribusinnes e nell’allevamento, accaparrandosi successivamente il monopolio del riso in Costa Rica e Nicaragua (dove ne acquisì l’impresa demaniale) e creando la Corporaciòn Megasuper, seconda catena di supermercati in Costa Rica. (Una piccola nota di colore: la signora Donatella Pasquali Zingone, vedova di Zingone, moglie in seconde nozze del senatore Lamberto Dini e presidentessa del Gruppo Zeta dal 1981, nel 2007 è stata condannata a Roma a due anni e quattro mesi di reclusione per bancarotta fraudolenta mediante falso in bilancio a conclusione del processo sulla vicenda del Gruppo Zeta).
Zingonia è stata lasciata da sola, quindi e nella più completa schizofrenia amministrativa, dal momento che, in assenza di un governo unitario, si è ritrovata ad essere frazione di cinque comuni diversi (Boltiere, Ciserano, Osio Sotto, Verdello e Verdellino), impegnati nel disinteresse più totale piuttosto che nell’assunzione delle responsabilità verso questa zona abbandonata a se stessa.
Attualmente, la popolazione totale dell'area di Zingonia è di circa 1778 abitanti, di cui 1328 (il 74,7%) migranti e sono rimasti soltanto la cadente fontana con l’obelisco spaziale ed il fatiscente Grand Hotel a testimonianza di fasti mai realizzati né vissuti. Zingonia non è un paese e nemmeno una città: è semplicemente “un’area”, nemmeno segnata sulle cartine stradali. Ci sono i tre enormi complessi condominiali “Athena”, gialli e cadenti, che dal momento della loro costruzione non hanno MAI subito un intervento di manutenzione: l’intonaco va sbriciolandosi in strada, cadono le tegole dai tetti e nessuno se ne cura. Gli abitanti di Zingonia vivono in un duplice ghetto: quello dei comuni limitrofi, che vedono quest’”area” come un cancro, pericoloso ed indesiderabile e quello della malavita organizzata la quale, approfittando della generale indifferenza, opera indisturbata nell’ormai solido racket di spaccio e prostituzione. La polizia staziona tronfia e inutile davanti alla fontana: poco più in là, nella “Piazza Affari”, dimorano pusher e magnaccia ma lì spesso e volentieri le questioni si risolvono a pistolettate nelle gambe ed ecco il motivo per cui i nostri tutori dell’ordine se ne tengono ben lontani.
Intorno ai condomini Athena, si sollevano al cielo decine di capannoni e non è un segreto per nessuno: lì dentro c’è lavoro per tutti, in nero ovviamente, perché tanto si sa, con il nuovo DdL Sicurezza che sancisce la clandestinità come “reato grave”, il non avere permesso di soggiorno rende automaticamente “invisibili” e perciò i padroni possono permettersi di speculare a cuor contento sopra le schiene dei migranti. Un pezzo di pane guadagnato senza diritti: ecco cosa rende gli appartamenti Athena così appetibili. Le agenzie immobiliari, gli amministratori ed i padroncini che, di regola, dovrebbero regolare gli affitti, sanno rendersi opportunamente invisibili: le strutture non ricevono manutenzione da anni, sono clamorosamente fatiscenti EPPURE gli affitti sono salatissimi e nessuno fa domande né si preoccupa se, nella stessa stanza, dimorano più di dieci persone.
Zingonia, nel 2008, è stata anche appannaggio della campagna elettorale leghista: uno sfortunato corteo verde, nato “per ripulire Zingonia prima che infetti i paesi vicini” è stato pacificamente bloccato dagli stessi migranti, irritati, probabilmente, dallo sconcertante utilizzo del loro disagio nell’ottica di un’insensata speculazione politica. Questo fatto, tuttavia, ebbe notevoli ripercussioni mediatiche: su Zingonia si espressero addirittura da Montecitorio e tutto ciò che ottenne questa “indignazione d’alto bordo” furono una serie di tremende retate nei comprensori (più di cento i carabinieri impegnati volta per volta, provenienti dai comandi di Bergamo, Zogno, Treviglio e Milano) che null’altro conclusero se non la reclusione di qualche irregolare (ricordiamoci la Bossi-Fini…) nei Centri di Permanenza Temporanea di Milano e Gorizia. Gli spacciatori e i malavitosi, lo dicono gli stessi abitanti, non sono così sprovveduti da abitare in quei palazzi, così fatiscenti e ciclicamente nell’occhio del ciclone mediatico: se ne tengono ben lontani, dribblando opportunamente le periodiche retate.
Si era parlato, sapete, dopo tutto questo assurdo clamore, della possibilità, per Zingonia, di entrare in un “Contratto di Quartiere”, stipulato tra la Regione Lombardia, gli assessorati dei comuni limitrofi e fortemente caldeggiato dall’ultraleghista presidente della Provincia bergamasca, Pietro Pirovano. Si parlava di “fondi trovati tra le pieghe del bilancio”, di “necessaria riqualificazione” e “nuove strutture”. Peccato però che il progetto sia stato giudicato in sintesi “troppo complesso”: forse perché, oltre alla demolizione di immobili, prevedeva anche la costruzione di centri d’integrazione, di strutture popolari con affitti calmierati e di accompagnamento all’affitto per quegli inquilini rimasti senza casa in seguito alle riqualificazioni. Per salvare faccia ed apparenza, quindi, la Regione Lombardia ha ben pensato di inserire Zingonia nei progetti FAS (Fondo Aree Sottosviluppate), snellendo gli obiettivi: i comprensori Athena saranno rasi al suolo, verranno ampliate le aree commerciali e nessun accenno a futuri propositi di edilizia popolare: gli alloggi ad affitto calmierato non saranno edificabili “poiché si assisterebbe ad una perpetuazione del problema”. Ma la vera perpetuazione del problema è un’altra, ben nascosta sotto l’ennesima facciata dei buoni propositi: LA SPECULAZIONE. Vi dice nulla il nome di Grossi, braccio della Compagnia delle Opere nonché costola economica di Comunione e Liberazione? Ecco, parte del futuro cemento che annegherà quest' ”area”, sarebbe dovuto arrivare proprio dalle sue betoniere, se solo non l'avessero arrestato negli ultimi mesi del 2009 per frode fiscale ed appropriazione indebita. Che strano.
Nessun accenno, ovviamente, agli abitanti, racchiusi senza distinzione sotto lo stemma di “problema” e alla meglio ritenuti come branco indifferenziato di spacciatori e criminali. Nessuno si è scandalizzato, infatti, dopo aver letto sui giornali che il giorno 3 dicembre 2009 è stato effettuato il taglio dell’acqua per morosità ai complessi Athena 2 e 3 (l’1 si è salvato grazie ad una fortuita colletta tra i condomini), dove tra l’altro si vive senza riscaldamento da anni. Nessuno si è preoccupato del fatto che, in realtà, molti condomini fossero effettivamente in regola con i pagamenti ed i debiti derivassero dalle morosità pregresse degli inquilini precedenti. Nessuno ha fatto caso alle svariate famiglie appena arrivate, disorientate e confuse e senza acqua nel rubinetto. Nessuno si è interessato ai destini dei bambini residenti, senza acqua calda: due tubi, posizionati all’esterno del complesso in pieno inverno e la tranquillità del dovere compiuto (“non avevano pagato le bollette”), hanno tranquillizzato numerose, troppe coscienze.
La reazione degli abitanti, comunque, non si è fatta attendere: un folto gruppo di persone ha occupato la strada statale Francesca, al grido di “Acqua e diritti per tutti!”, bloccando il traffico nell’ora di punta ed obbligando il sindaco del Comune di Ciserano a programmare un incontro tra i rappresentanti dei condomini senz’acqua ed i portavoce della BAS, società che fornisce l’acqua, facente parte del gruppo A2A. Il rimborso complessivo richiesto dalla società è altissimo ed ammonta a 400000 euro. Dopo giorni di estenuanti trattative, si è giunti ad un accordo: ciascun comprensorio dovrà versare subito una quota parte di 2500 euro e poi ciascun condomino si vedrà arrivare a casa, oltre alla bolletta consueta, un bollettino per il versamento della rata per il rientro del debito (circa 125 euro al mese in più per appartamento oltre al normale pagamento per il consumo dell’acqua). Tutta questa trafila, tremendamente burocratica, è comunque ancora dagli esiti incerti: se gli inquilini prossimamente non rispetteranno il “Piano di Rientro”, resteranno un’altra volta all’asciutto, l’attenzione è al massimo livello.
C’era una volta Linda Davis, ventitré anni. “C’era una volta”, perché adesso non c’è più: è morta il 22 dicembre 2009 in uno degli sbriciolati appartamenti del complesso Athena, intossicata dal monossido di carbonio prodotto dal braciere che utilizzava per scaldarsi in quelle stanze gelate, senza riscaldamento per i debiti accumulati negli anni.
A2A, come un macigno durante una frana, è inesorabilmente passata sopra tutto: a Linda, alle difficili condizioni economiche delle famiglie di Zingonia, alla problematica situazione dell’area stessa, a coloro che, al grido di “ACQUA! ACQUA!”, invocavano i propri diritti seduti in mezzo ad una strada. Ed eccola qui, la vera faccia della privatizzazione dell’acqua, il vero disastroso marciume malamente nascosto dietro l’Articolo 15 del Decreto Ronchi: l’esclusione sociale. Verranno infatti attaccati gli ultimi, i più deboli, i più fragili, coloro che non potranno permetterselo, coloro che verranno addirittura colpevolizzati poiché poveri.
C’era una volta Renzo Zingone , c’era una volta Linda Davis e c’è, ancora, Zingonia, solcata da tutte quelle cicatrici che ricordano, irrimediabilmente spesso, ciò che di peggio caratteristico c’è in Italia: speculazione, assenza d’integrazione, mancanza di pianificazione, sviluppo industriale incontrollato. Sopra tutto ciò, come una soffocante coltre di nebbia, ecco a voi l’Indifferenza a far da padrona: il sentimento odioso del Cittadino Bene che non sa vedere oltre una bolletta non pagata.
L'Aggiornamento.
(ovvero di come in realtà il Natale non renda più buono nessuno).
Ci risiamo. Dopo la consueta pausa festiva, che oltre a riempire gli stomaci si preoccupa talvolta anche di pulire le coscienze, facendo opportunamente rimanere i problemi lontani dall'albero e dal vischio, la “Questione Zingonia” ha ricominciato, cocciuta, a bussare contro la porta.
25 Gennaio 2010: ad oggi, il comprensorio Athena 3 è, di nuovo, senz'acqua e presto la medesima sorte toccherà ad altri due condomini (Anna 1 ed Anna 2). Il programma di rientro del debito non ha funzionato e, se mi è concessa dell'amara ironia, permettetemi di esclamare un sarcastico “ma pensa!”.
Sono ben centoventicinque, infatti, gli euro di rata mensile che si era stabilito dovesse versare ciascuna famiglia abitante i sopracitati complessi: cifra sicuramente non irrisoria per la stragrande maggioranza degli abitanti di Zingonia, costretti alla miseria dal bassissimo reddito, dalla disoccupazione, dalla clandestinità e perlopiù vincolati al monoreddito famigliare.
Al termine dell'ultima riunione, tenutasi tra i cinque sindaci dell'area ed i rappresentanti di ALER, Regione e Provincia di Bergamo con lo scopo di avviare un tavolo congiunto di riqualificazione, Ettore Pirovano (presidente leghista della provincia, ndr) ha dichiarato entusiasta: “Zingonia è un ghetto e va abbattuto”.
Il castello di carte è crollato, miseramente, insieme a tutta quella laida rete d'ipocrisia imbastita unicamente per mantenere silenziosa l'opinione pubblica. Il fallimento dell'accordo di rientro era già noto a chi ha obbligato i condomini alla stipula del contratto, si sapeva benissimo che non sarebbe mai potuto essere rispettato e noi, con la nostra incredulità di fronte ad una cecità cosi palese, non siamo stati altro che ingenui.
Le bollette non pagate non sono state altro che un sapiente pretesto, i debiti insoluti unicamente un tentativo per tranquillizzare l'opinione pubblica. Il taglio dell'acqua agirà come un vero e proprio cuneo su Zingonia: le famiglie se ne andranno, gli edifici fatiscenti verranno abbattuti, l'area sarà annegata di cemento, si potrà edificare, ciascun metro quadrato verrà rivalutato tanto oro quanto pesa, dei pusher e delle puttane non resterà traccia ed il bergamasco medio approverà tutto ciò con solenni cenni del capo perché, d'altronde, non pagando le bollette se la sono proprio andata a cercare.
Siamo praticamente in piena campagna elettorale, non dimentichiamocelo: concetti come Ordine, Pulizia e Lotta al Degrado, in questi tempi di crisi ed incertezza, non sono altro che la miglior fabbrica di voti esistente (doloroso deja-vu, ndr).
L'acqua, da simbolo di vita è diventata ricatto, strumento di disuguaglianza sociale sul quale agire indiscriminatamente e Zingonia, dal canto suo, un laido contenitore di problemi da estirpare.
C’era una volta Renzo Zingone , c’era una volta Linda Davis e c’è, ancora, Zingonia, città fantasma abitata da “problemi” e non da “persone”, senz'acqua da mesi ma annegata nell'ipocrisia di una classe politica xenofoba e accentratrice, capacissima, come s'è già visto, di camminare sopra i diritti senza crearsi troppi scrupoli di coscienza.
Etichette:
a2a,
capitalismo verde,
ghetto,
migranti,
zingonia
La Corazzata a2a
SPECIALE A2A
Nulla di meglio di un esempio per comprendere le dinamiche del capitalismo “verde”.
Per una qualche contorta forma di esterofilia, ci aspettiamo che gli alfieri del rinnovamento“ecosostenibile” provengano da qualche landa lontana, magari dal Nord Europa o dagli Stati Uniti, ed invece uno degli esempi più interessanti vive proprio accanto a noi, distante non più di pochi passi dalle nostre vite, produce la nostra elettricità, riscalda le nostre case, smaltisce i nostri rifiuti.
In poche parole costituisce l’ossatura infrastrutturale del Comune di Milano, i suoi destini finanziari sono legati a filo doppio con la salute del bilancio dell’amministrazione pubblica, il suo controllo rappresenta uno dei punti cardine dell’egemonia politico-finanziaria milanese.
Stiamo parlando di A2A, una corazzata il cui giro di affari si aggira intorno ai seimila milioni di euro,
proprietaria, fra le altre, del 60% di Edison, del 25% di Metroweb, del 100% di Amsa, operatore accreditato per il trading di emissioni, certificati verdi ed infine presenza significativa nel mercato dei termovalorizzatori (sua è infatti la “nuova”gestione del termovalorizzatore di Acerra).
Questo gigante multiutility, almeno a parole, ha costruito il suo business attorno alla “sostenibilità”, pubblicando addirittura un bilancio a proposito e fregiandosi del fatto che “A2A ha sempre praticato la Sostenibilità anche verso l’intera comunità dei suoi Clienti, erogando servizi di qualità e producendo energia con tecnologie innovative ed adeguate alle esigenze sociali ed economiche oltre che ambientali.”.
Ripercorrere le vicende di A2A può aiutarci a comprendere meglio quelle che sono le dinamiche reali del capitalismo “verde” in salsa lombarda, gli scontri di potere al suo interno ed il peso reale della fin troppo citata “sostenibilità” in confronto al più banale profitto.
A seconda del livello di lettura, la storia di A2A è estremamente semplice o mostruosamente intricata. I libri di storia ne registrano la nascita il 1 gennaio 2008 in seguito ad una complessa fusione delle aziende di servizi municipalizzate di Milano e Brescia (AEM ASM AMSA); conseguentemente a questa operazione l' azienda è stata quotata in borsa.
I comuni delle due città d'origine, tuttavia, hanno mantenuto un significativo controllo sia in virtù delle quote azionarie in loro possesso sia in sede di nomina del management. Quello che i libri di storia spesso omettono , però, è il ruolo delle agevolazioni fiscali concesse dallo Stato sul finire degli anni '90 per favorire la quotazione in borsa delle aziende municipalizzate, permettendo l’ingresso di capitale privato all’interno delle stesse.
La Commissione Europea, nel giugno 2002, ha considerato questa iniziativa equiparabile ad un aiuto di Stato e perciò ha condannato A2A, fra le altre, alla corresponsione di una multa maximilionaria; il governo, recepita la direttiva, ne ha disposto il pagamento, ma l’azienda, dal canto suo, ha minacciato di azzerare il pagamento dei dividendi per far fronte alla maximulta.
E fin qui non sembrerebbe esserci nulla di particolarmente interessante se non fosse che i Comuni di Milano e di Brescia in veste di azionisti di maggioranza avrebbero fatto affidamento sui dividendi 2009 per garantire la tenuta finanziaria corrente e non stiamo parlando di bruscolini ma di una cifra che si aggira attorno ai 166 milioni di euro (dividendo anno 2008).
Come se non fosse già abbastanza assurdo che la stabilità finanziaria di amministrazioni pubbliche dipenda dalla performance di aziende private, il Comune di Milano, per aggiungere al danno la beffa, “incoraggiato”dal mancato rimborso del taglio dell’ICI (disavanzo di 30 milioni), starebbe pensando di risolvere il problema trasformando i crediti in titoli vendibili, ovvero, in gergo tecnico, cartolarizzando una serie di immobili di proprietà comunale fra cui sedi ANPI e centri sociali (Cox, Ponte della Ghisolfa), riuscendo in questo modo anche nell’intento di liberarsi di “scomode spine nel fianco”.
Da questa iniziativa possiamo comprendere una delle caratteristiche centrali del rinnovamento capitalista in analisi: non si evolve nel vuoto politico come vorrebbe il vangelo secondo il mercato, ma la sua genesi deriva da un equilibrio di poteri (e di nomine) strettamente connesso ai giochi delle forze politiche e, nello specifico lombardo, al “sultanato formigoniano”.
Per essere brutalmente chiari la situazione è questa: un’azienda privata entra in possesso,grazie ad aiuti di stato, della rete energetica lombarda, di fatto privatizzando l'erogazione di quanto, fino al giorno prima, costituiva un bene pubblico; quando questo stato di cose arriva alla sua logica conclusione, l’unica risposta compatibile con la stabilità finanziaria del sistema risulta essere un ulteriore ciclo di privatizzazioni e di svendita dei beni comuni; una strategia, quest’ultima, che fa decisamente emergere una linea di tendenza che, a guardarla con occhi disincantati, risulta avere più a che fare con il saccheggio che con la “libera impresa”.
Tuttavia, per comprendere A2A, il semplice dato finanziario non basta. Come scritto nelle righe precedenti, la sua redditività la rende una preda ambita nei giochi di potere lombardi: le nomine del management, secondo questi tristi maneggi, risultano perciò ostaggio del conflitto/cooperazione fra varie cordate politico-finanziarie.
Al momento i centri di potere principali sono due: uno organico al potere ciellino ed alla Compagnia delle Opere di Brescia, l'altro espressione del sindaco Moratti e della sua legione di consulenti “d'oro”; questi si spartiscono le poltrone più ambite ma in futuro non è da escludersi che componenti minori quali Lega e la holding politica della famiglia La Russa (ora confinati alla periferia del sistema) possano rosicchiare posizioni importanti.
Come già nel sistema sanitario lombardo, la Compagnia delle Opere ha il ruolo del leone tant’è che l’uomo chiave di A2A è proprio Graziano Tarantini, avvocato d' affari, presidente del Consiglio di Sorveglianza, ex presidente della Cdo bresciana e, fra le altre cose, presidente di Akros, nata in seno all’Opus Dei.
Un secondo ruolo di assoluto interesse, quello di direttore delle aree Corporate e Mercato, risulta
essere occupato da un secondo esponente di CL, Renato Ravanelli.
Oltre a questo, la cordata ciellina detiene anche parecchie posizioni di rilievo all’interno delle banche ed è quindi determinante per l’accesso al credito: lo stesso Tarantini è consigliere della Bpm, commissario della
fondazione Cariplo ed azionista di Intesa.
L’altra metà della società risulta essere in mano ai fedayin del sindaco Moratti: uomini di particolare risalto sono Rosario Bifulco, vicepresidente del Consiglio di Sorveglianza, già direttore di Lottomatica (da cui ha ricevuto un compenso di 32 milioni per 4 anni di lavoro) e Giuseppe Sala, ex direttore generale del Comune.
In quota Lega possiamo annoverare incarichi relativamente prestigiosi fra cui quello di Bruno Caparini padre di Davide, parlamentare lumbard: in ogni caso non è un mistero che i bossiani stiano spingendo per ottenere una fetta più grossa.
Questa lottizzazione terminale è uno dei molti paradossi di A2A: si tratta di una compagnia privata a guida politica, un po’ come le vecchie aziende di Stato… ma nel tal caso spartirsi la torta è legale.
Con un curriculum simile non sorprende che la compagnia viva perennemente in quella zona grigia esistente fra commesse di Stato, appalti e libero mercato. Alcuni esempi permetteranno di rendere più chiaro il tutto. In primo luogo il nucleare perché, nonostante tutta l'enfasi sulla sostenibilità e le energie rinnovabili, costruire centrali è un’attività assai proficua e di fronte al vil denaro anche le scorie radioattive possono diventare "amiche dell’ambiente". Del resto, non è un segreto per nessuno la guerra serrata che si sta combattendo per chi fra Edison, Enel e A2A si debba aggiudicare la cascata di denaro legata alla riattivazione del nucleare nel belpaese (al momento sembrerebbe averla spuntata Enel ma i giochi sono tutt’altro che chiusi).
D'altronde le opinioni di A2A sull’atomico sono abbastanza chiare: il direttore del Dipartimento Energia Gilardi ha recentemente affermato che il fotovoltaico è remunerativo solo perché sovvenzionato dallo Stato; in poche parole al progressivo ritiro delle sovvenzioni corrisponderà anche il ritiro di A2A dal suddetto mercato. Per quanto riguarda il nucleare i toni cambiano, infatti Zuccoli, presidente del Consiglio di Gestione, da tempo sostiene la necessità del ritorno al nucleare
arrivando anche a chiamare in causa il destino produttivo, la volontà della nazione, nonché il libero mercato, indispensabile grimaldello ideologico per contrastare la posizione dominante di Enel/EDF.
Curioso poi il fatto che ci si lamenti dei contributi "verdi" per il fotovoltaico ,dato che buona parte del business di A2A risulta essere finanziato dal sistema dei "certificati verdi" e non stiamo parlando di
eolico o solare ma dei cari vecchi inceneritori di rifiuti.
La storia dei certificati verdi è molto interessante e merita di essere raccontata: nel lontano 1992 il Comitato Interministeriale Prezzi dispose il pagamento di sovrapprezzi sul costo dell’energia elettrica da destinare in seguito, con l’altisonante nome di certificato verde, allo sviluppo di fonti energetiche rinnovabili ed "assimilabili"; tra tali fonti fu a poco a poco ammesso di tutto, dagli scarti di raffinazione del petrolio fino all’incenerimento dei rifiuti. Per renderci conto dell’assurdità, consideriamo che nel solo 2005 circa 4000 milioni di denaro pubblico sono stati destinati al finanziamento delle energie "assimilabili" contro i 1700 milioni dedicati allo sviluppo delle fonti realmente rinnovabili; nel 2004 ASM, una delle genitrici di A2A, ha ricevuto 55 milioni come "certificati verdi", tanti da potersi permettere annuali donazioni milionarie all’Assessorato all’Ecologia del comune di Brescia, ma abbiamo visto come in questo settore di mercato il conflitto di interesse non sia un eccezione quanto piuttosto, la norma.
Questo sarebbe già abbastanza, ma la nostra bolletta dell’energia elettrica non è l’unica sorgente di finanziamento per gli inceneritori in quanto anche parte della Tarsu (tassa sullo smaltimento dei rifiuti solidi urbani) contribuisce al sovvenzionamento degli stessi.
Quindi, l'incenerimento non solo si trova ad essere la soluzione più deleteria per lo smaltimento dei rifiuti con il peggiore equilibrio costi benefici, ma dobbiamo anche pagarne le spese di sviluppo; in pratica corrispondiamo il nostro denaro ad un’azienda privata perché ci fornisca un
servizio che però si scopre essere di qualità inferiore ad altre alternative non sovvenzionate e, per completezza, ci sarebbe da ricordare che se in Italia paghiamo tasse per sostenere i termovalorizzatori, nel resto d’Europa sono i termovalorizzatori a pagare le tasse.
Un'altra storia interessante per comprendere i fasti del capitalismo verde in salsa morattiana è quella della Zincar, società di proprietà di Comune (51%) ed A2A (27%) con quote minoritarie in mano a Provincia(12%) e Coldremar Italia (12%).
Lo scopo dichiarato di questa società avrebbe dovuto essere quello di sviluppare soluzioni per la circolazione automobilistica a zero emissioni di carbonio e dico “avrebbe dovuto” perché allo stato attuale la società risulta fallita: in perdita dal 2007, nell’aprile 2009 è venuto alla luce un buco nel bilancio di circa 18 milioni di euro che ha poi contribuito al fallimento datato maggio 2009.
Per quanto celebrati dalla stampa, gli affari di Zincar non sono mai decollati: al suo attivo ricordiamo l’installazione di una stazione di rifornimento per auto ad idrogeno nel quartiere Bicocca che, se non ci fosse il pericolo di trasformare la farsa in tragedia, potremmo definire l'ennesima cattedrale nel deserto.
Quale possibilità, infatti, di veder funzionare quel distributore dal momento che non solo nel nostro paese le automobili ad idrogeno sono considerate illegali e quindi prive del permesso di vendita e circolazione ma anche, soprattutto, i prezzi dell’idrogeno non sono nemmeno lontanamente competitivi con quelli di diesel, benzina e gpl?
La storia tuttavia non finisce qui, infatti i nostri non si limitavano a produrre carburante per auto inesistenti ma percepivano pure finanziamenti dalla Comunità Europea nell'ambito del progetto Urban II con lo scopo di costruire un "centro per la sicurezza" nella periferia milanese di Quarto Oggiaro, ora destinato a rimanere incompleto.
Purtroppo nella città delle "consulenze dorate", dei Moratti, dei Grossi e degli Abelli, il fallimento di Zincar non suscita nemmeno particolare scalpore, rappresentando piuttosto solo l’ultimo elemento di una serie di società in cui il pubblico paga i conti ed il privato miete i guadagni, con la sostenibilità che giustifica consulenze, studi di fattibilità e progetti che nemmeno si pensa di poter portare in essere; l’importante sembra essere spendere soldi, non certo generare profitto, meno che mai sostenibile e forse solo in questo senso l’esperienza di Zincar è miratamente significativa.
Nel 2006 il Comune di Milano rileva la società da Aem che fino ad allora ne aveva detenuto la quota di maggioranza, ma nessuno si preoccupa di controllarne i bilanci; proprio da qui nasce il sospetto che il buco sia precedente al 2006 e che il Comune abbia voluto comprare la società per togliere “la patata bollente” alla municipalizzata che, di lì a poco, avrebbe cominciato il cammino per confluire all'interno di A2A.
Ricostruire le spese di Zincar rischia di diventare complesso e poco significativo dal punto di vista teorico ma basandoci sulle note spese ritrovate dalla Guardia di Finanza possiamo ricomporre la fibra morale del capitalismo dal volto verde: 2000 euro per coprire una trasferta di Baldanzi e "ospiti" da Milano a Brindisi, 1500 euro spesi in "biglietti di Natale", 180.000 euro investiti in una delle tante consulenze della società pubblicitaria AP&B che vanta fra i suoi soci Massimo Bernardo, fratello dell’assessore regionale Maurizio; si finisce poi nel surreale considerando che Zincar erogava contributi a pioggia per iniziative nemmeno remotamente collegabili con la sostenibilità quali la "valorizzazione delle pietre tradizionali del Verbano Cusio Ossola" (circa 20.000 euro).
Se, come esplicato nell’editoriale, il "capitalismo verde" rappresenta gli "abiti nuovi" di un vecchio padrone, quella lombarda si configura come una situazione particolarmente drammatica in cui anche il termine "capitalismo" rischia di essere fuori posto dal momento che non esiste alcun ciclo di reinvestimento ma solo una logica di appropriazione della cosa pubblica che continua imperterrita dal craxismo fino all’attuale equilibrio ciellino- morattiano- leghista in cui il denaro pubblico viene utilizzato non tanto per costruire alternative sostenibili quanto per finanziare ulteriori sperequazioni, in una chiave più feudale che moderna.
L ultima storia è forse la più preoccupante: parla di acqua, di chi quell’acqua la eroga ( e può rifiutarsi di farlo) e di una città che non è nemmeno quello ma soltanto un’ "area": Zingonia, presso Bergamo.
Nulla di meglio di un esempio per comprendere le dinamiche del capitalismo “verde”.
Per una qualche contorta forma di esterofilia, ci aspettiamo che gli alfieri del rinnovamento“ecosostenibile” provengano da qualche landa lontana, magari dal Nord Europa o dagli Stati Uniti, ed invece uno degli esempi più interessanti vive proprio accanto a noi, distante non più di pochi passi dalle nostre vite, produce la nostra elettricità, riscalda le nostre case, smaltisce i nostri rifiuti.
In poche parole costituisce l’ossatura infrastrutturale del Comune di Milano, i suoi destini finanziari sono legati a filo doppio con la salute del bilancio dell’amministrazione pubblica, il suo controllo rappresenta uno dei punti cardine dell’egemonia politico-finanziaria milanese.
Stiamo parlando di A2A, una corazzata il cui giro di affari si aggira intorno ai seimila milioni di euro,
proprietaria, fra le altre, del 60% di Edison, del 25% di Metroweb, del 100% di Amsa, operatore accreditato per il trading di emissioni, certificati verdi ed infine presenza significativa nel mercato dei termovalorizzatori (sua è infatti la “nuova”gestione del termovalorizzatore di Acerra).
Questo gigante multiutility, almeno a parole, ha costruito il suo business attorno alla “sostenibilità”, pubblicando addirittura un bilancio a proposito e fregiandosi del fatto che “A2A ha sempre praticato la Sostenibilità anche verso l’intera comunità dei suoi Clienti, erogando servizi di qualità e producendo energia con tecnologie innovative ed adeguate alle esigenze sociali ed economiche oltre che ambientali.”.
Ripercorrere le vicende di A2A può aiutarci a comprendere meglio quelle che sono le dinamiche reali del capitalismo “verde” in salsa lombarda, gli scontri di potere al suo interno ed il peso reale della fin troppo citata “sostenibilità” in confronto al più banale profitto.
A seconda del livello di lettura, la storia di A2A è estremamente semplice o mostruosamente intricata. I libri di storia ne registrano la nascita il 1 gennaio 2008 in seguito ad una complessa fusione delle aziende di servizi municipalizzate di Milano e Brescia (AEM ASM AMSA); conseguentemente a questa operazione l' azienda è stata quotata in borsa.
I comuni delle due città d'origine, tuttavia, hanno mantenuto un significativo controllo sia in virtù delle quote azionarie in loro possesso sia in sede di nomina del management. Quello che i libri di storia spesso omettono , però, è il ruolo delle agevolazioni fiscali concesse dallo Stato sul finire degli anni '90 per favorire la quotazione in borsa delle aziende municipalizzate, permettendo l’ingresso di capitale privato all’interno delle stesse.
La Commissione Europea, nel giugno 2002, ha considerato questa iniziativa equiparabile ad un aiuto di Stato e perciò ha condannato A2A, fra le altre, alla corresponsione di una multa maximilionaria; il governo, recepita la direttiva, ne ha disposto il pagamento, ma l’azienda, dal canto suo, ha minacciato di azzerare il pagamento dei dividendi per far fronte alla maximulta.
E fin qui non sembrerebbe esserci nulla di particolarmente interessante se non fosse che i Comuni di Milano e di Brescia in veste di azionisti di maggioranza avrebbero fatto affidamento sui dividendi 2009 per garantire la tenuta finanziaria corrente e non stiamo parlando di bruscolini ma di una cifra che si aggira attorno ai 166 milioni di euro (dividendo anno 2008).
Come se non fosse già abbastanza assurdo che la stabilità finanziaria di amministrazioni pubbliche dipenda dalla performance di aziende private, il Comune di Milano, per aggiungere al danno la beffa, “incoraggiato”dal mancato rimborso del taglio dell’ICI (disavanzo di 30 milioni), starebbe pensando di risolvere il problema trasformando i crediti in titoli vendibili, ovvero, in gergo tecnico, cartolarizzando una serie di immobili di proprietà comunale fra cui sedi ANPI e centri sociali (Cox, Ponte della Ghisolfa), riuscendo in questo modo anche nell’intento di liberarsi di “scomode spine nel fianco”.
Da questa iniziativa possiamo comprendere una delle caratteristiche centrali del rinnovamento capitalista in analisi: non si evolve nel vuoto politico come vorrebbe il vangelo secondo il mercato, ma la sua genesi deriva da un equilibrio di poteri (e di nomine) strettamente connesso ai giochi delle forze politiche e, nello specifico lombardo, al “sultanato formigoniano”.
Per essere brutalmente chiari la situazione è questa: un’azienda privata entra in possesso,grazie ad aiuti di stato, della rete energetica lombarda, di fatto privatizzando l'erogazione di quanto, fino al giorno prima, costituiva un bene pubblico; quando questo stato di cose arriva alla sua logica conclusione, l’unica risposta compatibile con la stabilità finanziaria del sistema risulta essere un ulteriore ciclo di privatizzazioni e di svendita dei beni comuni; una strategia, quest’ultima, che fa decisamente emergere una linea di tendenza che, a guardarla con occhi disincantati, risulta avere più a che fare con il saccheggio che con la “libera impresa”.
Tuttavia, per comprendere A2A, il semplice dato finanziario non basta. Come scritto nelle righe precedenti, la sua redditività la rende una preda ambita nei giochi di potere lombardi: le nomine del management, secondo questi tristi maneggi, risultano perciò ostaggio del conflitto/cooperazione fra varie cordate politico-finanziarie.
Al momento i centri di potere principali sono due: uno organico al potere ciellino ed alla Compagnia delle Opere di Brescia, l'altro espressione del sindaco Moratti e della sua legione di consulenti “d'oro”; questi si spartiscono le poltrone più ambite ma in futuro non è da escludersi che componenti minori quali Lega e la holding politica della famiglia La Russa (ora confinati alla periferia del sistema) possano rosicchiare posizioni importanti.
Come già nel sistema sanitario lombardo, la Compagnia delle Opere ha il ruolo del leone tant’è che l’uomo chiave di A2A è proprio Graziano Tarantini, avvocato d' affari, presidente del Consiglio di Sorveglianza, ex presidente della Cdo bresciana e, fra le altre cose, presidente di Akros, nata in seno all’Opus Dei.
Un secondo ruolo di assoluto interesse, quello di direttore delle aree Corporate e Mercato, risulta
essere occupato da un secondo esponente di CL, Renato Ravanelli.
Oltre a questo, la cordata ciellina detiene anche parecchie posizioni di rilievo all’interno delle banche ed è quindi determinante per l’accesso al credito: lo stesso Tarantini è consigliere della Bpm, commissario della
fondazione Cariplo ed azionista di Intesa.
L’altra metà della società risulta essere in mano ai fedayin del sindaco Moratti: uomini di particolare risalto sono Rosario Bifulco, vicepresidente del Consiglio di Sorveglianza, già direttore di Lottomatica (da cui ha ricevuto un compenso di 32 milioni per 4 anni di lavoro) e Giuseppe Sala, ex direttore generale del Comune.
In quota Lega possiamo annoverare incarichi relativamente prestigiosi fra cui quello di Bruno Caparini padre di Davide, parlamentare lumbard: in ogni caso non è un mistero che i bossiani stiano spingendo per ottenere una fetta più grossa.
Questa lottizzazione terminale è uno dei molti paradossi di A2A: si tratta di una compagnia privata a guida politica, un po’ come le vecchie aziende di Stato… ma nel tal caso spartirsi la torta è legale.
Con un curriculum simile non sorprende che la compagnia viva perennemente in quella zona grigia esistente fra commesse di Stato, appalti e libero mercato. Alcuni esempi permetteranno di rendere più chiaro il tutto. In primo luogo il nucleare perché, nonostante tutta l'enfasi sulla sostenibilità e le energie rinnovabili, costruire centrali è un’attività assai proficua e di fronte al vil denaro anche le scorie radioattive possono diventare "amiche dell’ambiente". Del resto, non è un segreto per nessuno la guerra serrata che si sta combattendo per chi fra Edison, Enel e A2A si debba aggiudicare la cascata di denaro legata alla riattivazione del nucleare nel belpaese (al momento sembrerebbe averla spuntata Enel ma i giochi sono tutt’altro che chiusi).
D'altronde le opinioni di A2A sull’atomico sono abbastanza chiare: il direttore del Dipartimento Energia Gilardi ha recentemente affermato che il fotovoltaico è remunerativo solo perché sovvenzionato dallo Stato; in poche parole al progressivo ritiro delle sovvenzioni corrisponderà anche il ritiro di A2A dal suddetto mercato. Per quanto riguarda il nucleare i toni cambiano, infatti Zuccoli, presidente del Consiglio di Gestione, da tempo sostiene la necessità del ritorno al nucleare
arrivando anche a chiamare in causa il destino produttivo, la volontà della nazione, nonché il libero mercato, indispensabile grimaldello ideologico per contrastare la posizione dominante di Enel/EDF.
Curioso poi il fatto che ci si lamenti dei contributi "verdi" per il fotovoltaico ,dato che buona parte del business di A2A risulta essere finanziato dal sistema dei "certificati verdi" e non stiamo parlando di
eolico o solare ma dei cari vecchi inceneritori di rifiuti.
La storia dei certificati verdi è molto interessante e merita di essere raccontata: nel lontano 1992 il Comitato Interministeriale Prezzi dispose il pagamento di sovrapprezzi sul costo dell’energia elettrica da destinare in seguito, con l’altisonante nome di certificato verde, allo sviluppo di fonti energetiche rinnovabili ed "assimilabili"; tra tali fonti fu a poco a poco ammesso di tutto, dagli scarti di raffinazione del petrolio fino all’incenerimento dei rifiuti. Per renderci conto dell’assurdità, consideriamo che nel solo 2005 circa 4000 milioni di denaro pubblico sono stati destinati al finanziamento delle energie "assimilabili" contro i 1700 milioni dedicati allo sviluppo delle fonti realmente rinnovabili; nel 2004 ASM, una delle genitrici di A2A, ha ricevuto 55 milioni come "certificati verdi", tanti da potersi permettere annuali donazioni milionarie all’Assessorato all’Ecologia del comune di Brescia, ma abbiamo visto come in questo settore di mercato il conflitto di interesse non sia un eccezione quanto piuttosto, la norma.
Questo sarebbe già abbastanza, ma la nostra bolletta dell’energia elettrica non è l’unica sorgente di finanziamento per gli inceneritori in quanto anche parte della Tarsu (tassa sullo smaltimento dei rifiuti solidi urbani) contribuisce al sovvenzionamento degli stessi.
Quindi, l'incenerimento non solo si trova ad essere la soluzione più deleteria per lo smaltimento dei rifiuti con il peggiore equilibrio costi benefici, ma dobbiamo anche pagarne le spese di sviluppo; in pratica corrispondiamo il nostro denaro ad un’azienda privata perché ci fornisca un
servizio che però si scopre essere di qualità inferiore ad altre alternative non sovvenzionate e, per completezza, ci sarebbe da ricordare che se in Italia paghiamo tasse per sostenere i termovalorizzatori, nel resto d’Europa sono i termovalorizzatori a pagare le tasse.
Un'altra storia interessante per comprendere i fasti del capitalismo verde in salsa morattiana è quella della Zincar, società di proprietà di Comune (51%) ed A2A (27%) con quote minoritarie in mano a Provincia(12%) e Coldremar Italia (12%).
Lo scopo dichiarato di questa società avrebbe dovuto essere quello di sviluppare soluzioni per la circolazione automobilistica a zero emissioni di carbonio e dico “avrebbe dovuto” perché allo stato attuale la società risulta fallita: in perdita dal 2007, nell’aprile 2009 è venuto alla luce un buco nel bilancio di circa 18 milioni di euro che ha poi contribuito al fallimento datato maggio 2009.
Per quanto celebrati dalla stampa, gli affari di Zincar non sono mai decollati: al suo attivo ricordiamo l’installazione di una stazione di rifornimento per auto ad idrogeno nel quartiere Bicocca che, se non ci fosse il pericolo di trasformare la farsa in tragedia, potremmo definire l'ennesima cattedrale nel deserto.
Quale possibilità, infatti, di veder funzionare quel distributore dal momento che non solo nel nostro paese le automobili ad idrogeno sono considerate illegali e quindi prive del permesso di vendita e circolazione ma anche, soprattutto, i prezzi dell’idrogeno non sono nemmeno lontanamente competitivi con quelli di diesel, benzina e gpl?
La storia tuttavia non finisce qui, infatti i nostri non si limitavano a produrre carburante per auto inesistenti ma percepivano pure finanziamenti dalla Comunità Europea nell'ambito del progetto Urban II con lo scopo di costruire un "centro per la sicurezza" nella periferia milanese di Quarto Oggiaro, ora destinato a rimanere incompleto.
Purtroppo nella città delle "consulenze dorate", dei Moratti, dei Grossi e degli Abelli, il fallimento di Zincar non suscita nemmeno particolare scalpore, rappresentando piuttosto solo l’ultimo elemento di una serie di società in cui il pubblico paga i conti ed il privato miete i guadagni, con la sostenibilità che giustifica consulenze, studi di fattibilità e progetti che nemmeno si pensa di poter portare in essere; l’importante sembra essere spendere soldi, non certo generare profitto, meno che mai sostenibile e forse solo in questo senso l’esperienza di Zincar è miratamente significativa.
Nel 2006 il Comune di Milano rileva la società da Aem che fino ad allora ne aveva detenuto la quota di maggioranza, ma nessuno si preoccupa di controllarne i bilanci; proprio da qui nasce il sospetto che il buco sia precedente al 2006 e che il Comune abbia voluto comprare la società per togliere “la patata bollente” alla municipalizzata che, di lì a poco, avrebbe cominciato il cammino per confluire all'interno di A2A.
Ricostruire le spese di Zincar rischia di diventare complesso e poco significativo dal punto di vista teorico ma basandoci sulle note spese ritrovate dalla Guardia di Finanza possiamo ricomporre la fibra morale del capitalismo dal volto verde: 2000 euro per coprire una trasferta di Baldanzi e "ospiti" da Milano a Brindisi, 1500 euro spesi in "biglietti di Natale", 180.000 euro investiti in una delle tante consulenze della società pubblicitaria AP&B che vanta fra i suoi soci Massimo Bernardo, fratello dell’assessore regionale Maurizio; si finisce poi nel surreale considerando che Zincar erogava contributi a pioggia per iniziative nemmeno remotamente collegabili con la sostenibilità quali la "valorizzazione delle pietre tradizionali del Verbano Cusio Ossola" (circa 20.000 euro).
Se, come esplicato nell’editoriale, il "capitalismo verde" rappresenta gli "abiti nuovi" di un vecchio padrone, quella lombarda si configura come una situazione particolarmente drammatica in cui anche il termine "capitalismo" rischia di essere fuori posto dal momento che non esiste alcun ciclo di reinvestimento ma solo una logica di appropriazione della cosa pubblica che continua imperterrita dal craxismo fino all’attuale equilibrio ciellino- morattiano- leghista in cui il denaro pubblico viene utilizzato non tanto per costruire alternative sostenibili quanto per finanziare ulteriori sperequazioni, in una chiave più feudale che moderna.
L ultima storia è forse la più preoccupante: parla di acqua, di chi quell’acqua la eroga ( e può rifiutarsi di farlo) e di una città che non è nemmeno quello ma soltanto un’ "area": Zingonia, presso Bergamo.
Etichette:
a comunione e liberazione,
a2a,
ambiente,
capitalismo verde,
formigoni,
moratti,
zingoni
mercoledì 10 marzo 2010
Iscriviti a:
Post (Atom)